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 2012  marzo 11 Domenica calendario

IL VUOTO DOPO CARMELO

Il 16 marzo saranno passati dieci anni dalla morte di Carmelo Bene, e la sua mancanza pesa tantissimo. Ci sono figure che, quando se ne vanno, in un certo senso vengono immediatamente storicizzate, collocate nella cornice della loro epoca. Altre, come Carmelo, ne tracimano di continuo: si avverte che la funzione da esse esercitata non si è affatto esaurita nel tempo, che avrebbero ancora una forte capacità di influire sul presente. E questo ne acuisce ulteriormente il rimpianto. Attore, scrittore, regista teatrale e cinematografico, portatore di ribollenti teorie artistiche, in ciascuno di questi campi ha impresso l’impronta di un genio assoluto, il genio che sovverte tutte le categorie. Il suo folgorante percorso si è svolto dalle "cantine" ai grandi concerti poetici nei Palazzetti dello Sport, dalla Torre degli Asinelli di Bologna, da cui tenne un memorabile recital dantesco, al Manfred fra gli ori e i velluti della Scala, come la Callas, nella quale si identificava.
Il suo estro si è fondato sullo strano cortocircuito fra una recitazione "alta", dalla purezza quasi classica, e una feroce dissacrazione del teatro: la sua idea, mutuata dai nouveaux philosophes francesi, della scena come spazio dell’"assenza", basato sul l’eclissi dell’io dell’interprete, ridotto a «macchina attoriale», a mero flusso sonoro, ha aperto la strada a tante forme del teatro odierno, che partono proprio dall’abbandono del personaggio, dalla rinuncia alle strutture della rappresentazione.
Nell’attenzione dei media scandali e provocazioni hanno avuto spesso più risalto degli alti meriti estetici: sono celebri le sfide a duello, le insolenze ai recensori («un cretino con lampi di imbecillità», era l’epiteto affibbiato a un noto critico), l’assalto a mano armata – ma con un’innocua scacciacani – agli uffici del ministero. Restano indimenticabili, però, anche certe illuminanti invenzioni che hanno ribaltato i suoi spettacoli. Ed è attraverso di esse che vorrei ricordare qui Carmelo.
Nell’iper-freudiano Amleto o delle conseguenze della pietà filiale, da Shakespeare e Laforgue, del ’67, l’indolente protagonista – disinnescando gli artifici della finzione – strappava pagine del testo con le battute canoniche che non voleva pronunciare, compreso il fatidico «essere o non essere», e le passava a Orazio, che le leggeva disgustato, mostrando di non capirle.
Nel beffardo S:A:D:E., del ’72, era il Servo che cercava di evocare delle grottesche situazioni erotiche per eccitare un Padrone che si masturbava invano senza sosta dall’inizio alla fine, raggiungendo l’orgasmo solo alla concitata irruzione finale di false forze dell’ordine.
Nel Riccardo III, del ’77, aboliti tutti gli altri personaggi maschili, era solo alla ribalta con lo stuolo delle donne, la madre, la cognata, le vedove dei re uccisi, che gli esibivano nudità tentatrici: lui, che all’inizio era dritto, per attrarle si trasformava via via in un essere deforme con protesi, mani finte e una gobba posticcia.
Nell’Otello, del ’79, il Moro era un bianco truccato da nero, Jago un nero truccato da bianco, e nel corso dell’azione Otello diventava bianco e Jago nero. Con un effetto paradossale quest’ultimo, che aveva una tintura chiara sulla pelle, toccando l’altro gli imprimeva macchie scure sulla faccia.
Nel famoso Macbeth, dell’83, il protagonista aveva una benda insanguinata intorno al polso: a mano a mano che la svolgeva, la macchia rossa progressivamente si attenuava, fino a mostrare un tessuto totalmente intonso. «Ferita era la benda, e non il braccio», diceva lui, con una battuta che sintetizzava un’intera filosofia del teatro.
Nell’inquietante, seconda Cena delle beffe, da Sem Benelli, dell’89, c’era lo spogliarello di un’attrice che svelava, sotto gli abiti, una falsa epidermide di plastica, che svelava a sua volta una falsa epidermide di plastica, e così via, senza mai arrivare al calore di un corpo vero: un’agghiacciante epifania della decadenza dell’umano.
