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 2012  marzo 11 Domenica calendario

Il giardino dei frutti perduti (L’Artistica Editrice di Savigliano, pp. 404, 40) Mele con l’anima - “Fare tutto nel modo migliore, anche se questo richiedeva notevole fatica»

Il giardino dei frutti perduti (L’Artistica Editrice di Savigliano, pp. 404, 40) Mele con l’anima - “Fare tutto nel modo migliore, anche se questo richiedeva notevole fatica». È stato il precetto, molto piemontese, che ha sempre ispirato il lavoro dei fratelli Roda, Giuseppe e Marcellino. Partiti come semplici giardinieri al Parco di Racconigi, presto apprezzati da re Carlo Alberto, mandati in giro per l’Europa (Francia, Olanda, Inghilterra) a perfezionarsi in viaggi d’istruzione (bell’esempio di meritocrazia sabauda) e addirittura all’Accademia di Brera perché imparassero a disegnare. Non c’era altro modo di documentare scientificamente le specie vegetali. I Roda crescono professionalmente, diventano «disegnatori e costruttori di parchi, giardini, e frutteti», imprenditori ortofrutticoli lungo la strada per Orbassano, direttori di parchi, docenti universitari. Tra il 1881 e il 1883 dedicano 169 tavole ad altrettante cultivar di mele, pere, pesche, susine, fragole. Giuseppe lavora a punta sottile, acquerello e tempera, Marcellino redige informazioni, descrizioni dettagliate, osservazioni scientifiche. Ne esce un meraviglioso Pomario italiano che Loescher dovrebbe pubblicare nel 1882. Il frontespizio è già pronto: «Descrizione, coltivazione e cenni storici di cento delle principali piante fruttifere coltivate in Italia. Opera illustrata con tavole e figure intercalate nel testo disegnate dal vero dagli autori». Poi qualcosa va storto, tavole e testi rimangono nei cassetti, arrivano fino a un discendente colto e sensibile, il professor Ermanno Vercellotti Dall’Aglio, che a sua volta nel 1999 affida il tesoretto all’Archivio di Stato, alle accorte mani di Guido Gentile. E finalmente, centotrent’anni dopo, il Pomario arriva a pubblicazione per le cure competenti e appassionate di Elena Accati, con la collaborazione di Agnese Fornaris. È il nuovo capitolo di un lavoro di riscoperta e valorizzazione di un patrimonio culturale di cui fiori, piante e giardini sono parte integrante. Il titolo è per forza cambiato: Il giardino dei frutti perduti , perché nel frattempo le cultivar disegnate e descritte dai fratelli di Racconigi sono quasi tutte scomparse, a pro di varietà più redditizie (L’Artistica Editrice di Savigliano, pp. 404, 40). Ad apertura di pagina, l’incanto è garantito: si è come investiti da un aroma che il tempo ha reso indelebile. Delicatamente appoggiate su un cartoncino beige, talora sezionate, le mele, le pere, le pesche, le susine ritratte da Giuseppe sembrano i ritratti di altrettante persone sorprese nelle piccole imperfezioni che le rendono più vere e care. L’effetto è tale che ci sembra di percepire la setosità della buccia, la consistenza della polpa, il suo profumo. Qualcosa di molto più profondo della fotografia. L’amore, il rispetto, la tenerezza pittorica producono una trasfigurazione poetica, lirica e fiabesca; l’esattezza scientifica diventa incantamento reverenziale, stupore religioso. Penso alla gioia che questo album avrebbe dato a tanti scrittori. Italo Calvino, ghiotto d’ogni tipo di variazione combinatoria, ne avrebbe fatto dono ai genitori, insigni agronomi e botanici. Carlo Emilio Gadda, che ha chiamato Pirobutirro il protagonista della Cognizione del dolore , ne avrebbe ricavato un elzeviro pirotecnico dei suoi. Primo Levi vi avrebbe riconosciuto la perfetta fusione tra arte e scienza che gli era cara, lui che raccontava i piaceri del lavoro manuale e si estasiava davanti alle meraviglie dell’uovo, condensato di sapienza biologica racchiusa nella perfezione del suo design. Eugenio Montale («Godi se il vento ch’entra nel pomario...»), e prima di