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 2012  marzo 11 Domenica calendario

SPENTO L’INCENDIO GRECIA, IN EUROPA RESTANO FOCOLAI IN PORTOGALLO E IRLANDA - È

il default più grande della storia. È il primo, tra l’altro, che accade in un Paese dell’area euro: evento fino a pochi anni fa inimmaginabile anche per il più incallito dei pessimisti. Eppure la ristrutturazione del debito greco, che ha fatto scattare l’insolvenza venerdì sera, è stata vissuta dai mercati finanziari e dal mondo politico quasi come la fine di tutti i mali. «Il problema Grecia è risolto», ha annunciato trionfalmente il presidente francese (sotto elezione) Nicolas Sarkozy. E anche gli spread tra i titoli di Stato dei Paesi periferici e la Germania, ben lungi dal temere un contagio, si sono ridotti. L’Italia, per esempio, negli ultimi giorni ha recuperato quasi 30 centesimi di punto percentuale sulla Germania.
Tutto bene, dunque? L’Europa è fuori dal tunnel? Bastava così poco per risolvere i problemi? Purtroppo la risposta è negativa. Superato uno scoglio, di fronte al Vecchio continente ce ne sono ancora tanti altri. Il primo problema porta il nome di alcuni Stati, ancora troppo fragili: Portogallo e Spagna in prima fila, Irlanda in seconda e Italia in terza. Poi c’è il nodo del sistema bancario, salvato per il rotto della cuffia dalla Bce ma ancora troppo fragile e troppo legato al destino degli Stati. Il terzo problema riguarda l’economia: senza una ripresa della crescita (purché sostenibile e non drogata da eccessi monetari) l’Europa non può dirsi fuori dal guado. Ecco i nuovi possibili (ma non necessariamente probabili) focolai della crisi.
Stati troppo vulnerabili
Nell’Unione monetaria ci sono 17 Paesi. Di questi, almeno cinque non possono chiamarsi fuori dalla crisi finanziaria e di credibilità. Il primo è, ovviamente, la Grecia: con un debito pubblico che anche dopo la ristrutturazione resterà al 120% del Pil nel 2020, con una recessione che quest’anno porterà via il 4,40% del Pil, con un deficit di bilancio pari al 7% del Pil, con una disoccupazione al 19,9% e con un futuro a metà strada tra l’austerità e il masochismo, Atene resta il ventre molle dell’Europa. Tanti economisti sono convinti che presto o tardi dovrà chiedere nuovi, ulteriori, aiuti.
Oltre alla Grecia, sono Portogallo e Spagna a impensierire gli investitori. Il primo è pieno zeppo di debiti in tutti i settori dell’economia: quello dello Stato ammonta al 108% del Pil, quello delle famiglie al 95% del Pil, quello delle imprese al 130% del Pil. In totale il debito in Portogallo supera di quattro volte la ricchezza prodotta in un anno. Questo lo rende vulnerabile: «Il paese non è necessariamente insolvente – scrivono gli economisti di Rbs –, ma il default viene evitato solo nel migliore degli scenari prevedibili». Come dire: non è detta l’ultima parola, ma di speranze non ce ne sono molte. Anche perché il Paese soffre per una perdita fortissima di competitività nel settore industriale: secondo Rbs il Portogallo ha perso il 19,3% di competitività negli ultimi anni. Peggio ha fatto solo la Grecia (-24,2%).
È la Spagna, però, che nelle ultime settimane ha attirato l’attenzione (negativa) degli investitori: perché ha sorpreso tutti annunciando un deficit del bilancio 2011 superiore alle attese (8,5%) e chiedendo di alzare gli obiettivi per il 2012 al 5,8%. «Questo porterà a un braccio di ferro con l’Unione europea, ma alla fine credo che si troverà una soluzione», prevede Gregorio De Felice, responsabile servizio studi di Intesa Sanpaolo. Il problema della Spagna è anche la trasparenza: «Non comunicano i dati sul fabbisogno da novembre», aggiunge De Felice. Questo non piace al mercato. Così, sebbene la Spagna abbia un debito pubblico basso, il Paese fa paura: perché dà l’impressione di avere i conti fuori controllo, perché ha un’economia in rallentamento e una disoccupazione record al 23%, perché ha un sistema bancario fragile, perché ha un sistema industriale che senza il settore immobiliare non ha più un motore.
L’Italia è invece in una situazione opposta a quella spagnola: ha un debito pubblico monstre (120% del Pil), ma ha un deficit basso e tendente al pareggio di bilancio e ha un minor debito privato. E, soprattutto, negli ultimi mesi ha riconquistato credibilità. Il vero interrogativo, per gli investitori, è dunque sul dopo-Monti: il Paese resterà sui giusti binari? L’altro grande problema riguarda invece la crescita economica: «Il Paese perderà cinque punti di Pil in due anni di austerità – osserva Silvio Peruzzo di Rbs –. L’economia deve reagire a questo tipo di shock. Questo sarà il focus dei mercati».
Le banche salvate ma fragili
Il sistema bancario europeo ha inghiottito, in due giganteschi sorsi tra dicembre e febbraio, più di 500 miliardi di euro di liquidità nuova erogata dalla Bce: soldi che hanno evitato possibili crack bancari nel Vecchio continente. Eppure, dietro il sollievo di questa massiccia dose di ricostituente, di problemi le banche ne hanno ancora tanti. Il primo è legato proprio ai finanziamenti Bce: molti istituti, nei Paesi in crisi, dipendono da Francoforte per reperire risorse. Quelli irlandesi hanno debiti nei confronti delle Banche centrali europee per 92 miliardi di euro, pari al 59% del Pil. La dipendenza delle banche portoghesi dalla Bce arriva al 27% del Pil. Le spagnole arrivano al 15% e le italiane al 12,8%. Questo significa che molte banche, almeno in Irlanda e Portogallo, se non ci fosse la Bce non starebbero in piedi.
E non è tutto. La recessione sta aumentando velocemente i crediti in sofferenza. Inoltre la crisi di fiducia nei mesi passati ha causato una fuga dai depositi: il trend, fino a dicembre, era in calo in tutti i Paesi periferici. È possibile che nel 2012 l’emorragia si sia arrestata, ma quello dei depositi rimane un elemento di vulnerabilità. Infine c’è un ulteriore problema: tante banche hanno usato i finanziamenti Bce per comprare titoli di Stato del proprio paese. Questo ha aumentato quella concentrazione dei rischi che fino a pochi mesi fa impauriva le Borse: le spagnole hanno aumentato di oltre 50 miliardi i titoli di Madrid in bilancio, le italiane di circa 30 miliardi. Tutto bene fin che il mercato gira bene, ma se dovesse cambiare rotta i problemi tornerebbero.
La crescita che non c’è
C’è poi il problema dei problemi: la crescita economica. La recessione, unita a politiche fiscali restrittive, sta peggiorando la situazione. Se l’economia non cresce, il debito non diminuisce, la disoccupazione non cala, le tensioni sociali aumentano e i conti pubblici non tornano. Ma far crescere un continente intero nonostante la necessità delle banche di ridurre gli attivi e nonostante la necessità di tagliare la spesa pubblica non sarà facile. Questa, in fondo, è la vera sfida: far crescere l’Europa. Senza droghe monetarie, senza escamotage finanziarie, senza le distruttive scorciatoie del passato.