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 2012  marzo 09 Venerdì calendario

CONDANNATI ALLA POVERTÀ

Alla fine la finanza ce l’ha fatta. Alle otto di ieri sera, ora italiana, è arrivato l’annuncio ufficiale: i possessori privati di debito greco hanno detto sì alla proposta di accettare la perdita di oltre metà del loro denaro.
È stato così rinviato alle calende greche il rimborso del resto e i creditori si sono accontentati, per questo lungo periodo, di un tasso di interesse molto basso.

Siccome l’adesione è stata volontaria - anche se certo non spontanea, viste le pressioni sui fondi e sulle banche che detenevano grandi quantità di titoli greci - la Grecia non è in fallimento; la valanga dei rimborsi sui Cds, i titoli-scommessa sul fallimento di Atene, ben più temibili del debito stesso, stimati in 1000-1500 miliardi di euro non si abbatterà quindi sulla finanza mondiale. A causa di questa valanga, alcuni grandi della finanza internazionale avrebbero potuto soccombere, ancora più facilmente della Grecia.

L’equilibrio di fondo della finanza globale appare comunque salvo, per il momento; la testardaggine del cancelliere tedesco, temperata dai suoi partner italiani e francesi, consente ora a tutti di tirare un sospiro di sollievo. L’indice Dow Jones - leggendario termometro dei capitalismo finanziario - può riprendere la marcia verso quota 13 mila, superata di un soffio prima di ricadere nei giorni scorsi, proprio per il pericolo di un cedimento dell’euro.

In questa situazione l’Italia incassa un bonus particolare: l’ormai famoso «spread», ossia la distanza tra i bassi rendimenti dei titoli decennali emessi dallo Stato tedesco e gli equivalenti emessi dallo Stato italiano, è sceso sotto il livello del 3 per cento. Siamo di nuovo un Paese rispettabile e l’estero non sembra dare gran peso al cicaleccio politico esploso improvvisamente due giorni fa, considerandolo normale amministrazione. Il che significa che lo Stato spenderà meno per ottenere il rifinanziamento dei debiti in scadenza nelle prossime settimane (e sperabilmente nel resto dell’anno). E gli spagnoli, nostri «cattivi» cugini, che hanno apertamente sfidato l’Europa annunciando che nel 2012 non rispetteranno l’obiettivo di deficit a loro assegnato, hanno avuto la «punizione» che si meritano: per la prima volta da molti mesi il loro «spread» è (un po’) più alto del nostro. Le distanze sono ristabilite, le normali gerarchie sono rispettate.

Di fronte a questo complicato e fragile ritorno alla normalità occorre evitare manifestazioni premature di giubilo. E questo per tre motivi. Il primo è che quello che abbiamo fatto alla Grecia trascende i confini dell’economia: premesso che i Greci sono stati dei grandi mentitori (ma l’Europa finanziaria per anni ha voluto credere alle loro menzogne senza darsi la pena di indagare) va denunciato che il resto d’Europa li sta trattando, per certi aspetti, peggio di come gli alleati della seconda guerra mondiale trattarono la Germania sconfitta. L’accordo che mette al riparo l’euro, condanna infatti la Grecia: tra il 2009 e il 2011 il prodotto lordo greco ha già subito una caduta del 10 per cento e scenderà ancora (secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale) almeno del 2 per cento nel 2012. La disoccupazione è raddoppiata, le retribuzioni dei pubblici dipendenti sono state decurtate del 20 per cento.

A fronte di questi enormi sacrifici, la Grecia non ha alcuna certezza che la cura funzioni. Può anzi trasformarsi in una trappola crudele: le imposte pagate da un’economia che si contrae in questa maniera si contraggono fortemente anch’esse e il sospirato pareggio di bilancio che sembra a portata di mano sfugge quando si crede di averlo afferrato. E’ già successo con il primo tentativo di salvataggio della Grecia, potrebbe succedere di nuovo. Impedendole di dichiarare ufficialmente il fallimento, l’Europa sta costringendo la Grecia a dissanguarsi goccia a goccia senza una chiara possibilità di ripresa. A questa tortura un giornale di Vienna ha dato il nome appropriato di «genocidio finanziario»: stiamo condannando quel Paese ad almeno 15 anni di relativa povertà.

Dalla parte dell’Unione Europea non tutto è tranquillo. Il presidente della Banca Centrale Europea (Bce) ha potuto ieri suonare il «cessato allarme» per l’euro e rallegrarsi pubblicamente per il superamento dell’ostacolo e il successo delle due recenti operazioni di finanziamento a tre anni, per complessivi mille miliardi di euro, che hanno fornito all’economia europea almeno una parte dell’ossigeno necessario per sopravvivere. La stessa Bce ha però ancora una volta tagliato le stime della crescita europea che ora oscilla tra -0,5 e +0,3 per cento, il che significa stagnazione. L’inflazione è prevista tra il 2,1 e il 2,7 per cento, in significativo aumento rispetto all’1,5-2,5 per cento di dicembre, soprattutto per l’aumento del prezzo del petrolio. Non è proprio un buon segnale. Lo stesso Draghi, inoltre, ha dovuto difendersi dalle critiche dei «falchi» della Bundesbank, arrivate ai giornali grazie a un’insolita indiscrezione tedesca: dietro l’unità di facciata dei banchieri europei vi sono differenze profonde e molta incertezza.

In questa prospettiva si colloca l’incerta situazione italiana; il rallegramento per i risultati raggiunti negli ultimi quattro mesi non deve far dimenticare che la strada che il Paese deve percorrere è lunghissima. Abbiamo scalato una collinetta, appena una piccola asperità che fa da anticima alla montagna del nostro debito, accumulato in una generazione. Stiamo andando di buon passo, ma la strada davanti a noi è ancora davvero molta.