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 2012  marzo 13 Martedì calendario

ROMA —

L’Italia è in recessione, ripete l’Istat confermando che l’ultimo trimestre del 2011 si è chiuso con una contrazione del prodotto interno lordo dello 0,7% mensile e dello 0,4% su base annua, che con la correzione delle giornate lavorate porta la crescita dell’intero anno a un magro 0,5%. I consumi, anche quelli alimentari, continuano a calare e sono ritornati al livello di trent’anni fa — del 1981 per la precisione — rivela una ricerca degli economisti di Intesa Sanpaolo, mentre la Coldiretti si affianca per testimoniare che non è diminuita solo la spesa ma anche la quantità dei prodotti acquistati.
Dati, statistiche, previsioni hanno un unico denominatore: la crisi che soffoca l’economia del Paese e preme sui redditi delle famiglie che riducono, dove possono, le loro spese. Anche se si tratta di cibo. Così, dice l’ufficio studi di Intesa San Paolo, nel 2011 c’è stato un calo degli acquisti di prodotti alimentari, bevande e tabacco dell’1,5% a prezzi costanti. Ciò vuole dire una spesa annua procapite di 2.400 euro l’anno, circa 6-7 euro al giorno a testa. «Si deve tornare ai primi anni 80 per scendere al di sotto dei 2.400 euro annui destinati al comparto agroalimentare», si legge nel rapporto. Tre anni fa, quando la recessione ha colpito duro, è andata peggio: per nutrirsi gli italiani hanno speso tra il 2008 e il 2009 il 5% in meno, ma la prosecuzione del calo nel biennio successivo in un settore dei consumi definiti incomprimibili testimonia come al di la dell’ammontare siano cambiate per la maggioranza degli italiani anche le abitudini di spesa. In parte, per qual che riguarda per esempio il tabacco, «si tratta di un trend strutturale legato al minore consumo». Per il resto invece il fenomeno si spiega con l’oculatezza degli acquisti che riduce gli sprechi e con la scelta di rivolgersi di preferenza ai discount o direttamente al produttore per risparmiare. «L’incremento della disoccupazione unito agli effetti delle manovre di correzione dei conti pubblici sulle famiglie fanno prevedere una nuova riduzione dei consumi» che «continueranno a essere molto prudenti a fronte di risorse reddituali sempre più scarse».
A fare i conti della diminuzione dei consumi, non dal punto di vista della spesa, ma della quantità è la Coldiretti: nel 2011 sulle tavole degli italiani, si segnala, sono arrivati meno carne bovina (-0,1%), meno carne di maiale e salumi (-0,8%), meno frutta e verdure (-1%) e meno latte fresco (-2,2%).
Le famiglie hanno ridotto i consumi di carne e frutta, spiega la Coldiretti, invertendo la tendenza all’aumento che si è verificata negli ultimi 30 anni, durante i quali i consumi pro capite in grammi al giorno erano passati per la carne da 206 del 1980 a 241 del 2010 e per la frutta da 308 del 1980 a 418 del 2010». Nel 2011 il valore del fatturato dell’industria alimentare «è cresciuto solo del 2,4%», precisa la Federalimentare segnalando però, come fa anche lo studio di Intesa Sanpaolo, che l’export ha avuto invece un aumento del 10% (13% verso i Paesi extra Ue e 6% verso i Paesi Ue), e si «conferma il principale fattore di crescita per un settore che sul mercato interno sconta la forte contrazione dei consumi».
Stefania Tamburello

