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 2012  marzo 09 Venerdì calendario

Borsellino sarebbe stato ucciso perché contrario alla trattativa Stato-Mafia

“Un amico mi ha tradito”, rivelò in lacrime Paolo Borsellino ai suoi “allievi” Massimo Russo e Alessandra Camassa, probabilmente il 29 giugno 1992, il giorno dopo avere appreso della trattativa tra mafia e Stato. Un amico rimasto senza nome perché era un nome “sconvolgente’’. Ma la Camassa un sospetto l’ha avuto: “La mia impressione – ha detto ai pm – è che potesse trattarsi di un carabiniere, anziano ed esperto”. L’identikit del generale Antonio Subranni , potente capo dei Ros, indagato a Caltanissetta per la trattativa e indicato dalla vedova Borsellino come “punciutu”, e cioè uno d’onore? Lari, prudente: “Subranni? È solo un sospetto”.
DALLA SVOLTA nissena nelle indagini sulla strage di via D’Amelio affiorano ombre in divisa sullo sfondo di una ricostruzione più chiara del movente: Paolo Borsellino saltò in aria perché considerato “un muro” che ostacolava la trattativa tra mafia e istituzioni “finita su un binario morto”. Ma la sua eliminazione, decisa dal boss Totò Riina e realizzata con l’esplosione di un’autobomba in pieno centro di Palermo, perseguiva anche un’evidente finalità terroristica: creare caos e confusione per minare gli equilibri istituzionali del Paese. È la svolta che la Procura di Caltanissetta ha impresso alle indagini sulla strage di via D’Amelio, che il 19 luglio 1992 assassinò il procuratore aggiunto di Palermo e la sua scorta di cinque persone, tra cui anche una donna: la poliziotta Emanuela Loi. L’ultima ricostruzione del “botto” che uccise Borsellino è contenuta nella voluminosa ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip nisseno Alessandra Bonaventura Giunta: un documento di oltre mille pagine che, confermando quasi in toto le richieste del procuratore Sergio Lari, dell’aggiunto Nico Gozzo e dei pm Nicolò Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani, individua il boss Salvino Madonia, come presunto mandante dell’eccidio, e Vittorio Tutino e Salvatore Vitale, come esecutori.
I PRIMI due sono già in carcere, il terzo, gravemente ammalato, si trova ai domiciliari. Un quarto imputato, il pentito Calogero Pulci, è stato arrestato dalla Dia con l’accusa di calunnia, per aver incolpato falsamente Gaetano Murana (oggi uno dei protagonisti del processo di revisione) di essere un esecutore della strage. Si tratta degli ultimi nomi emersi nell’indagine che – snobbando i verbali di Massimo Ciancimino, “bollato” come inattendibile – ha riscritto da capo le fasi esecutive della strage di via D’Amelio, dopo la collaborazione del pentito Gaspare Spatuzza. Nomi di complici che vanno a chiudere il quadro della manovalanza mafiosa sguinzagliata da Riina a Palermo in quell’estate di sangue del ’92. Ma la novità più eclatante è che l’accusa di strage formulata nei confronti del boss Madonia, di Tutino e di Vitale, è accompagnata dall’aggravante delle “finalità terroristiche”: a riprova del fatto che la Procura di Caltanissetta non rinuncia a leggere le stragi siciliane del ’92 come proiezione di un’ennesima strategia della tensione, un passaggio cioè caratterizzato da forti connotazioni politiche che, probabilmente, esulano da obiettivi di esclusivo interesse mafioso. L’indagine di Lari e dei suoi pm, insomma, non si ferma alla manovalanza di Cosa nostra, anche se fino ad oggi sia il filone del depistaggio, che quello dei mandanti esterni di via D’Amelio non hanno portato ad alcuna incriminazione. Così, se da una parte il gip è costretto, nella sua maxi-ordinanza, ad ammettere che finora “non sono emersi elementi di prova utili a formulare ipotesi accusatorie concrete”, a carico di soggetti esterni a Cosa nostra, d’altra parte, lo stesso giudice invita esplicitamente a “non parlare di conclusione della vicenda”, perché occorrono “ulteriori approfondimenti”, dal momento che “le indagini sono state vulnerate dalla velenosa convergenza di fonti infide, fonti reticenti, anche appartenenti alle istituzioni, che hanno compromesso il difficile percorso di accertamento delle responsabilità”.
