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 2012  marzo 11 Domenica calendario

I FIGLI DELLA BANCAROTTA - I

figli della Lehman, come anche i figli della Grecia, saranno diversi. Cresciuti nella notte della Grande Recessione, trascinati di crisi in crisi e spaventati, forse avranno terrore del futuro. O forse svilupperanno muscoli d’acciaio. Forse saranno italiani, europei, occidentali più estremisti: divisi e rissosi. O forse saranno umili: più attenti al lavoro, al risparmio e magari anche al vicino e al profumo dei prati. Difficile dirlo oggi. Al premier Mario Monti, qualche settimana fa, è scappato detto che gli eventi di questi mesi cambieranno la psicologia degli italiani: la storia insegna che le grandi crisi non passano mai senza lasciare cicatrici che cambiano i connotati di una nazione. La Repubblica di Weimar, l’America della Grande Depressione, il Winter of Discontent («inverno del malcontento») della Gran Bretagna, la caduta finanziaria dell’Asia a fine anni Novanta, l’Argentina di dieci anni fa: punti di svolta nella vita di un Paese, in qualche caso del mondo e di un secolo. Per il meglio o per il peggio. Sarà così anche questa volta.
«Una crisi finanziaria può certamente avere effetti persistenti su un ampio ventaglio di attitudini, qualcosa che potremmo chiamare mentalità — dice Alexander Field, professore di Economia alla Santa Clara University (California) —. Coloro che vissero durante la Grande Depressione negli Stati Uniti, per esempio, per anni ebbero attitudini molto negative nei confronti degli investimenti rischiosi. Già oggi vediamo gli effetti della crisi, con le istituzioni finanziarie e le famiglie americane che mostrano una preferenza per rendimenti zero, piuttosto che prendere rischi».
Una caratteristica ricorrente degli choc è di mettere chi li vive di fronte a un bivio: si può certo diventare più prudenti, come spiega Field, o attratti da rischi insensati come la Germania dopo Weimar. Per noi europei forse l’alternativa è diversa. Potremmo diventare più umili, più pronti a riconoscere che cosa dobbiamo cambiare della nostra convivenza civile ed economica per vivere meglio; oppure potremmo svegliarci un giorno più estremisti e più rissosi. Non è un’ipotesi lontana quest’ultima, è un effetto della Grande Recessione che si vede già e non solo in Grecia, dove tre partiti comunisti hanno insieme il 45 per cento nei sondaggi. Nella florida Olanda, nella laboriosa Finlandia gli estremisti e i populisti — a sinistra e a destra — dominano nei sondaggi e condizionano i governi. Da Parigi fino a Washington, le opinioni pubbliche sono sempre più polarizzate.
A sua volta, il virus della divisione alimenta la domanda di intervento pubblico ovunque in Occidente. «Le recessioni alterano incredibilmente le attitudini e le credenze degli individui, specialmente delle persone tra i 18 e i 25 anni — sostengono in uno studio Paola Giuliano della californiana Ucla University e Antonio Spilimbergo del Fondo monetario internazionale —. Interrogati da ricerche scientifiche, gli individui influenzati dalla recessione hanno espresso preferenze più forti per politiche pubbliche di redistribuzione e hanno mostrato di credere che il successo nella vita sia più una questione di fortuna che di duro lavoro. Si tratta di effetti permanenti».