E che dire, per quanto riguarda i film, delle sequenze di Nostra signora dei Turchi in cui tentava dei frustranti amplessi indossando una pesante armatura medioevale?
Sono, a ben vedere, tutti richiami al vuoto della vita, al non essere. E, in questa chiave, è infine struggente la scena in cui il suo Amleto declama a Ofelia, con la tipica voce strascicata, un po’ nasale, dei versi di Gozzano che in quel contesto assumono echi da brivido:
«Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...
Ed io non voglio più essere io!». Renato Palazzi • L’ECCESSO DI SALOMÈ - Nel 1972 Carmelo Bene terminava il suo quarto film, Salomè, tratto dall’atto unico di Oscar Wilde, dopo averlo portato in teatro nel 1964, e prima di riadattarlo per una versione radiofonica nel 1975, a testimonianza di quanto le ossessioni di Erode Antipa, le nenie di sua moglie Erodiade, e specialmente il fascino lunare della figliastra, la vergine principessa Salomè, seduttrice e annientatrice, fossero penetrati negli angoli più oscuri del suo spirito. È certo che Bene conoscesse anche la raffinata Erodiade di Flaubert, quella dell’amato Laforgue, e quella solitaria e carica d’angoscia di Mallarmé, così come le terribili e penetranti pagine di Huysmans dedicate ai dipinti di Moreau su Salomè. Wilde si buttò nella creazione del dramma proprio dopo aver letto Huysmans, e ne venne fuori un capolavoro che volge in ironia la tragicità dell’episodio biblico. Per questo Bene scelse la versione di Wilde, al quale il film sarebbe piaciuto, così come del resto a Flaubert, che mentre componeva Salammbô scrisse: «Amo gli eccessi, in tutto».
E nella Salomè di Bene tutto è eccesso. L’opera stessa eccede la visione: oltre 4.500 inquadrature, un caleidoscopio di luci, musiche e suoni. Sopra a tutti domina la straordinaria voce di Carmelo-Erode che, pungolato dal desiderio smodato e incestuoso, scivola lentamente nella follia. La protagonista, la sensuale Donyale Luna, parla a mala pena l’italiano, il favoloso Cristo-Vampiro prepara rituali orgiastici cantando Vipera (ancora una volta la dissacrazione), un martire si crocifigge da solo ma non può completare l’opera poiché gli rimane alla fine una sola mano libera ed Erodiade è incarnata con una trovata geniale da due personaggi, un uomo e una donna (Mancinelli-Vincenti). Risuona la ripetizione di frasi dal testo di Wilde, giocate sul tema dello sguardo e del desiderio; meravigliosa la danza dei sette veli sulle note di Abat-jour.
La decapitazione del Battista (un vecchio che dalla cisterna urla minacce e insulti contro la principessa in dialetto siciliano!) viene evocata numerose volte dal taglio di un cocomero maturo ma non si vede, e scompare anche la celebre scena necrofila del bacio di Salomè alla testa mozzata. La malvagia lolita wildiana, che dopo la rappresentazione teatrale di Bene era stata descritta da Flaiano come «una perfida bambina, una gatta rauca, sessuale, petulante, irresistibile», nel film diventa invece un «bizzarro androgino», nelle cui vene scorre il sangue dell’autore.
Alla fine Erode-Carmelo, stregato da questa creatura oltre-umana, extraterrestre, si dimentica persino la vendetta (l’uccisione di Salomè da parte dei soldati), e sprofondato ormai nelle tenebre del delirio, chiude monologando sulle parole wildiane: «Comincio ad avere paura». Paura-certezza che il dramma viva in eterno, che il mitologema Salomè, figura portante di tutto il film, seduzione perenne dell’eterna forza, opposta e complementare a Eros, Thanatos, icona arcaica e perturbante, sopravviva a se stessa, al di là di ogni estetismo, cromatismo e genialità wildiana (flaubertiana, laforgueiana eccetera) e dunque beniana, diventando un terribile sogno, il sogno del Male. «Non bisogna sognare, i sognatori sono dei malati», afferma l’Erodiade di Wilde. Huysmans avrebbe continuato: «Le nevrosi aprono nell’animo delle fessure attraverso cui penetra lo Spirito del Male». E del Bene (Carmelo). Chiara Pasetti • NOSTRA SIGNORA DEGLI SCANDALI - Anticipiamo un estratto di un articolo di Jacques Aumont, contenuto all’interno di Carmelo Bene. Il cinema oppure no a cura di Fulvio Baglivi e Maria Coletti, pubblicato in occasione del decimo anniversario della morte del grande attore pugliese, avvenuta il 16 marzo 2002.
