Mariarosa Mancuso, la Lettura (Corriere della Sera) 11/03/2012, 11 marzo 2012
IL PRINCIPE DEI MERCANTI
Fuori pioveva a dirotto. Dentro non c’era abbastanza acqua per lavare la testa alle clienti. I parrucchieri dovettero arrangiarsi usando i sifoni del seltz, presi nei magazzini del ristorante. Fu comunque un successo. Per l’apertura di Selfridge’s, il grande magazzino londinese che ancora oggi troneggia in Oxford Street, arrivarono 90 mila persone, tenute a bada da una trentina di poliziotti. C’era da ammirare e da godere un lusso mai visto: saloni enormi, lampadari, fiori freschi, 21 vetrine splendenti anche di notte, decorate a imitazione di Fragonard e Watteau.
L’inaugurazione — il 15 marzo del 1909 — era stata preceduta da una pubblicità martellante. Il proprietario, l’americano Harry Gordon Selfridge, avrebbe voluto addirittura comprare la prima pagina del «Times», che gli fu negata in nome del serio giornalismo. Ottenne però dalla compagnia telefonica il prezioso numero 1. Ricambiò la cortesia comprando la copertina dell’elenco per i suoi annunci.
A Londra esisteva già Harrods, che aveva tra i suoi clienti affezionati Oscar Wilde. I profeti di sventura erano disposti a scommettere sull’insuccesso della fiammante cattedrale del commercio. Ma Selfridge aveva la strategia vincente: rendere lo shopping eccitante quanto il sesso. Si mise d’impegno: guai al personale che intimidiva i clienti, via gli armadi e le scatole che impedivano il contatto con la merce esposta, profumi e cosmetici al primo piano e vicino all’entrata, in modo che i gradevoli effluvi contrastassero le puzze cittadine.
Ogni mattina passava in rassegna il personale schierato e in uniforme, se trovava polvere sugli arredi con il dito tracciava le proprie iniziali (oggi invece i commessi di Abercrombie & Fitch scontano gli sbagli a furia di flessioni). Grazie a Selfridge, gli acquisti smisero di essere una fatica e divennero un piacere. I nemici del progresso lamentarono la pericolosa distrazione che insidiava la virtù femminile. I nemici del consumismo lo collocano tra i corruttori dell’umanità, che prima era sobria per forza, più che per amore.
Oggi sembra ovvio. Allora non lo era. Bisognava attirare la clientela, e farla rimanere nel grande magazzino il più a lungo possibile. Aprì un ristorante con orchestra dove le donne potevano pranzare da sole, mise su un salottino con giornali e riviste, ospitò un ufficio postale (con carta e buste intestate da albergo di lusso), fornì un servizio di prenotazioni per viaggi e spettacoli. Bagni da favola, e un’infermeria per i malori causati dalla ressa o da troppe emozioni modaiole. Per ingraziarsi i giornalisti che passavano dal West End, c’era una sala stampa attrezzata. Personale specializzato accudiva la clientela straniera, proveniente da Oltremanica e dalle colonie.
Per raccontare Harry Gordon Selfridge servirebbe Émile Zola, che ambientò Al paradiso delle signore nel primo grande magazzino parigino. I francesi erano più avanti, per espandersi avevano raso al suolo le botteghe di quartiere. Erano più avanti nel commercio al dettaglio anche gli americani: al Marble Palace di New York, servita da fascinosi commessi, la vedova di Abramo Lincoln spese in acquisti compulsivi un milione di dollari attuali. I britannici convocavano ancora i fornitori a casa, nei negozi della concorrenza chi voleva soltanto lustrarsi gli occhi veniva accompagnato alla porta.
Zola descrive il grande magazzino con l’incanto che riserva ai banchi di formaggi delle Halles: «La porta tutta a cristalli saliva fino al mezzanino, tra un cumulo di ornati carichi di dorature. Due statue allegoriche di donne sorridenti, con il petto nudo, svolgevano l’insegna Al paradiso delle signore». L’interno trabocca di rasi, sete, taffetà, damaschi e broccati. La provinciale Denise, che finirà a far la commessa dietro quei banconi, ha un mezzo svenimento.
Zola pubblicò il suo romanzo popolare nel 1883. Selfridge avrà presto una serie televisiva tutta sua. L’ha appena messa in cantiere la Itv (rete rivale della Bbc) per ripetere il successo di «Downton Abbey»: la serie su servi e padroni con cui ha conquistato spettatori in tutto il mondo (negli Stati Uniti esistono i fan club, e dire che credevano di essersi sbarazzati dell’aristocrazia). Gli ingredienti ci sono tutti. Il periodo edwardiano, un magnate ricco di fascino e con una vita avventurosa: gli attori faranno a botte per il ruolo. La rigida divisione in classi e il democratico sogno americano. Anche un tocco di emancipazione femminile: le suffragette si riunivano al Palm Court Café, ora demolito, e Selfridge sosteneva la causa.
Nacque povero nel Wisconsin, era il 1864. Suo padre non tornò a casa dalla Guerra Civile. Da ragazzino inventò un giornale per i coetanei, vendendo la pubblicità ai bottegai del quartiere. Lavorò 25 anni in un grande magazzino di Chicago, salendo i gradini da fattorino a socio. Partì per l’Inghilterra con 400.000 sterline da investire nel progetto. Morì solo, senza più un soldo, nel 1947. Molto contribuirono le amanti, tra cui la ballerina Anna Pavlova e la danzatrice Isadora Duncan. E il tenore di vita principesco: corse dei cavalli, magnifici palazzi, un esercito di servitori per farli funzionare.
Forse non conosceva l’ode al commercio di Zola, ma se lo sceneggiatore gli mettesse il romanzo in mano, o sul comodino, non ci sarebbe nulla di male. Fece progettare l’edificio dall’architetto Daniel Burhnam, che aveva disegnato il piano regolatore di Chicago e costruito il Flatiron Building di New York. Colonne, che danno sempre un bel tocco di classicità, soprattutto quando all’interno girano parecchi soldi. Rischiò il fallimento poco prima dell’inaugurazione, l’incasso del primo giorno ammontava a tremila sterline appena. Selfridge non vacillò: pensava al suo grande magazzino come a uno spettacolo teatrale. Dopo la sera della prima, il successo si misura dalle repliche.
Tra le letture preferite del giovane Selfridge c’era l’autobiografia di Phineas Barnum, l’impresario che era diventato ricco con i fenomeni da baraccone, quindi sapeva come si conquista il pubblico (questo e altri dettagli sono in Shopping, Seduction and Mr Selfridge di Lindy Woodhead, servirà da traccia per il serial tv). Anche Octave Mouret, protagonista del romanzo di Zola, punta tutto sulla seduzione. Altro non serve per attirare le donne e indurle a spendere. Fino alla cleptomania: prima di tanta abbondanza a portata di mano, la malattia era sconosciuta.
Zola racconta l’invenzione della Fiera del Bianco, e la frenesia delle clienti che si strappano di mano gli articoli in saldo. Harry Gordon Selfridge inventa tutto il resto. La scritta «Mancano X giorni a Natale» e la regola secondo cui «il cliente ha sempre ragione». Pochi mesi dopo l’inaugurazione, espone nel grande magazzino l’aeroplano con cui Blériot aveva trasvolato la Manica da Dover a Calais. Sempre a caccia di novità, nel 1925 mostra al pubblico il televisore costruito dallo scozzese John Logie Baird. Un altro pioniere che, come Selfridge, vedeva lontano.
Mariarosa Mancuso