MAURIZIO MOLINARI, La Stampa 11/3/2012, 11 marzo 2012
Anche la Cina finisce in rosso - La Cina ammette il maggiore deficit commerciale dal 1989 tradendo un nuovo segnale di difficoltà della propria crescita
Anche la Cina finisce in rosso - La Cina ammette il maggiore deficit commerciale dal 1989 tradendo un nuovo segnale di difficoltà della propria crescita. A diffondere i dati sono le autorità di Pechino secondo le quali in febbraio lo squilibrio fra importazioni ed esportazioni ha raggiunto 31,5 miliardi di dollari per l’effetto combinato della crisi del debito europeo, che ha rallentato la domanda dal Vecchio Continente, e della crescita degli acquisti di materie prime, a cominciare da greggio, rame e ferro, per sostenere l’alto ritmo di investimenti interni. Il deficit nasce dal fatto che le importazioni sono cresciute del 39,6 per cento rispetto all’anno precedente, raggiungendo 145,9 miliardi di dollari, mentre le esportazioni sono diminuite del 18,4 per cento, scendendo a 114,5 miliardi di dollari. Ad evidenziare il rallentamento c’è il fatto che le esportazioni in gennaio-febbraio hanno rallentato al 6,9 per cento mentre le importazioni sono aumentate nello stesso periodo del 7,7 per cento. Sebbene i dati siano in parte distorti dal fatto che il nuovo anno lunare cinese è iniziato nel 2012 in gennaio e nel 2011 in febbraio, le autorità di Pechino non nascondono il momento di difficoltà come dimostra il fatto che il ministro del Commercio Cheng Deming pochi giorni fa aveva avvertito che per riuscire a far crescere gli scambi del 10 per cento nell’anno corrente «saranno necessari sforzi ardui». Ciò che colpisce è come il deficit si sia registrato nonostante Pechino abbia consentito un ulteriore indebolimento dello yuan rispetto al dollaro, dall’inizio del 2012, al fine di sostenere le esportazioni verso i mercati dei Paesi industrializzati colpiti da crisi finanziaria e recessione. Si tratta del deficit commerciale maggiore di Pechino dal 1989 perché l’unico precedente risale al febbraio del 2004 quando il saldo negativo fu di 7,87 miliardi di dollari ed a confermare la duplice origine sono i dati che arrivano da Pechino. Sul fronte dell’Unione Europea, il maggiore mercato delle esportazioni cinesi nel 2011, infatti si è registrato in gennaio un calo del 3,2 per cento che in febbraio non è stato recuperato nonostante un’inversione di tendenza del 2,2 per cento, lasciando intendere che le oscillazioni degli acquisti da parte del Vecchio Continente tendono ad un saldo negativo. Riguardo invece alle importazioni di materie prime, quelle di rame in febbraio sono state le seconde più alte di sempre mentre per il greggio si è trattato del record assoluto, dovuto ad un prezzo al barile che ha raggiunto 112,39 dollari rispetto ai 92,28 dello scorso anno. L’aumento della domanda interna di petrolio si deve alla stagione agricola, che vede milioni di contadini impegnati nella semina, e alla decisione del governo di Pechino di accrescere le proprie riserve strategiche nel timore di dover fronteggiare situazioni di emergenza a causa dei venti di guerra che spazzano il Golfo Persico. A questo bisogna aggiungere situazioni specifiche come le difficoltà di Suntech Power Holdings, il maggiore produttore mondiale di pannelli solari, la cui azienda cinese Wuxi prevede un declino degli ordini del 30 per cento nel primo trimestra a causa della maggiore competizione internazionale e della riduzione dei sussidi governativi. Il deficit di febbraio viene comunque considerato da Goldman Sachs come un «dato stagionale» che non impedirà a Pechino di confermare il surplus annuale ma il fatto che si sia registrato, in maniera imprevista, è un campanello d’allarme sulla vulnerabilità del gigante cinese al rallentamento delle maggiori economie così come ai prezzi delle materie prime. D’altra parte Pechino prevede di chiudere l’anno corrente con un aumento del pil del 