Ferdinando Camon, Avvenire 11/03/2012, 11 marzo 2012
VISO D’ANGELO CUORE DI DIAVOLO
Parte domani su Sky una miniserie di due puntate dedicate al capo della Mala del Brenta, Felice Maniero, soprannominato Faccia d’Angelo. E Faccia d’Angelo è il titolo della fiction.
Queste fiction sui grandi criminali hanno un pubblico, creano un’attesa e un dibattito. Perché? Perché i grandi criminali piacciono? Perché si fanno film su di loro?
Che cosa si aspetta il pubblico? Qual è la ricetta del successo per questo genere di opere? È il delitto? La ribellione alla società e allo Stato? La violenza? O l’espiazione e la redenzione? E come rientra Faccia d’Angelo in queste tematiche?
Se il tema di queste opere fosse l’espiazione e la redenzione, sarebbe la catarsi, e l’opera avrebbe uno scopo educativo. Così era quando la tragedia nasceva. Allora ci si preoccupava che il pubblico non ricevesse un messaggio anti– sociale, non venisse contagiato dalle passioni che si scatenavano sulla scena, ma se ne liberasse prima di uscire dal teatro. Perciò le passioni non dovevano essere estreme. Estrema passione è il delitto. Il delitto doveva venire nascosto, dietro una tenda, lo spettatore non lo vedeva. Anche per Manzoni era così: «La sventurata rispose» è una tenda dietro la quale avvengono turpitudini e delitti che il lettore non sa. Lo scopo dell’arte era la bellezza e l’educazione. Oggi lo scopo è il successo. I soldi. Un’opera si dice riuscita se guadagna molto, fallita se non fa cassa.
Il valore artistico, indicato dai critici, non c’entra e non influisce. Sulla scena, in tv e al cinema il successo si raggiunge non smorzando, ma scatenando la violenza. Il delitto va mostrato. E poiché il pubblico è mitridatizzato e il delitto non lo scuote più, occorre il superdelitto o la serie di delitti, il serial killer. Va bene Felice Maniero per questo ruolo? Benissimo, è un personaggio perfetto. La sua violenza colpiva bersagli non amati dal sentimento comune. Erano i compratori–venditori d’oro, di cui la provincia dove agiva Maniero era un concentrato, i portavalori con i loro camioncini blindati, le banche, le sale da gioco. Maniero diventa un mafioso, c’è tanta mafia al confino nel Nord, lui la cerca, entra in contatto, e ne impara le tecniche. Tra queste, la tangente e il pizzo. Impone un pizzo salato non a una bottega, a un ufficio, a un’azienda, perché allora sarebbe odiato dal popolo, ma al casinò. Lui ama la popolarità e il pubblico sente il denaro che corre nel casinò come un denaro gratuito, non costa fatica, si moltiplica o si perde col gioco. Un pizzo su questi guadagni è sentito come omologo ai guadagni stessi. È per questo che Maniero non è un bandito odiato. È un diavolo con la faccia d’angelo. Incarna il suo ruolo in maniera tipica, e dunque pacchiana: ammazza in scontri ravvicinati, con la pistola, festeggia alla popolana con pesce fritto e vino bianco, viene arrestato al largo di Capri sul suo yacht, che luogo comune! Messo in prigione più volte, evade più volte, e come? Con uno sfottò al sistema carcerario: evade pagando, mostrando così che il sistema carcerario che fa da lunga mano alla giustizia non è insensibile al male. Lui non ha la morale della nostra società, perché s’è fatto un’altra società, la banda. Ma non ha nemmeno la morale della banda, perché la tradisce denunciandola alla giustizia e facendola catturare tutta, da perfetto pentito collaborante. La mia tesi è che non c’è pentimento senza collaborazione, se ti penti del male devi eliminarlo.
Ma la prima figlia non resse a questo “caos etico”, e per il pentimento–tradimento del padre si suicidò. Maniero fu chiamato per il riconoscimento, e dritto sul cadavere della figlia guardava lontano esclamando: «Me l’hanno uccisa». Forse faceva meglio a non guardare lontano ma vicino. Molto vicino. Allo specchio.