I NUOVI arresti della Procura di Caltanissetta rappresentano, dunque, non un punto d’arrivo, ma solo “un punto di partenza”, come sottolinea il pm Nicolò Marino. Sulla base di una ricostruzione che oggi pare combaciare perfettamente con quella dei colleghi di Palermo, impegnati nell’indagine sulla trattativa mafia-Stato. “La tempistica della strage Borsellino – scrive il gip Giunta – è stata certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra”. Le indagini hanno, infatti, appurato senza ombra di dubbio che Borsellino venne informato della trattativa da Liliana Ferraro, appena nominata direttore degli Affari Penali, il 28 giugno del 1992, nell’incontro casuale che i due ebbero a Fiumicino. Ed è proprio lì, nella saletta vip dell’aeroporto di Roma, che Borsellino, secondo la ricostruzione dei pm nisseni, comincia a morire. La sua conoscenza della trattativa, avviata grazie ai contatti tra il generale del Ros Mario Mori e il mafioso Vito Ciancimino, e la percezione da parte del boss Riina del “muro” che Borsellino avrebbe opposto alla prosecuzione del dialogo tra mafia e Stato, sono le due ragioni che di colpo decidono l’improvvisa accelerazione ed esecuzione della strage. Secondo la Procura di Caltanissetta, “questa conclusione è legittimata, tra l’altro, dalle dichiarazioni rese dal collaboratore Giovanni Brusca a proposito dell’ordine ricevuto da Riina di sospendere, nel giugno 1992, l’esecuzione dell’attentato nei confronti dell’onorevole Calogero Mannino perché c’era una vicenda più urgente da risolvere”.
ED È PROPRIO Mannino, ex ministro e segretario della Dc siciliana, secondo la procura di Palermo, il politico che avrebbe dato l’input a Mori per avviare gli incontri con don Vito. Lo stesso Mannino che successivamente avrebbe esercitato “pressioni per un ammorbidimento del regime carcerario del 41 bis”. È a questo punto, ricostruiscono in tandem le procure, che Riina avrebbe deciso di fermare Brusca, “graziando” di fatto Mannino, per accelerare la tempistica di via D’Amelio e uccidere Borsellino. Ma chi informo’ Riina di questo “muro” alzato dal giudice tra i boss e lo Stato ? Agnese Piraino Leto, vedova di Borsellino, racconta che a meta’ giugno ‘92, il marito si era sfogato con lei dicendo: “C’è un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. È il racconto in diretta della trattativa. Poi le disse che “il generale Subranni era punciutu. Era sbalordito, ma lo disse con tono assolutamente certo. Aggiunse che quando glielo avevano detto era stato tanto tanto male da avere vomitato; per lui l’Arma dei carabinieri era intoccabile...”. A fine giugno, un Borsellino ormai provato, in lacrime si sfogò con i colleghi di Marsala, i pm Massimo Russo e Alessandra Camassa: “Un amico – disse – mi ha tradito”. Il nome di questo amico era così “sconvolgente”, che Borsellino non volle svelarlo. Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza • CHI SAPEVA, CHI FINGE DI NON SAPERE E CHI C’ERA - OSCAR LUIGI
SCALFARO
Presidente della Repubblica
Viene eletto capo dello Stato pochi giorni dopo la strage di via d’Amelio (in realtà strage di Capaci, ndMP). Un mese dopo incarica Giuliano Amato di formare il nuovo governo. Esecutivo su cui s’interessa parecchio, se è vero che decide personalmente di far nominare Giovanni Conso Guardasigilli. È lui che sfratta dal Dap Niccolò Amato, considerato dai familiari dei detenuti come un “dittatore”.
