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 2012  marzo 09 Venerdì calendario

METTIAMO ALL’ASTA IL CANONE RAI


La data non è poi così lontana: 6 maggio 2016. Mancano poco più di quattro anni, eppure quel giorno potrebbe chiudersi un’epoca, perché lì scadrà la concessione di servizio pubblico affidata alla Rai radiotelevisione italiana. Non si tratta del contratto di servizio che ogni tre anni stabilisce a fronte di quali obblighi aziendali e di programmazione la Rai percepirà il canone di abbonamento alla radiotelevisione. In quella primavera del 2016 finirà quell’automatismo che fino ad oggi ha dato per scontato che l’unico soggetto imprenditoriale nazionale che può ricevere il canone è la Rai. Probabilmente in molti anche dentro l’azienda immaginano che si tratti di una pura formalità, da regolare con il governo e le maggioranze politiche che saranno in carica nel momento opportuno. E invece quella fine di un’epoca è davvero un’occasione irripetibile per aprire il mercato radiotelevisivo (e non solo quello), liberalizzare il canone e staccare una volta per tutte quel cordone ombelicale che ha legato la tv di Stato alla partitocrazia italiana, senza che sia mai stato possibile reciderlo. E non c’è migliore condizione per preparare una vera rivoluzione in quel mercato di quella attuale, con in carica un governo tecnico e un premier come Mario Monti che non dipende direttamente dalle segreterie dei partiti.
Come si è visto nelle ultime ore tradendo la sua stessa vocazione non partitica, il governo stava cercando di mettere mano alla questione Rai né più né meno di quanto hanno fatto tutti gli esecutivi politici che lo hanno preceduto. Qualche idea sulla governance dell’azienda (e non è mai stato quello il problema: perfino la Rai dei professori si è inevitabilmente legata a doppio filo con la politica del tempo), l’intenzione di procedere alle solite nomine. Magari con la presunzione di mandarne là uno più bravo di quelli che ci sono, un professionista con i fiocchi. L’esperienza insegna che con qualunque curriculum si arrivi a guidare la tv di Stato, è l’azienda che guida il manager e non viceversa.
La concessione di servizio pubblico che scade è invece un’occasione per cambiare del tutto logica, per altro secondo il metodo che più sembra stare a cuore di Monti: più mercato e più concorrenza fra i soggetti. L’idea è semplice: mettere all’asta il canone di abbonamento alla radiotelevisione esattamente come si vuole fare con le frequenze. Con l’idea però di favorire una vera concorrenza e se possibile anche un pluralismo di soggetti. Come? Attraverso uno spezzatino dell’attuale canone che viene riscosso dallo Stato e che potrebbe essere messo in più tranche legato a singole missioni di servizio pubblico.
Oggi la Rai paga un canone di concessione allo Stato assai modesto (circa 28,9 milioni di euro) e riceve un canone di abbonamento di 1,7 miliardi di euro (che cumula con una raccolta pubblicitaria nel 2011 di poco inferiore al miliardo di euro). A fronte della tassa che lo Stato gira all’azienda, Rai deve assolvere una serie di obblighi e principi legati al servizio pubblico. La realizzazione di quei principi è spesso discutibile. Gli obblighi però sono un pochino più chiari. Ce ne sono di natura tecnologica (la diffusione di trasmissioni televisive e radiofoniche su tutto il territorio nazionale, lo sviluppo delle tecnologie etc…) e di pura programmazione. Il servizio pubblico deve garantire parità di accesso a tutti, ha obblighi di programmazione istituzionale (servizi parlamentari), di informazione regionale, di trasmissioni per gli italiani all’estero e per le minoranze in Italia (in lingua slovena, francese, ladina e tedesca), di trasmissioni dedicate ai bambini, di produzione di opere europee, di realizzazione di servizi interattivi digitali di pubblica utilità, di formazione ed educazione a distanza, di trasmissione di eventi sportivi di varia natura, con attenzione anche agli sport cosiddetti minori, di valorizzazione della musica classica e leggera italiana e così via.
Detti così sembrano obblighi di grande peso, che nessuno vorrebbe mai sopportare. Ma si possono tradurre in modo assai più leggero di quel che sembra. Per capirci sono pagate dal canone trasmissioni come Porta a Porta, Ballarò, Agorà, i Tg, il Festival di Sanremo, le partite di calcio, tutti i film e le fiction di produzione nazionale ed europea, l’automobilismo, Uno mattina, Superquark, Linea Verde, L’ultima parola, Che tempo che fa, Chi l’ha visto, Report, i cartoni animati e così via. Finché c’è stato perfino X Factor rientrava in quella categoria. Si tratta quindi in gran parte di programmi che qualsiasi televisione commerciale farebbe e fa spesandoseli con gli incassi pubblicitari.
Se si dividesse il canone a pacchetti, ognuno potrebbe essere messo all’asta per il migliore offerente, quello che presenta un’offerta di servizio pubblico più vasta e dettagliata con uno sconto rispetto al prezzo del pacchetto messo alla base (così ci guadagnano anche gli utenti che potrebbero pagare un canone più basso). Per i servizi tecnologici potrebbero concorrere sia altre emittenti che imprese di diversa natura. Per la programmazione parlamentare radio e tv anche associate su tutto il territorio nazionale (ormai con il mix digitale e satellite i concorrenti sono tanti). Per la produzione di cinema e fiction europei tutti i soggetti interessati. Lo stesso per il pacchetto Tv educational, Tv e radio di servizio, Tv e radio di informazione, Tv e radio per gli italiani all’estero. Probabilmente la Rai potrebbe conquistare ancora qualcuno di quei pacchetti, altri soggetti come Sky, Mediaset e La7 conquistarne altri.
Ma non è escluso che su multipiattaforme un’idea di questo tipo consenta la nascita o l’unione di altri protagonisti (l’esperienza di Michele Santoro di quest’anno insegna) che grazie a quella fettina di canone in palio potrebbero abbattere i costi per trasmissioni di altra natura, allargando un mercato che non sono solo le frequenze tradizionali ad imbalsamare.

Franco Bechis