FRANCESCO GUERRERA, La Stampa 11/3/2012, 11 marzo 2012
UN MONDO SENZA LOCOMOTIVA
Il Big Mac è in difficoltà e la colpa è della crescita anemica dell’economia mondiale.
Ormai è ufficiale: il panino più famoso del mondo – due hamburger con pezzi di lattuga un po’ troppo grandi e la famosa salsa «segreta» – sta vendendo poco.
Gli analisti di Wall Street – che di solito preferiscono il caviale al fast food – sono stati tutti orecchie la settimana scorsa quando la McDonald’s ha messo in guardia i mercati dicendo che la prima parte dell’anno sarà dura.
La povera multinazionale del panozzo non sa dove guardare. In Europa, la recessione ha fatto tirare la cinghia un po’ a tutti e la gente sta incominciando a portarsi il pranzo da casa. Gli americani si stanno ingozzando meno perché la ripresa è lemme lemme. E persino in Asia, lo Shangri-la di tutte le aziende in cerca di crescita, il rallentamento di economie-guida come la Cina e l’India tiene la gente lontana dai «ristoranti» con gli archi gialli.
Se si trattasse solo di hamburger e patatine, poco male. Ma il Big Mac – offerto a 68 milioni di avventori in 119 Paesi ogni giorno - è una cartina al tornasole dell’economia mondiale.
I risultati non sono incoraggianti. Per la prima volta nel dopo-guerra, c’è il rischio che il pianeta si trovi senza una locomotiva economica.
Gli Usa, il motore degli ultimi decenni, mancano all’appello.
La ripresa c’è ma sta avanzando come i ghiacciai. La disoccupazione rimane altissima, anche se in calo, e la crisi del mercato immobiliare ha distrutto la fiducia dei consumatori. Il cuore dell’economia americana non ha ancora un battito regolare.
Di Europa, purtroppo sappiamo pure troppo. La Grecia sarà anche riuscita a persuadere i creditori ad accettare meno soldi al fine di evitare il disastro totale ma si tratta di una vittoria di Pirro. Tra austerità, instabilità politica e problemi finanziari di banche e risparmiatori, l’Europa rimarrà in recessione per un altro anno almeno.
E l’Asia? Il continente dei poteri emergenti che avrebbe dovuto prendere la guida dell’economia mondiale dalla stanca America e vecchia Europa? Il passaggio di consegne dovrà aspettare.
La settimana scorsa Wen Jiabao, il premier cinese, ha ridotto le proiezioni di crescita dell’economia nazionale dal 8% l’anno - un livello che Pechino aveva mantenuto, e superato, sin dal 2005 – al 7,5%.
Un incremento sempre più rapido che nell’Occidente ma che potrebbe non essere abbastanza per dare lavoro ai milioni di persone che continuano a lasciare le zone rurali del centro della Cina in cerca di fortuna nelle fabbriche del Sud e della costa.
E se la rivoluzione industriale cinese sta rallentando, quella dell’India – l’altro grande polmone dell’organismo asiatico – rischia di fermarsi del tutto.
L’economia sta crescendo ai livelli più bassi degli ultimi due anni mentre il governo insiste a spendere soldi che non ha per costruire uno Stato sociale ed alleviare la povertà di massa che attanaglia il Paese.
Nel 2010, con l’Europa boccheggiante e l’America impantanata nelle sabbie mobili del dopo-crisi, economisti ed operatori di mercato parlavano di una ripresa mondiale «a due velocità»: i mercati emergenti in fuga ed i vecchi continenti ad arrancare nel gruppo.
Storie di successo come il Brasile di Lula – e persino il Sud Africa del dopo Mandela – sembravano confermare la forza delle nuove economie. Non solo Cina ed India, dicevano gli speranzosi, ma anche il Sud America e chissà, forse l’Africa, la grande incompiuta dell’economia del globo.
A due anni di distanza, quei sogni sono stati infranti. I Paesi sviluppati devono confrontare la realtà che governi e cittadini hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi per tanto, troppo, tempo. E le nazioni emergenti stanno imparando una lezione amara: chi di globalizzazione ferisce di globalizzazione perisce.
Tutti quei giocattoli made in China, le materie prime del Brasile, l’outsourcing dell’India alla fine chi li comprava? Noi. Sempre noi. I ricchi consumatori dell’Ovest che divoravamo beni e servizi a basso prezzo.
Il bello del sistema era che Paesi come la Cina prendevano dollari e euro ricevuti dall’Ovest e li riciclavano nel debito pubblico di America ed Europa, permettendo all’Occidente di spendere e spandere, e creando un circolo virtuoso di spese, consumi ed investimenti.
Il circolo si è rotto quando le crisi finanziarie degli Usa e della zona-euro hanno rivelato che noi occidentali eravamo molto meno ricchi di quanto pensassimo. La domanda per i prodotti dei Paesi emergenti è calata e, senza una classe media locale pronta a riempire il vuoto lasciato dagli occidentali, la Cina, l’India e il Brasile si trovano in difficoltà.
«È come se il peso di portare l’economia mondiale sulle proprie spalle abbia sfiancato i Paesi emergenti», mi ha detto uno dei santoni economici di Wall Street. «Altro che economia a due velocità, qui di velocità ce n’è una sola ed è lenta».
L’aspetto positivo di questo frangente così insolito è che le crisi che sono scoppiate negli ultimi anni sembrano meno acute.
In America, nessuno ha più paura che una banca enorme come la Citigroup crolli o che il governo non sia in grado di tenere in piedi il mercato dei mutui. In Europa il panico per la paventata implosione dell’euro si sta placando. E nei mercati emergenti – terra fertile in passato per crisi di monete, inflazione rampante e debito pubblico fuori controllo – discipline fiscali e fattori demografici hanno rimesso in sesto i conti di molti Paesi.
Ed è questo il motivo per cui, nonostante tutto, i mercati sono abbastanza tranquilli e in alcuni casi come gli Usa, brillanti. Attenzione, però: gli azionisti e gli operatori di mercato sono i padroni del breve termine e non alzano mai lo sguardo verso l’orizzonte. Sono rilassati perché nei prossimi mesi, l’economia mondiale dovrebbe vivacchiare senza infamia e senza lode e, soprattutto, senza crisi rovinose.
Ma la mediocrità non aiuta nel lungo termine. Una ripresa forte deve partire dai consumi, trasmettersi alle aziende, spingere i mercati delle materie prime, aumentare le attività finanziarie e persuadere le banche ad aprire i cordoni della borsa, incrementando i consumi e così via. Per ora, quell’impeto non c’è.
Nonostante i molti dubbi sul valore nutritivo dei fast-food, l’economia mondiale dovrà mangiare più Big Mac per crescere.