CALOGERO MANNINO
Ministro per gl’interventi nel Mezzogiorno dal 12 aprile 1991 al 28 giugno 1992.
È considerato l’uomo che dà inizio ai contatti tra lo Stato e Cosa Nostra. Impaurito a morte per le minacce della mafia, incontra il generale dei carabinieri Subranni e il numero tre del sisde Bruno Contrada per invitarli ad aprire un contatto con Cosa Nostra. Che infatti decide di non eliminarlo più.
NICOLA MANCINO
Ministro dell’Interno dal 28 giugno 1992 al 19 aprile 1994
È l’uomo dai tanti, troppi “non so” e “non ricordo” . Non è mai riuscito a ricordare l’incontro con Paolo Borsellino al Viminale il primo luglio del 1992. Mancino sostiene di non poter ricordare con certezza il suo incontro con quello che all’epoca è il magistrato più famoso d’Italia, e che diciannove giorni dopo salterà in aria a sua volta nell’inferno di via d’Amelio. “Non escludo però che ci sia stata una stretta di mano, non lo escludo e nel mio linguaggio può voler anche dire che ammetto” ha detto sottovoce l’ex vice presidente del Csm in aula al processo contro il generale del Ros Mario Mori. Eppure su quel primo luglio ’92 il giudice Vittorio Aliquò aveva raccontato già tre anni fa come lui e Borsellino avessero effettivamente incontrato il ministro, nel giorno del suo insediamento. Ebbero però soltanto il tempo di stringergli la mano, senza potergli parlare di nulla. Mancino però di quell’incontro non ricorda neanche questo. E non riesce neanche a rammentare in che modo il 28 giugno del 1992 avvenne il cambio di consegne al vertice del Viminale con il suo predecessore Vincenzo Scotti, “Chiamai Scotti per convincerlo ad accettare il ruolo di Ministro dell’Interno - ha detto Mancino - ma lui non voleva più ricoprire l’incarico di ministro, dato che nella Dc avevamo deciso che chi entrava nel governo doveva dimettersi da deputato. Scotti invece non voleva rinunciare all’immunità parlamentare”. Una ricostruzione quella di Mancino che è inconciliabile con quella di Scotti che al contrario racconta di avere avuto all’epoca la ferma intenzione di rimanere in carica come responsabile degli Interni, anche nel nuovo governo Amato: “Sono andato a letto credendo di essere nominato il giorno dopo al Viminale e invece mi sono svegliato ministro degli Esteri”. Perché avviene quindi quella sostituzione inaspettata al vertice del Viminale? Per la procura di Palermo, Scotti viene silurato perché è troppo duro con Cosa Nostra. C’è una trattativa da fare e il ministro campano è uno strenuo sostenitore dell’inserimento nei penitenziari del carcere duro per i mafiosi. Secondo Giovanni Brusca “Mancino era il terminale finale del papello”. Per Caltanissetta però il ruolo dell’ex presidente del Senato sarebbe di minore portata: essendo entrato in carica solo il 28 giugno viene a conoscenza di certe dinamiche solamente dopo.
