Elisabetta Ambrosi, il Fatto Quotidiano 11/3/2012, 11 marzo 2012
LA VITA AGRA DEI TRADUTTORI
Senza di loro la letteratura sarebbe una Babele, e la nostra vita di lettori un incubo: provate a immaginare se l’ultimo romanzo del vostro scrittore preferito fosse inaccessibile. O, peggio ancora, se le istruzioni del nuovo smartphone fossero solo in coreano.
Eppure, mentre un tempo il traduttore era una professione profumata d’aulicità, tanto che molti scrittori erano insieme traduttori (vedi Calvino, Ungaretti, Vittorini), oggi sembra aver toccato il fondo, anche se in compagnia di tutti gli altri mestieri della conoscenza (il focus, quest’anno, della rassegna Libri Come che chiuderà domenica all’Auditorium di Roma).
A parlare, come al solito, sono soprattutto le cifre: il mercato italiano ha compensi quasi da fame. Secondo una delle poche ricerche comparative esistenti, fatta dal Conseil Européen des Associations de Traducteurs Littéraires (e riferita ad un periodo pre-crisi) il compenso medio a cartella, per una traduzione editoriale, cioè non tecnica, è di 11,35 euro (e ad oggi restano inchiodate sulle 12-13 lorde), contro le 21,90 della Germania, il 27,54 della Svezia, il 28,8 della Gran Bretagna, il 30,96 della Francia, il 31, 08 della Norvegia. Il reddito lordo varia da 5.385 a 22.650 euro e per raggiungerlo i traduttori italiani devono sgobbare ben più delle 1056 cartelle annuali che rappresentano la media europea.
Ma, come spiega Marina Rullo, fondatrice del network Biblit e impegnata nel sindacato dei traduttori editoriali “Strade”, “la situazione italiana è peggiorata dal fatto che non esiste un modello di contratto convenuto tra le associazioni degli autori e degli editori, e inoltre le basse tariffe non sono compensate da royalty o politiche istituzionali, tipo borse di lavoro e studio”. Da noi i traduttori che riescono a ottenere percentuali sulle vendite sono mosche bianche e l’editore si tiene stretti i diritti anche per vent’anni, il massimo stabilito per legge, mentre nel resto d’Europa il termine è largamente inferiore.
A inasprire il quadro, soprattutto per i traduttori tecnici, ci si mettono loro, le agenzie di traduzione: quelle che in teoria dovrebbero fare da nobili intermediari tra committenti e interpreti e spesso, invece, finiscono per speculare sui traduttori, arrivando a mangiarsi due terzi del compenso e pagando comodamente a 90 o 120 giorni. In alcuni casi, poi, chi lavora sui testi deve utilizzare software specifici di cui è costretto a pagare l’affitto, “come se un contadino dovesse pagare per l’affitto della zappa”, commenta Elena Doria, traduttrice tecnica e membro di “Strade”.
Il mondo della traduzione si divide in due insiemi diversi. Da un lato i traduttori editoriali, quelli che, per intenderci, traducono Roth e Franzen piuttosto che Topolino, o le parole del film di Woody Allen (in questo caso, si tratta dell’”adattatore dialogista”), dall’altro i traduttori tecnici. Ai primi la legge consente di applicare il diritto di autore, considerando giustamente la resa di un testo in un’altra lingua come un’opera dell’ingegno, al pari della scrittura. Un trattamento solo in apparenza favorevole, perchè se è vero che si paga solo la ritenuta d’acconto su una parte del lordo, non è prevista alcuna assistenza, malattia, previdenza. I traduttori editoriali sono fantasmi, anche se d’autore, perché i contratti che stipulano con l’editore sono del tutto privati.
Non stanno meglio i traduttori tecnici. Qui improvvisamente , la legge cambia faccia e, da autori dalla penna sopraffina, li considera brutalmente partite Iva, facendoli entrare a pieno titolo nel girone dantesco della gestione separata Inps. “La quota contributiva per noi autonomi è partita dal 10 per cento del 1996 per arrivare al 27,7 per cento di oggi - spiega Elena - rendendo la vita di noi traduttori, e in generale dei lavoratori indipendenti, un incubo. Ho colleghe che hanno acceso un mutuo per pagare i contributi”. Di questa quota solo lo 0,72 per cento va per l’assistenza, in altre parole maternità e malattia, riconosciuta solo di recente dall’attuale governo (“che però purtroppo ha aumentato di un altro punto la contribuzione per la previdenza”).
La condizione miserevole di questa categoria ha un volto, quello di Elisabetta Sandri, una traduttrice morta di tumore e costretta a lavorare fino alla fine perché priva di indennità di malattia. Proprio con il suo nome è stata intestata la polizza sanitaria integrativa di cui possono usufruire i traduttori e gli scrittori, all’interno della società di mutuo soccorso “Insieme salute”. Società di mutuo soccorso, sì: perché proprio come avveniva nel-l’Ottocento, nel vuoto dello Stato questi lavoratori si sono autorganizzati. E così, per 246 euro l’anno possono permettersi quel diritto ad ammalarsi che lo Stato non gli concede. Come tutti i lavoratori della conoscenza, che non si definiscono precari ma indipendenti per scelta, anche i traduttori alle istituzioni chiedono ormai ben poco (riforma del diritto d’autore, maggiori protezioni sociali, meno tasse e contributi per i tecnici). “Meglio fare da noi. Perchè forse, tra qualche anno, non ci sarà neanche più un soggetto a cui chiedere tutele”.