L’iperinflazione durante la Repubblica di Weimar è una crisi riconosciuta come la base della paura che ancora oggi suscita in Germania l’idea di prezzi fuori controllo. In effetti, per i tedeschi lo choc fu devastante. Tra il 1922 e il 1923, il marco perse ogni valore. Un filone di pane arrivò a costare centomila milioni di marchi. Tra i cittadini si diffuse persino una sindrome dello zero, un disordine mentale che — si favoleggia — condusse alcuni a essere così ossessionati dagli zeri da sostenere di avere dieci miliardi d’anni o qualche centinaio di milioni di figli. Assieme alla disoccupazione che esplose a cavallo del 1929, l’iperinflazione fornì una base anche mentale alla presa del potere di Hitler nel 1933. «La Germania è ancora oggi vittima del mito dell’iperinflazione della Repubblica di Weimar — dice Gianni Toniolo, professore alla Duke University (North Carolina) e alla Luiss Guido Carli di Roma —. In effetti, quello fu un cambiamento epocale che, distruggendo la classe media, diede poi il segno a un secolo intero. Quel che la Germania dimentica è che alla base dell’iperinflazione ci furono le riparazioni di guerra e che anche oggi non è saggio chiedere ad altri Paesi europei forme di riparazione». È possibile che l’allergia ai trasferimenti al resto d’Europa, maturata allora, spieghi in parte la riluttanza tedesca ai fondi di salvataggio di oggi. Un effetto indiretto del dramma di Weimar fu però poi l’andare in senso opposto con la costituzione monetaria della Repubblica federale e la sua solidità: un caso di scuola di come la memoria di una crisi agisca a lungo nella vita di una nazione. La Germania divenne più estremista con il crollo di Weimar, ma economicamente più solida dopo.
Anche l’altra crisi epocale del secolo scorso, la Grande Depressione americana degli anni Trenta, generò il reagente di una memoria lunga. È l’esempio di come una crisi dolorosa possa diventare la porta verso un equilibrio migliore. Dopo il crollo del 1929, la disoccupazione rimase a due cifre per tutto il decennio successivo, in alcuni Stati ci fu la corsa dei depositanti a ritirare il denaro dalle banche per paura di fallimenti e perché un dollaro a Chicago valeva meno che a New York, le file dei poveri davanti alle cucine benefiche diventarono l’icona di un’epoca. Da allora, l’«ideologia americana» ha assunto la disoccupazione come male supremo, tanto che la lotta contro di essa è persino un obbligo della Federal Reserve, la banca centrale. «Gli Stati Uniti furono segnatissimi dalla Grande Depressione — sostiene Toniolo —. Certamente nelle scelte di politica economica, nel New Deal, nell’assunzione delle teorie di Keynes, nella formazione di un nuovo blocco sociale. Ma ne furono enormemente influenzate anche l’arte, la musica blues, la letteratura con scrittori come Steinbeck e Faulkner». La parola liberal assunse allora, con Franklin Delano Roosevelt, il senso che ha oggi: tollerante nella vita civile, aperto al mercato in economia, solidale socialmente.
Non solo. Il professor Field ha appena pubblicato un lavoro sorprendente su ciò che successe durante la Depressione. «Tra il 1929 e il 1941 il totale delle ore lavorate nel settore privato non crebbe — sostiene —. E anche il capitale privato investito non cambiò. Ciò nonostante, la produzione aumentò tra il 33 e il 40 per cento. Ciò fu possibile grazie a un’enorme crescita della produttività e dell’efficienza nelle fabbriche. E all’innovazione». Malgrado la crisi profonda, la ricerca si espanse. «Nel 1927 — continua Field — gli Stati Uniti avevano 6.700 lavoratori impegnati nella ricerca, nel 1933 il loro numero era salito a 11 mila, nel 1940 a 27 mila». Questa ricerca gettò le basi per le innovazioni del dopoguerra, a cominciare dalla televisione. E assieme agli investimenti pubblici in strade e ferrovie, fu all’origine del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta.

La questione oggi è se qualcuno dei Paesi colpiti dalla crisi di inizio millennio — perché no l’Italia — ripercorrerà aggiornato il cammino di allora o magari quello della Gran Bretagna del dopoguerra. Il Winter of Discontent britannico — l’inverno 1978-79 segnato da scioperi, inflazione e disoccupazione — portò un rapido cambio di stagione, iniziato già con le elezioni del maggio del 1979. «Il Paese disse: "Stiamo declinando da 80 anni, è arrivato il momento di dire basta". E trovò uno dei personaggi più straordinari del secolo scorso, al di là di quello che si può pensare delle politiche di Margaret Thatcher», dice Toniolo. Anche la crisi finanziaria dell’Asia nel 1997-1998 ha prodotto una metamorfosi delle attitudini. I Paesi asiatici hanno da quel momento deciso di non mettersi mai più in una condizione di vulnerabilità nella quale fossero obbligati a seguire le richieste del Fondo monetario internazionale, cioè dell’Occidente, e hanno iniziato a costituire enormi riserve valutarie come ammortizzatore nel caso di crisi future. Ciò ha contribuito a squilibrare il rapporto fra risparmio e debito nel pianeta, fino alla crisi di oggi e al sarcasmo con cui da Pechino e da New Delhi si seguono le disavventure euro-americane. Al contrario, l’Argentina ha pensato di risolvere la sua crisi, poco più di dieci anni fa, con un default sul debito e da allora non ha effettuato riforme né cercato di capire i propri errori, sostenuta dall’export di materie prime in un periodo in cui i prezzi di queste ultime sono elevati.
Guillermo Calvo, professore di Economia alla Columbia University di New York sostiene che questo trascinarsi «argentino», senza affrontare con decisione le origini della crisi, è un pericolo che corre l’Europa. «Gli argentini si sono svegliati un giorno e hanno visto che non erano ricchi come credevano, ma ora non ci pensano più». Anche gli europei tra una decina d’anni si ritroveranno confusi, senza avere dato un senso alla loro crisi? «L’euro è stato il perfezionamento finora più ambizioso della costruzione comunitaria — ha scritto a fine febbraio il governo italiano in un documento ufficiale —. Il governo si sta impegnando perché non diventi un fattore di disgregazione e separazione tra europei». Potrebbe prevalere l’umiltà, il guardarsi allo specchio e il rimboccarsi le maniche, magari nella versione liberal «rooseveltiana» o conservatrice «thatcheriana». Ma potrebbe anche prevalere la versione rissosa e balcanizzata: quella che porta il 70 per cento dei greci a essere risentiti verso la Germania, che li finanzia (26 mila euro per abitante in aiuti da Europa e Fmi), e i tedeschi a non poterne più del «pozzo senza fondo» di Atene. I figli della crisi saranno insomma alla ricerca di modelli sostenibili, oppure con la voglia di fare a pugni. Perché mai come in una crisi il futuro — vicino e lontano — è nelle nostre mani.
Federico Fubini
Danilo Taino