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 2012  marzo 08 Giovedì calendario

QUANTE LINGUE ABBIAMO IN TESTA


Per scrivere Babel no more (Free Press), libro che racconta la sua ricerca dei poliglotti in giro per il mondo, Michael Erard, giornalista e blogger americano (collabora con il New York Times, Atlantic e New Scientist) “fluent” in spagnolo, italiano e cinese, oltre che nella sua lingua madre, ha fatto il giro del mondo. Cominciando da Bologna dove nel 1774 nacque il più straordinario poliglotta del quale si abbiano notizie certe. Si tratta del cardinale Giuseppe Mezzofanti, più noto all’estero che in Italia, scomparso a metà dell’Ottocento, che pare conoscesse 60 lingue. La questione centrale che Erard cerca di risolvere è quante lingue si possa arrivare a imparare ovvero se esiste (o no) un limite per il nostro cervello in questo campo. Qui si scontrano due scuole di pensiero: quella innatista, secondo la quale tutti noi veniamo al mondo con una grammatica universale primaria, di cui poi crescendo si cancellano molte caselle perché inutilizzate (possono, però, essere riattivate in qualsiasi momento), e quella emergentista, che ritiene il linguaggio frutto dell’apprendimento, con inevitabili limiti.

I CASI STRAORDINARI DEL PASSATO
Quali però esattamente non si sa: si arriva a imparare undici, forse venti lingue. Mezzofanti sembra contraddire questa storia del limite visto che in età giovanile imparò lo spagnolo, lo svedese, l’ebraico, il greco antico; poi a Roma dai missionari gesuiti le lingue sudamericane e orientali e altre ancora (romeno, basco, ungherese, copto). Sta di fatto che Lord Byron, dopo averlo incontrato a Bologna, scrisse che “avrebbe dovuto esistere al tempo della torre di Babele perché era un interprete universale”.
Quale era il suo segreto, si chiede Erard, un talento naturale o l’aver trovato una tecnica particolare di apprendimento? Dagli archivi che il giornalista ha potuto consultare a Bologna non è emerso niente di significativo. E, purtroppo, l’altro poliglotta di cui si hanno notizie certe, lo svedese Erik Gunnemark, capace di tradurre in 40 lingue (anche se per venti aveva bisogno del vocabolario), autore di The art and science of learning languages, è scomparso nel 2007. Nel 2003 è mancata anche l’ungherese Kató Lomb, che lavorò tutta la vita come interprete e a ottant’anni imparò la sua diciassettesima lingua, l’ebraico. Traballante, invece, la competenza linguistica del filologo Ziad Fazah, nato nel 1954 in Liberia, vissuto poi in Libano e a Rio de Janeiro: dopo essere stato inserito nel Guinness dei primati nel 1993 come uno dei maggiori poliglotti contemporanei, fece scena muta in un buon numero di lingue che affermava di conoscere bene alla trasmissione televisiva cilena Viva el lunes.
L’unico multilingue “vero” vivente che il giornalista è riuscito a incontrare è un personaggio singolare, che della materia si occupa in modo ossessivo, Alexander Arguelles, un americano che attualmente vive in California, ma ha trascorso lunghi periodi in Germania, a Singapore, in Corea, in Libano, inseguendo un percorso didattico e universitario legato all’apprendimento degli idiomi. Con ottimi risultati: figlio a sua volta di un multilingue, ne conosce una cinquantina, trenta con una discreta padronanza. Ma vi si è dedicato in modo maniacale tanto da farne tutta la sua vita, con una tabella di studio che prevede un carico di lavoro di otto ore al giorno (d’altro canto per lui chi non conosce almeno tre lingue è una sorta di minorato psichico).

