Sergio Luzzatto, Domenica-il Sole 24 Ore 11/3/2012, 11 marzo 2012
LA CANOTTIERA E IL PREMIER ROBOT
In principio era Crozza. Non appena si è avuta notizia dell’irresistibile ascesa di Mario Monti ai vertici delle istituzioni italiane – in pochi giorni di novembre, da presidente della Bocconi a senatore a vita e da senatore a vita a presidente del Consiglio – immediatamente il Crozza di Ballarò ha rappresentato il cambiamento attraverso la gag di Monti robot: non una persona in carne e ossa ma un personaggio artificiale, non un politico ma un automa che si muove a scatti e parla con voce sintetizzata.
Attraverso la gag, l’attor comico voleva dire (voleva dirci) una cosa importante, voleva segnalare una novità che da uomo di teatro – cioè di corpi prima ancora che di parole o di idee – aveva colto da subito: la fine di una stagione "fisica" nella storia moderna d’Italia, prima ancora che di una stagione politica o ideologica. Sì, perché l’estemporaneo avvento di un leader robotico, disincarnato, relegava dietro le quinte le incarnazioni delle due culture politiche dominanti nell’Italia dell’ultimo ventennio: Silvio Berlusconi, l’incarnazione di una politica come finzione, affabulazione, effetto speciale, e Umberto Bossi, l’incarnazione di una politica come emozione, tradizione, effetto tribale.
Misteriose sono le vie del carisma, e lastricate di sconfitte per coloro che trascurano il quid – inafferrabile e ineffabile, con buona pace di Max Weber – che rende straordinari certi individui apparentemente ordinari, eccezionali certi uomini manifestamente comuni. Si legge dunque con profitto l’ultimo libro di Marco Belpoliti, La canottiera di Bossi (Guanda): e tanto più in quanto lo stesso Belpoliti aveva sottilmente analizzato, un paio d’anni fa, la natura fisica del fenomeno Berlusconi (Il corpo del Capo, sempre da Guanda). Meglio di molti storici di mestiere, il "letterato" Belpoliti ha imparato da Marc Bloch che le apparenze contano anche quando ingannano.
Per sedurre gli italiani e le italiane Berlusconi si è imparrucchito, si è liftingato, si è intrampolato, ha cercato insomma di sembrare più bello, più giovane, più alto di quello che era nella realtà. Gli ingredienti genuini del suo carisma hanno fatto il resto, insieme con vari altri strumenti di conquista e di manipolazione del consenso. Alleato di Berlusconi sulla scena politica nazionale, Bossi ha costruito le proprie fortune su una strategia di seduzione diversa. Anziché cercare di apparire migliore di quello che era, Bossi ha puntato tutto sull’apparire peggiore: ha puntato non sul "bello della diretta", ma sul brutto della diretta. Non ha voluto sembrare più elevato che nella realtà, ma più terra terra. Non più raffinato, ma più zotico. Non più preparato, ma (se possibile) più incolto. Ha voluto insomma passare non come il divo della porta accanto, ma come il troglodita della porta accanto: esemplare perché popolare e popolare perché volgare.
In compenso, quanto ha avvicinato la rappresentazione corporale di Bossi a quella di Berlusconi è stato il messaggio virilista: condito in una salsa o in un’altra, è stato il celodurismo. Nel caso di Bossi, un celodurismo da paese o da Strapaese: l’investimento politico su un immaginario erotico (nota Belpoliti) da vitelloni di provincia, con indosso una canottiera alla Massimo Girotti nel film Ossessione, ma anche alla Benito Mussolini nella "battaglia del grano". In altre parole, l’investimento su un immaginario che si fatica a dire se più da camionisti o più da fascisti. Diciamolo, per sicurezza, da camionisti fascisti.
Ora tutto questo sembra finito d’un colpo: sembra appartenere al nostro passato come a un’epoca già lontana, roba da libri di storia. E l’avvento – insieme al Monti robotico – di un intero governo disincarnato ha l’aria di costituire un antidoto storico alla fisica del potere di Berlusconi e di Bossi. Non diversamente, dopo la fine del fascismo, la nascita della Repubblica aveva inaugurato una lunga epoca di leader politici quasi senza corpo. Ascetiche, o comunque eteree le figure di De Gasperi e di Togliatti, di La Malfa e di Moro, di Terracini e di Parri: come a restituire alla forza dei princìpi e delle idee lo spazio politico italiano, dopo che il Duce lo aveva occupato con il suo corpo inimitabilmente ingombrante, e dopo che i gerarchi di regime lo avevano svilito con le loro piroette nel fuoco.
Nell’Italia di oggi come in quella del post-fascismo, la disincarnazione della politica non equivale alla dissoluzione di ogni carisma possibile né alla crisi di ogni possibile simbolo. Piuttosto, comporta l’opportunità di attribuire valore simbolico a cose diverse da prima, se non proprio di rivoluzionare la nozione weberiana di potere carismatico. Il governo Monti ha un indice di consenso sorprendentemente alto, rispetto al l’entità dei sacrifici che richiede agli italiani, perché trasmette a molti l’impressione di essere un governo fondato sullo stile anziché sullo svacco e, soprattutto, sulla competenza anziché sull’apparenza.
Ce lo ricordiamo tutti da dove veniamo, in quali condizioni versavamo appena ieri o l’altroieri. Non era soltanto la riduzione dell’attività di governo al bunga bunga o al dito medio alzato. Né era soltanto la riduzione dell’Italia a clown della comunità internazionale. Era anche la riduzione di ogni persona al look di quella persona: fino ai servizi televisivi sul colore dei calzini di un magistrato. Tutti ci ricordiamo di tutto ciò, e la nostra memoria ne è talmente satura che siamo tentati di farci andar bene qualunque cosa al suo posto, anche il grigiore dei "tecnici", lo snocciolamento delle cifre, un’eloquenza da consiglio di facoltà. Qualunque cosa sembra benvenuta purché non sia bandana o canottiera, barzelletta o canzonetta, gesto delle corna o gesto dell’ombrello: purché non sia il linguaggio del corpo politico che Berlusconi e Bossi hanno (stra)parlato nel loro interminabile Ventennio.
Scienziato del corpo quale chirurgo di professione, Umberto Veronesi aveva dato luogo tempo addietro – da ministro della Sanità del secondo governo Amato – a una piccola anticipazione di questo New Deal italiano. In effetti, la popolarità di Veronesi si fondava anzitutto sul riconoscimento della competenza, «una volta tanto, ecco un ministro che sa di cosa parla...». Ma la popolarità di Veronesi si fondava anche, forse, su un’ulteriore qualità che il professor Monti sembra condividere con lui: sull’intrinseca laicità (per così dire) del sapere che si fa potere, e che in quanto scienza politica presuppone la ragione più che la fede, crede nelle riforme più che nei miracoli, sollecita le critiche più che le devozioni.
Così – lo lascia sperare la vicenda del l’Imu finalmente addebitata alla Chiesa – sarà forse un automa cattolico che riuscirà a rendere l’Italia un pochino più laica.