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 2012  marzo 12 Lunedì calendario

I CONTI CHE LA POLITICA NON RIESCE A CHIUDERE

Scrivono i pubblici ministeri di Caltanissetta nell’atto conclusivo della nuova indagine sulla strage di via D’Amelio che nel 1993 — nonostante il poco tempo trascorso dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e le «lezioni di antimafia dispensate a parole» — accadde una cosa grave: «Lo Stato, nella specie alcuni dei suoi uomini più importanti, pensava di arretrare di fronte all’offensiva mafiosa».
Ma decise di farlo sottotraccia, affinché l’opinione pubblica non se ne rendesse conto: «Gli atti dimostrano che si voleva concedere qualcosa, senza che questo apparisse più di tanto. Una resa che non doveva essere compresa dai più, ma che doveva condurre alla fine delle stragi».
L’obiettivo era quello: non favorire Cosa Nostra ma fermare le bombe, interrompere la teoria di paura e di morte cominciata in Sicilia nel 1992 e proseguita sul continente l’anno successivo. Il tempo trascorso prima di giungere a una forte riduzione dei detenuti per mafia ristretti al «carcere duro», nella ricostruzione degli inquirenti, servì «per fiaccare le resistenze» di chi si opponeva ai cedimenti, anche solo apparenti. L’emozione suscitata dalle stragi, insomma, non avrebbe consentito una resa pubblica e dichiarata: «Il "partito della fermezza" era ancora forte. Ecco dunque la necessità di agire senza clamore. Ecco, dunque, il verosimile motivo di tante amnesie da parte di uomini di Stato, che per alcuni sono durate 17 anni, per altri continuano, probabilmente, a perdurare ancora oggi». Sono affermazioni pesanti, che chiamano in causa i silenzi e le reticenze della classe politica che vent’anni fa diede vita a una «ingloriosa stagione dello Stato italiano», accusano ora i magistrati. Perché fronteggiò il terrorismo mafioso tradendo la sbandierata linea della fermezza, lasciando che nell’ombra prendesse forma quella della trattativa. Dalle iniziative border line dei carabinieri che dialogavano con Vito Ciancimino fino alle decisioni ministeriali di alleggerire le condizioni carcerarie per centinaia di «uomini d’onore». Su tutto questo — nel ventesimo anniversario delle stragi che segnarono, insieme al ciclone di Mani Pulite, il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica — è arrivato forse l’ultimo momento utile per fare chiarezza. I magistrati hanno ricostruito ciò che potevano, scontrandosi con molti silenzi, «non ricordo» e versioni contrastanti. Che a volte appaiono comprensibili, anche in virtù del tempo trascorso, altre volte meno. Agli atti giudiziari sono state consegnate mezze verità che non soddisfano, e rischiano di ridurre tutto a scontri tra apparati; o a un’intreccio di casualità che ha prodotto ciò che oggi viene dipinta come una vera e propria «strategia di svuotamento» delle norme antimafia. Non ci possiamo fermare a questo. Sapere quel che davvero accadde tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia è utile anche per non incrinare la credibilità dello Stato di oggi, che affonda le proprie radici in quello di ieri. Per questo la politica dovrebbe farsene carico. Senza delegare ogni accertamento e giudizio, per l’ennesima volta, alla magistratura tenuta a fermarsi sulla soglia delle responsabilità penali. Gli inquirenti nisseni hanno già detto che per i rappresentanti dello Stato non ne hanno individuate, quelli palermitani stanno ancora indagando: comunque finirà sarebbe opportuno superare silenzi e ambiguità per arrivare a pronunce politiche, oltre che giudiziarie, su una storia che è politica prima che penale. Ed è inutile strumentalizzare gli esiti delle inchieste a seconda della convenienza politica contingente. Come sembrano fare, da ultimo, quei settori del centrodestra che accusano il centrosinistra per la trattativa del ’93, dimenticando che subito dopo è arrivato il ’94, con tutto quel che segue secondo le dichiarazioni dello stesso pentito (e non solo lui) a cui si deve la riapertura dell’indagine sulla strage di via D’Amelio e la trattativa. Non è un modo serio di affrontare la questione, come non lo è lo scontro sull’annullamento della condanna per il senatore Dell’Utri: ora si celebra il procuratore generale che ha criticato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa per attaccare chi, due anni fa, aveva giudicato colpevole il senatore. Dimenticando che il giudice di quella sentenza è lo stesso che, anni prima, aveva assolto Giulio Andreotti dall’accusa di mafia. Allora bravo e dopo non più, in attesa del prossimo verdetto da piegare alle esigenze di partito.
Giovanni Bianconi