GIANNI RIOTTA, La Stampa 9/3/2012, 9 marzo 2012
“Se non sappiamo competere l’Italia perderà il lavoro” - Lorenzo Bini Smaghi è in Italia per l’inaugurazione della mostra «Sognatori americani», a Firenze, dove presiede la Fondazione Palazzo Strozzi
“Se non sappiamo competere l’Italia perderà il lavoro” - Lorenzo Bini Smaghi è in Italia per l’inaugurazione della mostra «Sognatori americani», a Firenze, dove presiede la Fondazione Palazzo Strozzi. «L’unica – dice orgoglioso - con pubblico e privato in perfetta parità di titoli». Il vernissage raccoglie autori come Laura Ball, acquerelli quasi da fumetto, o Patrick Jacobs con false immagini urbane, che, secondo il catalogo, «utilizzano fantasia... per costruire possibili mondi alternativi di fronte alla realtà... difficile del presente». Nella citazione dell’onnivora crisi Bini Smaghi ritrova il mestiere lasciato a fine anno, l’executive board della Banca centrale europea a Francoforte. Ora fa ricerca al Centro Weatherhead dell’università di Harvard, e gli economisti americani gli domandano non già «dei mondi alternativi» ma del «difficile presente»: «Sono persuasi di starsi tirando fuori dai guai con una ricetta di sviluppo, si meravigliano perché noi europei non ci decidiamo a seguirla. Ad Harvard alzi il telefono, chiami Lawrence Summers, l’ex segretario del Tesoro, ti dice la sua in due parole, tutto molto più diretto che da noi». A che punto è la crisi in America? «Tutte le scelte sono dettate dalle elezioni per la Casa Bianca. La bussola è sulla crescita, lo stimolo, in gergo diciamo “denominatore”. I tassi d’interesse devono restar bassi e si accettano i rischi, nuove bolle, disavanzo pubblico elevato, debito. Ma fino alle elezioni di riforme fiscali o debito delle famiglie non si parlerà. Funzionerà a breve. I numeri ultimi dell’occupazione non sono smaglianti, ma da tre mesi migliorano. Ad Harvard si meravigliano che noi europei preferiamo la strada opposta del rigore». Hanno ragione? «Sono situazioni diverse. In Europa non c’è una singola scadenza elettorale che vincoli insieme i 17 Paesi. L’euro esiste da dieci anni, non funge ancora da valuta di riserva come il dollaro. Washington può vendere bond a prezzi stracciati, noi non ancora. E c’è il peso dell’economia pubblica, più tasse, la rigidità del mercato...». Sarkozy parla di aumentare le tasse, il rivale socialista Hollande promette un’aliquota del 70% sui redditi di un milione di euro l’anno come il socialdemocratico tedesco Gabriel per il 2013. E’ l’età fiscale del ferro in Ue? «Negli Usa dicono che la Cina è già XXI secolo, l’America è nel XX e prova a passare al futuro, noi europei siamo vestigia del XIX. Quando guardano la Grecia in tv o studiano Spagna, Portogallo e Italia, li preoccupa la sostenibilità politica del rigore». Insomma fa da ambasciatore economico del Vecchio Continente: come sembra l’Europa vista dall’America? «Sono stati fatti passi in avanti per risolvere la crisi del debito, ma non risolutivi. E’ mancata la coscienza comune dei 17 Paesi euro che solo andando avanti, insieme, si esce dalle difficoltà perché tornare indietro sarebbe un dramma. Invece si agisce solo sotto il pungolo dei mercati in fibrillazione. A un passo dall’abisso ripensiamo alle riforme, ritocchiamo le pensioni. Ma la sfida della competizione globale non si soddisfa con provvedimenti casuali. Occorrono riforme strutturali. Se l’età per la pensione deve essere 67 anni non si può più andare in pensione a 65. Punto. La forza della Germania è avere fatto dolorose riforme già col cancelliere Schroeder. Oggi raccolgono i frutti». Le riforme sono ora in agenda in Italia col premier Mario Monti: ce la faremo? «C’è un falso segreto in Italia: siamo un mercato protetto. Stato, imprese e sindacati preferiscono rifugiarsi in settori a scarsa concorrenza