Arturo Pérez-Reverte, la Lettura (Corriere della Sera) 11/03/2012, 11 marzo 2012
LA VANITA’ CHE AFFONDO’ IL TITANIC
Eccola: una mole di 45.000 tonnellate che salpa per il viaggio inaugurale, assolutamente sicura di sé. Era inaffondabile, o almeno così dissero gli armatori ai 2.000 passeggeri presenti a bordo. Sicura come una pista da ballo, un buon ristorante o un albergo di lusso sulla terraferma. Forse proprio per questo, e in particolare per soddisfare le esigenze dei clienti di prima classe, il Titanic aveva a bordo un equipaggio composto da maggiordomi, camerieri e cuochi, più che da marinai esperti nel loro mestiere. Era una residenza galleggiante indistruttibile e veloce; e il suo capitano, come su tutte le navi di quel tipo che videro la luce in quell’epoca, aveva il ruolo di gestore di uno stabilimento balneare per milionari piuttosto che di capitano di una nave in alto mare.
Non ci fu eroismo, né grandezza né nulla di positivo da ricordare nella tragedia di quella nave sfortunata. Ci fu invece un’immensa dose di arroganza, stupidità e incompetenza. Qualcuno disse che i poveri musicisti dell’orchestra, invece di affogare in coperta suonando «Nearer, my God, to Thee», o qualcosa di simile, avrebbero dovuto salire sulle scialuppe di salvataggio e avvicinarsi al Signore in un’altra circostanza meno scomoda. Peraltro, l’evacuazione della nave fu condotta nel modo più disorganizzato possibile. Il capitano Edward J. Smith che, nonostante i trentaquattro anni di esperienza in mare, la notte della domenica 14 aprile 1912 si comportò più come un albergatore che come un marinaio — a bordo c’erano il presidente della compagnia di navigazione e il direttore dei cantieri navali del Titanic —, aspettò venticinque minuti prima di ordinare al radiotelegrafista di lanciare il primo S.O.S. Più tardi, per centinaia di passeggeri che cercarono di nuotare nell’acqua a due gradi sotto zero, quei venticinque minuti rappresentarono l’importante differenza tra la vita e la morte. Inoltre, per non allarmare i passeggeri, il capitano Smith ritardò l’ordine di abbandonare la nave; e poi le operazioni furono condotte in modo così dissimulato che la maggior parte dei passeggeri non si rese conto del pericolo e si radunò in coperta alla rinfusa, senza fretta, mentre sottocoperta i fuochisti annegavano come topi.
In effetti, quando ormai il Titanic era sott’acqua per un quarto dello scafo, inclinato di cinque gradi a dritta, e mentre alcuni passeggeri stavano raggiungendo le scialuppe di salvataggio, altri ancora passeggiavano in coperta o dormivano, all’oscuro di quanto stava accadendo, oppure si rifiutavano di abbandonare la nave perché si sentivano più sicuri a bordo. In ogni caso, c’erano scialuppe solo per la metà delle 2.206 persone presenti a bordo. Paradossalmente, i viaggiatori di terza classe, che per primi si resero conto del pericolo perché si trovavano tra l’interponte e i ponti inferiori, furono lasciati senza sufficienti mezzi di salvataggio: uomini, donne e bambini affogarono in massa perché l’equipaggio, che obbediva agli ordini, non permise loro di accedere ai ponti di prima classe. Nel frattempo, in prima classe, dove i passeggeri furono gli ultimi a rendersi conto di quanto stava succedendo, le scialuppe di salvataggio erano mezze vuote. E poi, al si salvi chi può, quando la gente fu presa dal panico, quando tutto quello che poteva galleggiare rimase a galla e il resto andò a fondo trascinando con sé 1.503 persone, sulle scialuppe erano rimasti ancora 500 posti liberi.