7,5 per cento, in discesa rispetto alla media del 10 per cento degli ultimi tre decenni. MAURIZIO MOLINARI *** “Troppi investimenti e consumi bassi I pericoli di Pechino” - La Cina paga l’eccesso di squilibrio fra investimenti e consumo, deve correggerlo per evitare di innescare una nuova crisi asiatica». A sostenerlo è Douglas Paal, vicepresidente della Fondazione Carnegie a Washington nonché ex direttore per l’Asia nel consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca di George H. W. Bush. Da dove nasce il maggiore deficit commerciale cinese dal 1989? «Dal fatto che importano troppe materie prime per alimentare una corsa sfrenata agli investimenti, dovuta alla convinzione che sia questa modernizzazione forzata la strada migliore per sostenere la crescita interna». Quale è il punto debole di questi investimenti? «Hanno un effetto limitato sulla crescita. Si tratta della costruzione di autostrade, centri commerciali, treni veloci e complessi per appartamenti che sorgono a velocità impressionante ma restano senza utenti perché i consumi sono ancora troppo bassi. La Cina acquista ingenti quantità di materie prime per sostenere la realizzazione di strutture che restano spesso vuote. Il treno veloce di Shanghai, di cui tanto si parla, è spesso vuoto perché in pochi possono permettersi il prezzo del biglietto così come i centri commerciali che sorgono come funghi restano senza acquirenti perché la gente non ha soldi abbastanza da spendere». Quale è il rischio per Pechino? «Di andare incontro ad una crisi da modernizzazione forzata come quelle attraversate dal Giappone nel 1990, dalla Corea del Sud nel 1998 e da Taiwan a metà degli anni Ottanta. Per scongiurare tale scenario gli investimenti devono rallentare e i consumi aumentare». Ma in realtà gli stipendi in Cina stanno aumentando... «Certo, crescono, ma non a sufficienza per tenere il ritmo degli investimenti». Cosa c’è dietro la debolezza dei consumi? «Da un lato il fatto che il governo cinese dovrebbe impegnarsi per aumentare il tenore di vita della popolazione dall’altro c’è il problema di come i cinesi gestiscono i loro risparmi». Ovvero? «Chi ha redditi bassi non ha molte alternative e mette i soldi nei conti correnti ma le banche versano interessi inferiori all’inflazione e dunque i risparmi diminuiscono di valore. Chi invece ha redditi più alti mette i soldi in investimenti immobiliari o in progetti industriali e in questa maniera contribuisce a spingere ulteriormente in avanti gli investimenti. Ciò che manca è il consumo interno collegato al miglioramento delle condizioni di vita». È per questo che la Banca Mondiale con il suo recente rapporto ha lanciato l’allarme sul rischio di un rallentamento della crescita di Pechino? «La Banca Mondiale ha messo nero su bianco quanto la dirigenza cinese dibatte da oltre dieci anni. Pechino è ben al corrente delle riforme economiche e sociali da varare per correggere gli squilibri interni della propria economia ma non riesce ad accordarsi su come e quando farlo». L’atteso insediamento in autunno del nuovo presidente cinese Xi Jinping può riuscire a rompere questa situazione di stallo? «E’ tutto da vedere. Bisogna tener presente che in ottobre assieme a Xi vi sarà un ricambio al vertice nelle 8-10 posizioni più importanti del partito comunista. L’interrogativo è se emergerà una dirigenza omogenea. Al momento ciò che sappiamo è che fra Xi e Li Keqiang, che dovrebbe sostituire Wen Jiabao nel ruolo di premier, vi sono frizioni tali da impedire all’uno di sostenere l’altro nelle reciproche elezioni. Si tratta di frizioni su economia e modello sociale. Per avere un’idea dello stallo in cui si trova Pechino bisogna guardare a Washington dove il Congresso è bloccato dai veti incrociati fra repubblicani e democratici: loro non hanno partiti diversi bensì fazioni in disaccordo dentro lo stesso partiti. Ma il risultato politico è assai simile». [M. MOL.]