lui Guido Gozzano avrebbero distillato versi divertiti con i semplici nomi di questi frutti: Mela Calvilla Bianca d’Inghilterra, Bella del Bosco, Rosa Gentile, Rosmarino Bianca, Coquette de Visée, Court-Pendu di Savoia, Cansinetta Rossa d’Inverno, Renetta di Cambridge, Gelata di Napoli, Grand Alexandre, Morosina di Piacenza, Mostruosa di Nikita, Madama Trama, Appiola Nera, Borda… Ognuna ha la sua storia, la sua anima. Della Mela Carla, originaria di Finalmarina, i Roda scrivono: «Quantunque sia eccellente in istato naturale, dessa è però anche assai buona per cuocere. Nel Genovesato, secondo il Gallesio, se ne fa grande uso per gli ammalati cuocendola lentamente colla brace, ed i confettieri ne fanno dei gelati all’Ananasso, rialzandone il sapore coll’aggiunta di un po’ di scorze di limone». Nella nostra folle corsa all’omologazione (coltivazioni estensive di poche specie e varietà particolarmente produttive), abbiamo buttato a mare la biodiversità, come ben ricorda la nota che Piero Bianucci dedica al tema. Le forme viventi note e classificate, tra vegetali e animali, sono poco più di un milione, ma si stima che quelle da scoprire siano dieci volte più numerose. Intanto le deforestazioni e l’inquinamento minacciano il 70% del patrimonio verde. Chissà che il Pomario dei Roda, da mettere accanto ai non meno strepitosi frutti del Garnier Valletti in resina e polvere d’alabastro, ci possa rendere un po’ più avvertiti, un po’ più orgogliosi di certi nostri grandi antenati. ERNESTO FERRERO *** Un grande patrimonio genetico che stiamo sperperando - Quando lo sa fare, l’etologo non fotografa: disegna. La matita è meno invasiva dell’obiettivo e coglie dinamiche segrete che sfuggirebbero alla istantaneità meccanica dello scatto. Gli animali riassunti in poche linee nervose da Danilo Mainardi lo dimostrano. Il discorso vale ancora di più per il botanico, se del suo soggetto immobile vuole rendere i colori elusivi, il livido impresso da un chicco di grandine, o addirittura evocare, per via subliminale, aromi e sensazioni tattili. Lo sapeva fare Giuseppe Roda, cultore isolato di quella «Art of the Natural History» ben affermata nel mondo anglosassone. Così, un filo di sgomento ti assale riconoscendo nei suoi acquerelli varietà di mele, pere, albicocche, prugne che non esistono più. Ormai, a sentire Stephen Hooper, direttore del Royal Botanical Gardens Kew (presso Londra), la conversione a uso agricolo di habitat naturali mette a rischio una pianta su tre. Di fronte a tanta biodiversità perduta, a mitigare la nostra malinconia interviene la consapevolezza che oggi solo colture estensive di poche specie ben selezionate e molto redditizie possono sfamare i 7 miliardi di abitanti del pianeta. Su 250 piante di interesse agricolo, 15 da sole forniscono il 90 per cento delle calorie della dieta umana. Tre cereali – riso, mais e grano – bastano a coprirne il 60 per cento. È una efficienza insidiosa. Basterebbe la mutazione di un parassita per scatenare carestie devastanti. Una mutazione che qualche bioterrorista potrebbe persino indurre in laboratorio. Dunque gli acquerelli di Roda hanno anche il merito di ricordarci il grande patrimonio genetico che stiamo sperperando. Per questo ciò che rimane – e per fortuna non è poco – viene messo al sicuro nelle banche del germoplasma. La più importante cassaforte della biodiversità sorge a Longarbyen, capitale delle isole Svalbard, nel Mar Glaciale Artico, dentro una miniera abbandonata a cui si accede da un tunnel di 80 metri. Lì, sotto l’egida della Fao, stanno al sicuro già 300 mila campioni di semi provenienti da cento Paesi. Altri se ne aggiungono ogni giorno. Ma non vorremmo mai dover ricorrere a quella Banca per respirare il profumo del Ramassin di Saluzzo, la piccola prugna ovale sfrattata da sconfinate coltivazioni di actinidia. Il suo aroma, per tanti di noi, batte le madeleine di Proust. PIERO BIANUCCI