Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 09/03/2012, 9 marzo 2012
PAGLIARANI, L’EPICA DEL QUOTIDIANO - È
morto ieri a Roma il poeta Elio Pagliarani. Era nato a Viserba (Rimini), il 25 maggio del 1927. La sua poesia ha affrontato temi realistici e del lavoro. Elio Pagliarani non aveva nulla del poeta laureato che, a torto o a ragione, siamo soliti immaginare. Non ne aveva i vezzi stilistici né l’allure impostata secondo stereotipo. Era nato nel 1927 a Viserba (Rimini) in una famiglia operaia ma si sentiva milanese «per apprendistato sentimentale e non» (avendo vissuto nel capoluogo lombardo dai 18 ai 33 anni) e romano d’adozione per aver trascorso nella capitale il resto dei suoi anni. Al suo paese romagnolo è ritornato verso la fine, non fisicamente ma con il ricordo ravvicinato di un’autobiografia al plurale, Pro-memoria a Liarosa, un’«autobiografia collettiva» (definizione del suo amico Walter Pedullà) in cui raccontò (a Liarosa, sua figlia per dirle che «è grato del mondo e dell’amore») quasi tutta la sua vita. La comunità contadina, le veglie ad ascoltare i vecchi, la famiglia, l’infanzia, la madre Pasquina, i primi lavori (garzone del vinaio), la giovinezza, la mistica fascista, la povertà, i primi versi, i bombardamenti, le retate, il viaggio avventuroso verso Padova (con interrogatorio dei partigiani sulla pubblica piazza di un paesino), l’università in Scienze politiche, Milano, le tante amicizie, il lavoro di traduttore dall’inglese e dattilografo per una ditta import-export, la prima raccolta di versi, l’insegnamento in una scuola media, i primi rapporti con la politica (fondatore del Fronte della Gioventù al suo paese), le feste da ballo, le trattorie e le osterie dove leggeva ad alta voce le sue poesie agli avventori, gli amori, l’impiego da redattore all’«Avanti», prima a Milano poi nella capitale, gli incontri con Fortini, con Solmi, con Barthes, la cartolina di Pasolini che nel ’54 volle conoscerlo, l’amicizia con Quasimodo, le riunioni di «Ragionamenti», il trasferimento a Roma nel 1960, altri amici, le polpette al sugo, la disoccupazione per cinque o sei anni, il Gruppo 63, la folgorazione per Elena, il matrimonio con Cetta a 49 anni, la consulenza per Rizzoli e poi per Bompiani, le perdite e le vincite al poker in casa di Gigi Malerba eccetera eccetera. Una lunga vita.
Della sua prima raccolta poetica, Cronaca e altre poesie, pubblicata da Schwarz nella primavera del 1954, l’autore stesso osservò, nel risvolto, che risultava gravata da «troppa, ineluttabile carità di sé e conseguente bagaglio». C’era già lì, in quella dimensione di «epica quotidiana», molto del Pagliarani futuro, quello de La ragazza Carla, il suo libro più noto e uno dei risultati più alti della produzione poetica del decennio, cominciato una mattina sulla cattedra, mentre gli allievi si dedicavano a un compito in classe di italiano: «Di là dal ponte della ferrovia / una traversa di via Ripamonti / c’è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina». Il poemetto è preceduto da una didascalia in cui viene dichiarata esplicitamente l’occasione che ispirò quel testo: «Un amico psichiatra mi riferisce di una giovane donna impiegata tanto poco allenata alle domeniche cittadine che, spesso, il sabato, si prende un sonnifero, opportunamente dosato, che la faccia dormire fino al lunedì».
È l’autore stesso a raccontare come, dall’uscita dell’opera prima, gli fosse subentrata la preoccupazione di sottrarsi alla «tirannia dell’io», l’esigenza di aprire il linguaggio poetico all’impoetico, alla prosa, al referto, in un «rapporto di reciproca umiliazione tra lingua letteraria e linguaggio comune», come ha scritto Walter Siti. Non c’è più la prima persona, ma una coralità oggettiva, di tono documentario e di ritmo serratissimo, con brevi controcanti decisamente lirici, che narra una Milano impiegatizia, grigia, tra uffici, tram, «boschi di cemento», disperato «stridere di ferrame», periferie nebbiose, cieli «colore di lamiera», e la Rinascente di fianco al Duomo: è una città che «più che vederla — scrive Pedullà — la si sente parlare… sembra fatta di parole». La ragazza Carla esce nel ’60 sul numero 2 del «Menabò» e verrà poi riproposta in volume con altri testi, non prima che appaia un altro libro, Inventario privato (Veronelli 1959), elaborato in contemporanea.
Intanto Pagliarani si avvicinava alla Neoavanguardia, ma se ne faceva interprete del tutto originale nel segno di una sperimentazione inesausta che avrebbe prodotto libri che, sempre fondati su un principio di realtà, avrebbero accostato (qualcuno ha detto «affastellato») materiali linguistici di diversa provenienza lasciando liberamente agire le interne contraddizioni: per esempio in Lezioni di fisica (Scheiwiller 1964), dove si trovano, accanto a stralci di dialogo amoroso, documenti epistolari sulla costruzione della bomba atomica e inserti spericolatamente settoriali. Salta all’occhio la tensione costruttiva, il procedimento a collage che non esclude, anzi in qualche modo finisce per confermare, mettendo sulla pagina ex abrupto la materialità del mondo (quotidiano, scientifico, economico), quella carica di durezza eversiva e a tratti rabbiosa («siamo in troppi a farmi schifo») che si trovava ne La ragazza Carla. Presente nell’antologia dei Novissimi, Pagliarani non ha mai ripudiato la sua vicinanza alla Neoavanguardia, ricordandola, a distanza d’anni, come un’esperienza «stimolante, intensa, anche troppo seriosa, ma sostanzialmente anche molto allegra e lucidissima» che al di là delle «speranze e/o ambizioni palingenetiche» di alcuni, gli parve utile per l’imperterrito impegno sul linguaggio e per «il lucido smagato rapporto col presente». Sperimentatore realistico, anche nelle parche prove più tarde (Esercizi platonici, Acquario 1985 e Epigrammi ferraresi, Manni 1987), Pagliarani ha lavorato per un ventennio a La ballata di Rudi (Marsilio 1995), «rendiconto» poetico e corporale dall’ampio ritmo romanzesco (con versi lunghissimi) in cui si delineano personaggi e situazioni del dopoguerra italiano: l’intenzione civile e morale che era già ben presente nei primi libri qui sembra insieme trovare il suo coronamento naturale e deflagrare in una polifonia a volte delirante, spaesante, quasi minacciosa come minacciosa e angosciante è la civiltà in mutamento che va narrando.
E non a torto Andrea Cortellessa ha accostato la stratificata dimensione epica della Ballata a un’altra gigantesca esperienza letteraria del delirio polifonico, Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. In un crescendo caotico di angoscia, il romanzo in versi di Pagliarani si conclude, dopo l’ossessivo ritorno di immagini apocalittiche, con un interminabile verso a quattro gradini che rilancia la speranza: «Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare».
Paolo Di Stefano