CLAUDIO MARTELLI
Ministro della Giustizia dall’1 febbraio del 1991 al 10 febbraio del 1993
È l’uomo informato da Liliana Ferraro dei contatti tra il Ros di Mario Mori e Vito Ciancimino: per gli investigatori è l’inizio della trattativa. Martelli è certissimo di avere incontrato Mancino il 4 luglio del 1992. Oggetto del vertice tra i due ministri sarebbe, secondo Martelli, l’attività del Ros di Mori, impegnato in incontri con Vito Ciancimino, che per gli inquirenti sono alla base della trattativa. “Mi lamentai del comportamento del Ros – ha detto Martelli - in quanto ritenevo la loro iniziativa arbitraria”. Ma per Mancino, l’ex guardasigilli non gli parlò mai degli incontri in corso tra Ciancimino e il Ros, ma solo “dell’opportunità di lavorare in sintonia”. Anche Martelli però non si sottrae al negazionismo istituzionale “Non ebbi assolutamente sentore di trattativa”, ha detto l’ex numero 2 di Craxi, che però ha sottolineato che “il Ros cercava una sponda politica per le sue condotte, per come mi aveva informato la dottoressa Ferraro. Quella è stata l’unica occasione in cui il Ros, o comunque una forza di polizia, mi ha chiesto copertura politica per una iniziativa. Verosimilmente il Ros cercava solo di tutelarsi”. Ma se davvero, come ha detto Martelli, il Ros era impegnato soltanto in “attività investigativa non autorizzata” che bisogno c’era addirittura di una copertura politica? I magistrati di Caltanissetta non hanno dubbi: “Si tratta certamente di una trattativa”.
GIOVANNI CONSO
Ministro della Giustizia dal 12 febbraio 1993 al 28 aprile 1994
Sostituisce Martelli in via Arenula. Professore di procedura penale, è un Ministro tecnico, scelto personalmente dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. È lui che lascia scadere oltre trecento provvedimenti di carcere duro per detenuti mafiosi. “Fu una scelta presa in completa autonomia” ha raccontato al magistrato, non sapendo indicare quale fosse la reale motivazione di quella mancata proroga del blocco di 41 bis. Subito dopo la sua nomina a Ministro della Giustizia cambiano anche i vertici del Dap: al posto di Niccolò Amato arrivano Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio. Quest’ultimo non aveva i titoli richiesti per ricoprire quel ruolo e per poterlo nominare il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro lo deve nominare consigliere di Stato. Quando i magistrati chiederanno a Conso perché avesse scelto Di Maggio, lui risponderà: “Lo vedevo alla televisione”.
CIANCIMINO JR
Figlio di Don Vito, sindaco mafioso di Palermo nel 1970
Il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo è testimone dei primi incontri tra suo padre è Giuseppe De Donno, braccio destro di Mori. È il testimone cioè dello start up della trattativa. “È grazie alle sue dichiarazioni se molti politici hanno trovato memoria” ha detto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo. Per la procura nissena però è un teste inattendibile.
MONSIGNOR FABIO FABBRI
Cappellano del carcere
È il segretario di Monsignor Curioni, capo dei cappellani carcerari. È ai due sacerdoti che il presidente Oscar Luigi Scalfaro chiede consiglio sui nuovi vertici del Dap per sostituire Niccolò Amato. Il giorno dopo, davanti al ministro Con-so, è proprio Fabbri a dare il consiglio giusto. Mi venne in mente – ha detto in aula – che per quel ruolo era perfetto un mio caro conoscente: Adalberto Capriotti, procuratore a Trento, che era un uomo mite, molto religioso, un uomo di chiesa.” La scelta dei dirigenti dell’amministrazione carcera-ria venne insomma delegata ai capi dei cappellani che, per stessa ammissione di Fabbri, “sono sempre stati dalla parte dei detenuti”.
TOTÒ RIINA
Il boss di Corleone
Il capo di Cosa Nostra è l’uomo della prima trattativa. Prima decreta l’aggressione allo Stato con la strage di Capaci. Poi cercauncontatto.Dopolastragedi via d’Amelio annuncia ai suoi che “quelli si sono fatti sotto”
LILIANA FERRARO
Direttrice Affari Penali del Ministero della Giustizia
Con lei prende contatti De Donno informandola dei contatti avuti con Vito Ciancimino. È lei in pratica la prima a sapere che ci sono pezzi dello Stato che stanno aprendo un canale con Cosa Nostra. Giuseppe Pipitone