Alessandra Farkas, la Lettura (Corriere della Sera) 11/03/2012, 11 marzo 2012
FRANZEN CONTRO BLOOM: IL CANONE E’ MASCHILISTA - —
Il libro parte dal discorso alla cerimonia di laurea al Kenyon College nel 2011 e termina con una rilettura agiografica di Quello che rimane di Paula Fox. In mezzo, nelle 321 pagine della nuova raccolta di saggi Farther Away (Farrar, Straus and Giroux, $ 26, in uscita negli Usa il primo maggio), Jonathan Franzen ripercorre le tematiche, umane e letterarie, che lo assillano da sempre. «Detesto Facebook», esordisce, scomodamente seduto al tavolo da pranzo del suo appartamento spartano sull’East Side di Manhattan. «Ho avuto una pagina su Facebook per due settimane, quattro anni fa, quando il "New Yorker" mi chiese di scrivere sui 22enni americani che, dopo la laurea, arrivano qui a Manhattan. Per spiarli, non c’era mezzo migliore che indurli a diventarmi "amici". Ho scoperto che tutti quanti odiavano Facebook, che tutti lo consideravano una perdita di tempo».
Come andò a finire?
«Un tizio del "Wall Street Journal" iniziò un articolo contro il mio romanzo Freedom prendendomi per i fondelli perché, scrisse, "Franzen vuole diventare mio amico". Mi ero dimenticato di cliccare sull’icona per rimuovere come amici dal mio profilo tutti i contatti della mia agenda».
Con Twitter è andata meglio? Il suo rapporto è molto conflittuale: pochi giorni fa, dopo una sua dichiarazione polemica a New Orleans, è stato lanciato l’hashtag #JonathanFranzenHates, «Jonathan Franzen odia».
«Twitter è la versione stupida di Facebook. L’anno scorso ho impiegato otto settimane per chiudere l’account di un impostore che si spacciava per me. È stato un incubo e ho dovuto inviare la mia foto e la copia del passaporto. È successo anche a Salman Rushdie che però, al contrario, ha un account e adora twittare».
I social media stanno influenzando la letteratura?
«La migliore letteratura non trae ispirazione dalla tecnologia del momento. I social media hanno reso impossibile la vita dei giovani scrittori: gli editori s’aspettano che tutti loro abbiano una pagina su Facebook e Twitter per promuoversi giorno e notte. Si dimenticano che il motivo per cui scrivono è che preferiscono comunicare attraverso i libri e considerano l’ipersocialità un anatema. L’effimero sound-byte di Twitter è l’antitesi della letteratura, che cerca l’immortalità».
Però la primavera araba e i movimenti di Occupy non sarebbero esistiti senza i social media.
«Solo se crediamo ai luoghi comuni. Ma è impossibile dimostrarlo e il medesimo risultato si sarebbe potuto raggiungere col telefono, che ha la stessa capacità virale. Il triste scenario di un’umanità tecno-narcotizzata, che si sente viva solo perché consuma senza interruzione live news che fra tre minuti non conteranno più niente, mi fa credere che si tratti di una droga malvagia e conformista».
Come l’ebook?
«Ho espresso la mia preferenza per i libri rilegati. Qualcuno mi giudicherà un vecchio trombone — nel mio saggio contro i telefoni cellulari uso la parola "nonno" tre volte —. Ma gli insulti usati per descrivere chi dissente mi ricordano il linguaggio delle scuole medie. Dopo un’infanzia da secchione di turno, zimbello della classe, non mi fa né caldo né freddo essere chiamato uncool. A 52 anni non ho più niente da dimostrare».
Anche la sua antipatia per Steve Jobs è arcinota.
«Se è stato un visionario come dicono, la sua visione a me non interessa. Il suo lascito è un mondo di zombi che camminano col dito sullo smartphone. Dal punto di vista del design la sua tecnologia è insuperabile. Ma Jobs ha dimostrato disprezzo per le masse anteponendo l’estetica alla funzionalità. Il motivo per cui io non posseggo un iPad è semplice: è bellissimo, ma funziona male».
In uno dei suoi saggi lei fa a pezzi i telefonini cellulari e afferma di non possedere una tv. In un altro scappa nello sperduto atollo cileno di Masafuera (Farther Away in inglese) per fuggire al blitz mediatico dopo «Freedom», uscito in Italia con il titolo «Libertà».
«Avevo bisogno di staccare. Il direttore del "New Yorker" mi commissionò un pezzo: così sono partito per Masafuera, nella speranza di incontrare un rayadito, uccello rarissimo. Negli anni 60 l’isola fu ribattezzata Alejandro Selkirk, dal nome del naufrago scozzese che ispirò Robinson Crusoe».
In una delle parti più commoventi lei sparge le ceneri di David Foster Wallace nelle acque dell’atollo.