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MILANO — Come 30 anni fa, come nel 1981. Nel 2011 gli italiani hanno speso 2.400 euro a testa per alimentari, bevande e tabacco, rivela una ricerca del centro studi di Intesa Sanpaolo. In questo salto indietro di tre decadi sono racchiuse tutte le difficoltà delle famiglie quando oggi fanno la spesa. Perché è vero che l’aumento dei consumi alimentari pro capite, oltre una certa soglia, si ferma in termini di quantità. Dovrebbe semmai cambiare sul piano qualitativo: nel tempo tendiamo infatti a spendere di più, perché compriamo l’orata invece del nasello, il vino di marca invece di quello da tavola.
Ma la questione è assai più complicata di come appare. Gli italiani, ancora ignari di derivati e investimenti esotici, nel 1981 si sentono ricchi perché i Bot hanno interessi a due cifre: i buoni a 12 mesi rendono il 18,98% lordo (e il 16,55% netto); i titoli a tre mesi, nell’asta di novembre, arrivano fino a un rendimento massimo del 21,55%. Ma l’inflazione è al 18,7%. Però c’è la scala mobile, che aggancia i salari al carovita, proteggendo in qualche modo il potere d’acquisto. Anche se innesca una pericolosa spirale salari-prezzi-inflazione, insostenibile nel lungo periodo. Tant’è che fu prima tagliata di 4 punti nel 1984 dal governo di Bettino Craxi e poi abolita da Giuliano Amato nel ’92. «Non poteva durare, ma nell’arco di pochi anni quell’inflazione a due cifre non ebbe poteri devastanti sul potere d’acquisto degli italiani», ricorda Luigi Campiglio, docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Vero, i consumi si fermano per un paio di anni, ma venivamo da una corsa infinita cominciata con il Boom economico, a parte la frenata durante la crisi energetica del ’73. È tempo di crisi in tutto il mondo. In America sono gli anni della grande stretta monetaria: appena Ronald Reagan diventa presidente e decide di domare l’inflazione. L’Italia, però, ha ancora la lira e la sua politica monetaria, che a colpi di svalutazioni competitive aiuta le imprese a rialzare la testa, esportando di più. Un altro metodo poco difendibile e foriero di guai nel lungo termine. Noi deprezziamo la moneta, in Francia nell’81 sfreccia il primo Tgv.
Ma grazie a questi meccanismi, gli italiani riescono a salvaguardare la busta paga. E se all’inizio degli anni Ottanta i consumi di cibo e bevande diminuiscono è perché «la quota percentuale di reddito per la spesa alimentare si riduce per consumare altro: abbigliamento, auto e viaggi. Sono queste le grandi categorie di spesa che crescono di più subito dopo», spiega Campiglio. Come cresce il consumo di televisione, che quell’anno fa stare gli italiani incollati allo schermo per vedere Alice vincere il Festival di Sanremo con la canzone «Per Elisa» o per seguire la tragedia di Vermicino, quando il piccolo Alfredo Rampi cade in un pozzo; per ammirare il faraonico matrimonio di Lady Diana e Carlo d’Inghilterra o trepidare alla notizia dell’attentato a Giovanni Paolo II.
«Se il consumo alimentare rimane costante e il reddito pro capite aumenta è un buon segnale, perché la gente mangia a sufficienza e ha più spazio per migliorare il tenore di vita. Ma oggi non è così», dice preoccupato Campiglio. Per diverse ragioni. La prima considerazione è di tipo demografico: «A 20 anni un ragazzo mangia come un lupo, solo la componente più giovane della popolazione è in declino demografico da molti anni. Il consumo alimentare dipende anche dall’età: gli anziani mangiano meno, è dimostrato. Ho stimato che la popolazione italiana di età tra i 20 e i 39 anni tra il 2002 e il 2010 è crollata di due milioni e mezzo, compensata solo in parte con l’arrivo di un milione di giovani immigrati». La seconda considerazione: «In Italia in questi ultimi anni abbiamo registrato un’immigrazione molto elevata, ma povera per capacità di acquisto».
C’è un altro aspetto, che «disorienta»: la dinamica dei prezzi in Italia ha cambiato le priorità di spesa. Oggi in Italia i prezzi dei beni ad alta frequenza di acquisto, cioè il cosiddetto carrello della spesa, è cresciuto del 4,5%. «A questi livelli o diminuisce la quantità o la qualità». Con uno studio recente Campiglio ha verificato che il mangiare non è più al primo posto. «Prima si paga l’affitto, poi i costi dei trasporti per andare e venire dal lavoro e il mangiare, paradossalmente, diventa residuale. L’Italia è costantemente al di sopra del tasso medio di inflazione per alcune categorie di beni, tra cui gli alimentari, che nel nostro Paese sono aumentati più che in Francia e in Germania, ma noi non abbiamo lo stesso reddito pro capite di tedeschi e francesi. Il pane è un caso emblematico». Non solo. «Le famiglie con i più bassi livelli di reddito e consumi hanno registrato un tasso di inflazione più alto delle famiglie con reddito elevato».
Il cerchio si chiude: componente demografica, immigrazione povera, forte rincaro dei prezzi legato alle inefficienze della catena distributiva. Ecco perché, secondo l’economista, più che di articolo 18 bisognerebbe parlare di politiche a favore della famiglia: «Orami è un po’ tardi ma, se vogliamo invertire la tendenza demografica, dobbiamo pur cominciare». E «più che aumentare il numero delle farmacie, bisognerebbe riformare la filiera alimentare. Liberalizzare significa abbassare le barriere all’ingresso, occupiamoci subito dell’agroalimentare».
Giuliana Ferraino

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MILANO — Ottocentocinquanta lire per un litro di benzina. Era il 1980, e la cifra sembra quasi un’esagerazione — al ribasso — pensando ai folli prezzi di oggi. Ma al di là delle facili apparenze, tenuto conto che in quel periodo l’inflazione galoppava a due cifre, addirittura intorno al 22%, facendo due rapidi calcoli di conversione e attualizzazione dei valori di allora, si scopre che per fare il pieno di «super» (che resterà in vendita fino al 2002, prima di essere bandita dal mercato e sostituita dall’«ecologica» benzina «verde») spendevamo l’equivalente di poco più di 1 euro e mezzo al litro (1,544 euro, per la precisione).
Di certo, per gli automobilisti, il 1980 è già stato archiviato alla storia come l’anno di massima convenienza per il diesel: il gasolio quell’anno costava quasi la metà (il 44%) rispetto alla benzina. E anche con il beneficio della conversione ai prezzi attuali, il valore corrisponde a quasi 69 centesimi di oggi (0,686 euro per un litro). Un privilegio, in quegli anni, fare il pieno con questo particolare tipo di carburante. Che però riguardava una decisa minoranza: a fronte di 17 milioni e mezzo di auto in circolazione (17.686.000; mentre sulle strade di oggi ne circolano più di 37 milioni), 15 milioni e mezzo erano a benzina, e solo 454 mila avevano un motore diesel.
Ma tanta differenza ha anche una ragione: il differente peso fiscale che gravava sui due carburanti. In effetti, i pochi automobilisti, quasi dei pionieri alla guida di auto che all’epoca si differenziavano per il «rumore della miseria» (il rumore degli iniettori dei motori, di derivazione camionistica) e che alle stazioni di servizio in autostrada facevano la coda dietro ai camion, pagavano sì il gasolio meno della benzina, ma allo Stato dovevano integrare il «mancato introito» con il «superbollo» per auto diesel, introdotto a partire dal 1980. Questo balzello, che resterà in vigore fino al 1997, era stato pensato per scongiurare ulteriori ricadute inflazionistiche, sui prodotti alimentari in primis, determinate dal trasporto su camion, che, allora come oggi, assorbiva più dell’80% del trasporto merci italiano.
Gabriele Dossena
gdossena@corriere.it