Marcello Messori, CorrierEconomia 12/03/2012, 12 marzo 2012
I TROPPI RISCHI DEL SALVATAGGIO IN SALSA GRECA
Qualche anno fa un film dei fratelli Cohen ci ha magistralmente mostrato che gli Stati Uniti non sono un «Paese per vecchi»: da più di due anni, le istituzioni europee ci stanno invece convincendo che l’Unione economica e monetaria europea (Uem) non è un posto per «deboli di cuore».
Fra l’inizio del 2010 e i primi mesi del 2011, la Germania e i suoi satelliti hanno fatto in modo di varare tutti gli interventi di sostegno alla Grecia, all’Irlanda e al Portogallo solo ai tempi supplementari, quando quei Paesi stavano ormai cadendo nell’abisso. Poi, dall’estate del 2011, la cancelliera Merkel e il presidente francese Sarkozy hanno raccolto la tempesta, derivante dal vento seminato con l’accordo di Deauville dell’ottobre del 2010 e con il disegno originario del Meccanismo europeo di stabilità (Esm) del dicembre dello stesso anno.
Queste due iniziative hanno, infatti, previsto il coinvolgimento dei detentori privati di titoli del debito sovrano nei problemi dei Paesi emittenti e hanno, così, dichiarato ai mercati che il fallimento di uno Stato membro dell’Uem rientrava nell’ordine delle possibilità. E, nelle riunioni fra luglio e ottobre 2011, il Consiglio europeo ha subordinato il lancio di un nuovo e inevitabile programma di aiuti per la Grecia, basato su clausole più favorevoli rispetto al passato, con l’introduzione di un «taglio» volontario di circa il 50% nel valore dello stock del debito in mani private. Per giunta, esso ha richiesto all’autorità europea di regolamentazione di valutare ai prezzi di mercato tutti i titoli pubblici iscritti nei bilanci bancari. Non è sorprendente che un tale quadro di incertezza abbia alimentato le tensioni nell’Uem fino a sfociare nel contagio di due Paesi (Italia e Spagna), già con gravi difficoltà interne, e a minacciare una crisi di illiquidità del settore bancario.
Queste tensioni si sono, poi, ulteriormente acuite dopo il deludente esito delle riunioni tenute dalle istituzioni europee e internazionali fra l’ottobre e il novembre dello scorso anno. In un contesto del genere, una larga adesione delle banche e degli altri investitori privati al nuovo e più severo piano di ristrutturazione del debito greco, basato su un taglio di circa tre quarti nel valore dei titoli detenuti e posto a condizione del varo del programma di aiuti da 130 miliardi necessario per evitare il fallimento «disordinato» di quel Paese, era tutt’altro che scontato.
Viceversa, la settimana scorsa l’operazione ha avuto un successo che, fino a quattro mesi fa, sarebbe stato insperato: il tasso di adesione volontaria ha toccato lo 82%. Senza sottovalutare i progressi nel frattempo realizzati dall’Italia, gran parte del merito va attribuito alla Bce. Fra dicembre 2011 e gennaio 2012, la Bce ha contrastato i problemi di illiquidità del settore bancario mediante un duplice finanziamento di medio termine (tre anni) in quantità illimitata e a condizioni molto permissive. Finora le banche europee hanno utilizzato gran parte dell’ingente liquidità, così ottenuta, per riassorbire le componenti più costose dei loro passivi e per acquistare i titoli pubblici dei Paesi più sottovalutati (quelli italiani e spagnoli). Il conseguente miglioramento dei loro conti ne ha reso non traumatica l’adesione alla ristrutturazione greca.
L’82% supera largamente la soglia minima richiesta per attivare il previsto sostegno dell’Uem a favore della Grecia ed evitarne l’immediato e disordinato fallimento; peraltro, esso è inferiore alla soglia (90%) necessaria per innescare quel processo di aggiustamento del debito pubblico ellenico verso il 120% del Pil, che è una delle condizioni per la sua ipotetica sostenibilità. Il governo greco ha ribadito che, avendo superato il 75% delle adesioni volontarie, attiverà quelle clausole di azione collettiva in grado di estendere la ristrutturazione a tutti i possessori privati dei suoi titoli pubblici di diritto nazionale. In questo modo, il tasso di adesione supererebbe il 95%. Ciò rischierebbe però di trasformare l’adesione volontaria in un vero e proprio fallimento della Grecia, attivando le relative forme di assicurazioni (Cds); il che minerebbe la stabilità delle banche europee emittenti e della stessa Uem senza fornire alcuna garanzia al futuro della Grecia. Non è forse opportuno accontentarsi del temporaneo risultato raggiunto e, forti delle severe regole imposte dal fiscal compact, aiutare la Grecia a crescere? La partita per il salvataggio della Grecia e per la stabilità dell’euro non sta finendo ma si è appena riaperta.
Marcello Messori