Il volume sarà presentato al Bifest, il Bari International Film Festival, che dal 24 al 31 marzo ospita il «Festival Carmelo Bene», all’interno del quale, grazie alla collaborazione con la Cineteca Nazionale-CSC e le Teche Rai, saranno proiettate oltre 50 ore di materiali sull’attività teatrale, cinematografica e televisiva di Bene.
Jacques Aumont

Settembre 1968... Davanti a Nostra Signora dei Turchi, peraltro proiettato senza sottotitoli, avevo misurato la mia incultura e i limiti della politica degli autori. Non ero pronto per questo torrente di immagini musicali, per questi monologhi lirici e sarcastici, per questi colori sontuosi e ripugnanti, per questo barocchismo simbolista. Non sapevo nulla di Bene, della sua reputazione sovversiva e prestigiosa. Ignoravo che fosse uno dei più straordinari uomini di teatro del dopoguerra e che, alla sua carriera di drammaturgo e di attore, ora si accingeva ad aggiungere anche quelle di scrittore e di cineasta.
A ventisei anni, nel 1964, Bene aveva interrotto all’improvviso il suo lavoro a teatro. Rifugiatosi con la sua compagna Lydia Mancinelli nella casa di suo padre a Santa Cesarea Terme, a sud del tacco dello stivale italiano, aveva scritto un suo primo romanzo, Nostra Signora dei Turchi. Scriveva lentamente, recitando il suo testo mano a mano e a voce alta, da vecchio uomo di teatro, fumando, bevendo il caffè di sua madre e il vino rosé di suo padre, e dormendo il meno possibile... Lui stesso dirà: «Fin dalle prime pagine, ero sicuro di vomitare un gran libro». E del resto non si tratta di un romanzo, ma di una autobiografia, un’autobiografia poetizzata, piuttosto che romanzata. Un’autobiografia senza date, senza nomi propri, senza aneddoti, ma che dice tutto di questo giovane uomo alcolizzato, dal pessimo carattere eppure con un fascino immediato e irresistibile, capace di conquistare le ragazze, i ragazzi, i direttori di teatro, gli snob e i malati mentali (durante il suo breve soggiorno in manicomio ebbe tutto il tempo di diventare un dio: lo prendevano per Allah; ritroviamo questo episodio nel romanzo e nel film). Nostra Signora dei Turchi non racconta degli avvenimenti, ma una vita mentale proliferante: il gusto e il disgusto delle donne; la certezza di essere unico e la dilatazione dell’ego; la fascinazione per l’estasi; l’appartenenza a un Sud profondo, orientale, "turco".
A Venezia il film fece scandalo. All’epoca tutto ciò che Bene faceva finiva in scandalo. Malgrado la loro incultura fosse uguale alla mia, i critici francesi, lusingati dal fatto che Bene avesse loro riservato la conferenza stampa (da cui aveva cacciato i critici italiani), ne fecero delle recensioni tanto sbalordite da sembrare degli elogi. In Italia il film non riuscì mai ad avere una distribuzione decente; si parla ancora della devastazione del cinema Gioiello a Torino, a opera di spettatori infuriati. In Francia, se il film non ebbe successo di pubblico, fu comunque un evento. Inaugurò quell’amore duraturo che l’ambiente culturale e intellettuale francese riservò a Bene e che culminò dieci anni più tardi con le rappresentazioni di Riccardo III e i testi di Gilles Deleuze, Pierre Klossowski e tanti altri. Carmelo Bene non era uno scrittore; non aveva mai imparato a scrivere... Bene abbozzò tutta la vita frammenti di "romanzi", testi autobiografici e di autogiustificazione, poesie, sceneggiature, libretti per il teatro (non si può chiamarli pièces), per non parlare delle lettere agli amici e alle donne. Sempre, dinanzi a questi scritti, un’unica sensazione, un’unica certezza, quella di un’urgenza che viene totalmente padroneggiata.