DOVE SI NASCONDONO LE PAROLE
Ma vediamo che cosa ci dicono gli esperti in materia, i neurolinguisti che ora dispongono di strumenti di indagine del cervello inimmaginabili vent’anni fa, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) capace di evidenziare i neuroni coinvolti in un’attività cerebrale in un preciso momento grazie a variazioni di colore che esprimono il consumo di ossigeno di queste cellule. «Si tratta di un campo di ricerca interessante, ma bisogna fare piazza pulita di un miraggio», precisa, stemperando le nostre aspettative, Andrea Moro, professore di linguistica alla Scuola Superiore universitaria IUSS di Pavia e autore di I confini di Babele (Longanesi); «nessuno, a tutt’oggi, sa come si passi dalle regole che ci fanno comporre una frase ai neuroni o alle aree corticali che sottendono a questo compito». Come dire, ipotizziamo associazioni, ma non possiamo affermare che certe cellule cerebrali, proprio quelle, sono elettivamente implicate nella memorizzazione delle lingue.
Nella testa dei poliglotti qualcosa succede comunque, visto che tutte le lingue attivano le stesse aree cerebrali e quando si “pensa” in una lingua, le altre vengono momentaneamente scacciate dal cervello. Non a caso nei bambini adottati prima dei cinque anni, in età adulta non c’è più traccia della lingua nativa perché quella del Paese di adozione l’ha cancellata, come ha scoperto Christopher Pallier, dell’unità di neuroimaging dell’Inserm di Parigi. «Lo hanno poi dimostrato con uno studio sui quadrilingue i ricercatori del Brain Research Institute dell’università di Melbourne guidati da Regula S. Briellmann», spiega Jubin Abutalebi, professore di neuropsicologia all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, «il multilinguismo è solo un’estensione del bilinguismo: le aree cerebrali interessate sono le stesse. È, perciò, necessario un sistema di controllo in grado di inibire una lingua quando si usa l’altra. Sistema che è stato individuato nella corteccia cerebrale, per la precisione a livello del cingolo anteriore (lobo frontale), e sembra tanto più efficiente quanto più precoce è lo studio delle lingue. Lo ha dimostrato la mia équipe in collaborazione con le università di Londra, Barcellona e Hong Kong studiando due gruppi di altoatesini, uno bilingue, l’altro no».

IL COINVOLGIMENTO EMOTIVO
Cosa arcinota su base empirica che ci riporta al quesito iniziale: esiste un limite di età all’apprendimento delle lingue? «In via teorica nell’infanzia tutto è possibile: si è visto che i bambini imparano tutte le lingue alle quali si trovano esposti», risponde Moro, neuroscienziato oltre che linguista. «In età adulta le cose si complicano e stiamo scoprendo che nel percorso di apprendimento si attivano aree cerebrali diverse da quelle che utilizza il bambino, anche se è molto importante la spinta emotiva perché facilita enormemente». Ne è convinto Salvatore Maiorana, docente di lingua inglese all’università di Firenze, che se ne è occupato in Neuroscienze e didattica delle lingue (Edizioni Tracce). Che racconta: «Un banco di prova di questa ipotesi, miglior apprendimento se c’è coinvolgimento emozionale, lo abbiamo avuto con il progetto Bond (da Edward Bond, il drammaturgo inglese), realizzato per un biennio in 50 scuole superiori della Toscana, dove i ragazzi hanno imparato l’inglese, il francese e il tedesco lavorando su un testo teatrale in lingua originale, supportati da attori. I risultati? Straordinari, come si è visto nella rappresentazione finale al teatro Metastasio di Prato».
Ma diventare se non proprio poliglotti, almeno un po’ multilingue giova? Il cervello di chi conosce più di un idioma sarebbe, addirittura, protetto dal declino intellettuale della vecchiaia: lo suggerisce una ricerca condotta da Antonella Sorace, che insegna sviluppo del linguaggio all’università di Edimburgo. Allora ci dobbiamo dare da fare visto che il poliglotta è un miraggio, almeno per ora: negli Stati Uniti solo il 20 per cento della popolazione conosce un’altra lingua oltre l’inglese e nel mondo l’80 per cento della popolazione parla 1,69 lingue, in sostanza una sola lingua, quella nativa. Lo ha scoperto Mikael Parkvall, linguista dell’università di Stoccolma incrociando una gran mole di dati.

Franca Porciani