«È stato difficile rivelarlo: l’urna con le ceneri era un dono della vedova Karen, che però nell’affidarmele era al corrente della mia missione "ufficiale". Fare lo scrittore è un affare sporco: devi invadere la privacy tua e di altri, talvolta iniettando un elemento d’istrionica teatralità persino nel commettere certi atti privati. Anche se le mie lacrime nell’aprire l’urna erano vere, provo un certo fastidio nell’aver compiuto quel rito mentre stavo realizzando un reportage retribuito».
Nel libro nega la natura autobiografica della scrittura.
«Nella fiction se descrivi ciò che hai fatto ieri, ti basta passare dalla prima alla terza persona per perdere la natura autobiografica del racconto. È una metamorfosi misteriosa: una goccia di finzione può neutralizzare tutto ciò che di vero e personale vi è nell’opera. Persino in una raccolta diaristica come Farther Away certe omissioni trasformano in fiction la narrazione».
La rabbia da lei espressa dopo la morte di Wallace è reale.
«La trasformazione dell’immagine pubblica di David dopo la sua morte mi ha offeso e irritato. Little Brown ha ripubblicato il suo discorso a Kenyon del 2005 — una frase per ogni pagina — neppure si trattasse del testo sacro di un antico filosofo e visionario. Confrontando la nuova immagine postuma confezionata dalla Rete col David che abbiamo conosciuto e amato, Karen e altri suoi amici, ci siamo resi conto del torto enorme commesso ai suoi danni. Partire dal presupposto che fosse un genio e un santo significa travisarne l’opera. Credo che lui vorrebbe essere ricordato più come peccatore che santo».
Che cosa avrebbe detto della pubblicazione postuma del suo ultimo lavoro mai finito?
«David ha lasciato il manoscritto di Pale King sulla scrivania e ciò potrebbe indicare l’intenzione di vederlo pubblicato. Ma quando l’ha fatto era fuori di testa, al punto da impiccarsi. I dettagli del suicidio tradiscono una rabbia così profonda che è legittimo chiedersi se lasciare quelle carte in bella vista non facesse parte della sua collera. Pale King è l’unico scritto di David che non ho letto. Arriverà il momento; ma più avanti».
Si sente in colpa per la sua morte?
«Un mese e mezzo prima del suicidio trascorremmo una settimana insieme. È difficile aiutare una persona tanto depressa. David non era più in grado di ascoltare».
Uno dei «nemici» giurati, suoi e di Foster Wallace, il critico Harold Bloom, viene maltrattato in «Farther Away».
«Bloom mi ricorda Norman Mailer: entrambi non possono ammettere che qualcosa di buono è venuto dopo la loro generazione. I critici come Bloom tendono ad amare gli autori che essi stessi hanno aiutato ad emergere. Io ho portato i miei lavori direttamente ai lettori senza bisogno del suo aiuto e non mi sorprende se ciò lo ha irritato».
Bloom è un dinosauro, come affermano i suoi critici?
«Il suo talento enciclopedico è straordinario nell’ambito della poesia. Ma la sua teoria sul canone e l’influenza funziona solo lì e con tutto il resto finisce per apparire solo come uno stratagemma autopromozionale. Il romanzo è più contaminato della poesia dal mondo e dalla storia».
In «Farther Away» lei esprime gratitudine verso molti scrittori, da Kafka a Alice Munro.
«Kafka ha cambiato la mia vita. La letteratura delle donne mi attrae, contrariamente a Bloom il cui canone è fatto da maschi bianchi. Considerando la grandezza di Munro e il culto che suscita, mi sembra scandaloso che non sia inclusa tra i grandi, insieme con McCarthy, Roth e DeLillo».
Spiegando la sua vittoria al Pulitzer, Jennifer Egan ha detto al «Corriere» di aver «beneficiato dell’ira anti-Franzen delle femministe», indispettite dal successo secondo loro immeritato di «Freedom».
«È ironico che se la siano presa con uno che sfrutta ogni occasione per promuovere il lavoro di autrici donne. Anche se è meglio essere odiati piuttosto che mediocri, finché esisteranno i canoni maschilisti alla Bloom la rabbia di queste scrittrici sarà comprensibile. Comunque mi dispiace essere equiparato a uno come lui».
Lei ironizza più volte anche sulla fine del romanzo.
«Il romanzo sta vivendo uno straordinario revival. C’è un enorme bisogno di storie, grandi, elaborate e complesse che solo uno scrittore solitario e concentrato può produrre. Se non assediato dal cicaleccio assordante di Twitter».
E del racconto breve cosa ne sarà?
«È un genere difficile che in ogni generazione produce solo pochissimi talenti. Il mio amico David Means, Alice Munro, George Saunders, Lydia Davis. La poesia invece è stata rimpiazzata dal rap, attraverso il quale continua a essere viva e vegeta».
Alessandra Farkas