Ma gli errori non furono commessi solo nello spazio di tempo intercorso tra il momento in cui un iceberg urtò la fiancata di dritta della nave, aprendo una falla di cento metri, e quando infine, alle 2.10, la poppa del Titanic scomparve nelle acque gelide del nord dell’Atlantico. L’errore più grave non fu tecnico, ma di concetto, ed era già sul tavolo da disegno quando lo smisurato gigante fu concepito. Joseph Conrad, che era stato marinaio per molti anni prima di lasciare il ponte di comando di una nave per sostituirlo con la scrivania da romanziere, pubblicò significative riflessioni in merito. Cos’altro ci si può aspettare, si chiedeva amaramente, quando con sottili lastre d’acciaio si costruisce un albergo galleggiante per assicurarsi di avere a bordo un migliaio di ricchi passeggeri, quando lo si arreda in uno stile a metà tra i faraoni e Luigi XV, e per compiacere quel migliaio di individui con più soldi di quanti ne possano spendere, si lancia quel mastodonte di 45.000 tonnellate a ventun nodi in un mare pieno di iceberg? La risposta alla domanda di Conrad si trova nei libri di storia dei grandi disastri marittimi, e rivela fino a che punto la superbia e la vanità dell’uomo, che finiscono sempre per allearsi alla sua stupidità e ai suoi errori, lo accechino, facoltà che nel Corano viene attribuita a Dio nei confronti di coloro che vuole punire.
Nello stesso articolo, pubblicato sul «The English Review» solo un mese dopo la tragedia, lo scrittore polacco-britannico paragona la tragedia del Titanic all’affondamento del Douro: un’altra nave più piccola del gigante della White Star, ma in proporzione con un numero simile di passeggeri. Il Douro era una nave ben governata e con un equipaggio efficiente, non una specie di sindacato alberghiero composto dal capo macchinista, dal commissario di bordo e dal capitano, con un equipaggio di seicento camerieri e fuochisti. E a mezzanotte, con un mare pericolosamente agitato, entrò in collisione con un vapore. Il Douro rimase a galla per venti minuti. In quel lasso di tempo vennero calate le scialuppe di salvataggio e tutti i passeggeri, tranne una donna che si rifiutò di abbandonare la nave, furono messi in salvo da un equipaggio di professionisti ben comandati, che non persero né l’umanità né la calma. Poi non ci fu più tempo, la nave affondò in un attimo, e tutto l’equipaggio del Douro, dal capitano al commissario di bordo — tranne l’ufficiale al comando delle scialuppe di salvataggio e due marinai al timone di ognuna —, si inabissò con la nave, senza fiatare. Ma il Douro, concludeva Conrad nel suo articolo, era una nave. Non un Ritz galleggiante messo in mare senza scialuppe di salvataggio, con pochissimi marinai a bordo e con quattrocento poveri diavoli come camerieri.
Ho letto quell’articolo quando ero molto giovane, a un’età in cui i resoconti dei naufragi, per chi ama il mare, rimangono impressi nella memoria per sempre. E forse per questo, il Titanic non mi è mai stato simpatico. Adesso, guardando la fotografia di quel goffo gigante dei mari che salpa per il suo primo e ultimo viaggio, penso che in quello stesso istante il Caso, con il suo strano e tragico senso dell’umorismo, stava posizionando sulla sua carta nautica un iceberg diretto a sud-sud-ovest, affinché si scontrasse con il Titanic esattamente a 41° 46’ di latitudine nord e a 50° 14’ di longitudine ovest. Qualche tempo fa, ho scoperto che la Rms Titanic Inc., una compagnia creata per lo sfruttamento commerciale del relitto, ha fallito nel tentativo di riportare a galla una sezione dello scafo, nel corso di una crociera speciale per assistere allo spettacolo al costo di 5 mila dollari a testa, con l’attore Burt Reynolds e l’astronauta Buzz Aldrin in veste di animatori. In realtà, come i marinai morti in guerra o annegati nei naufragi, le buone e vecchie navi che un tempo hanno solcato i mari come Dio comanda devono riposare in pace in fondo al mare, perché si sono guadagnate onestamente l’eterno riposo. Quanto al Titanic, cent’anni dopo l’affondamento continua a essere quello che è stato nel poco tempo in cui è rimasto a galla: uno spettacolo penoso.
Arturo Pérez-Reverte
(Traduzione di Elena Rolla)