e bassa competizione. Per gli insider è una sicurezza, ma non creiamo lavoro. Per l’Italia il cammino nella crisi può ancora essere lungo. Per crescere dovremmo svilupparci nei settori competitivi nel mondo. Serve riformare la giustizia, far saldare i crediti delle aziende con la pubblica amministrazione, snellire la burocrazia e eliminare rigidità sul mercato del lavoro. L’articolo 18 è diventato icona, ma se non sappiamo competere con le regole del mercato globale perderemo lavoro. Il 2012 sarà quindi molto duro, nel 2013 altri paesi cresceranno, noi faticheremo. Se il debito sul Pil non scende, i mercati torneranno a innervosirsi. Anche voi dei media avete responsabilità: chi sa che nel decennio euro abbiamo perduto il 25% di competitività sulla media europea e il 35% sulla Germania? Monti lo sa e deve tenere duro». E’ la scommessa del ministro Passera, la crescita: che idee ha? «Ho letto il libro di Edoardo Nesi, “Storia della mia gente”, bravo scrittore, ma sono le idee che non funzionano, il sogno di tornare a una patria delle lettere che rilutta a competere. Servono aziende capaci di innovare, alla Luxottica o Brunello Cucinelli. I nostri ragazzi devono imparare la matematica, non aspettare il posto fisso che non c’è più. Il modello italiano ideale, piccolo è bello, banche perfette, era utopia. I Medici crearono le moderne banche persuadendo la Chiesa con il patronage dell’arte: ma non appena caddero nel nepotismo, capitalismo di relazione lo chiameremmo oggi, il loro vantaggio strategico svanì. Innovare è la parola chiave, non c’è diritto feudale al benessere. Provincialismo e ignoranza sono nemici mortali». Questa è la sua prima intervista in Italia da quando ha lasciato la Banca centrale europea, dopo l’insediamento al vertice di Mario Draghi, che proprio in queste ore ha difeso la Bce dalle critiche dicendo che il credito sta arrivano ora alle banche piccole, le più vicine alle Pmi, e negando ogni attrito con la Bundesbank. Come le sembra la Bce da Harvard? «Ho votato anch’io l’ultima iniezione di liquidità, a dicembre, la strada è giusta. E’ boccata d’ossigeno indispensabile a guadagnare tempo nella crisi. Poi occorre ripartire». Sul «Financial Times» ha scritto di «rischio tossicodipendenza per le banche». «Sì. Va evitato il rischio che le banche ritardino la messa a posto dei bilanci e il rafforzamento del capitale, ipnotizzate dalla liquidità. La Bce deve vigilare su manager e azionisti perché, quando la crisi passerà, le banche siano in grado di farcela da sole, senza sostegni. Accanto al “fiscal compact” indispensabile in Europa, serve un parallelo “supervisory and regulatory compact”. Se no, finiamo dritti nel “decennio perduto” dell’economia giapponese». Il presidente Draghi ha detto anche che forse la crisi peggiore è alle spalle, pur nella contrazione 2012 «La Banca centrale non deve farsi intimidire, deve andare avanti sulla stabilità dei prezzi, come ha fatto con successo per dieci anni. Deve sempre decidere, anche a rischio di sbagliare, sapendo che non decidere è di sicuro un errore». Quindi non è la testardaggine della Cancelleria Merkel il problema? «I tedeschi sono più europeisti di francesi e italiani. Il parlamento tedesco ha sempre, con puntualità, saldato i conti della crisi del debito. I tedeschi hanno sbagliato meno degli altri europei. Hanno disoccupazione più bassa dei tempi pre crisi, hanno innovato l’industria, pagato le tasse. Competere nel mondo globale non è un frutto della genetica, ma di fatica, etica del lavoro. E’ bene ricordarselo». Finiamo sulla Cina, che ha definito il XXI secolo «Con Xi Jinping va al potere la generazione che dovrà gestire gli squilibri creati dal boom. Ogni economia ha i suoi cicli, ci sarà un rallentamento anche a Pechino, speriamo non entro tre anni, sarebbe esiziale per tutti».