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 2012  marzo 09 Venerdì calendario

Per bloccare la mafia non facciamo più lavori pubblici – Bardo immortale, almeno secondo Repubblica e Che tempo fa, Roberto Saviano fornisce alle competenti autorità della repubblica un argomento decisivo per fermare la Tav prima che sia troppo tardi: infiltrazioni mafiose nell’assegnazione dei lavori

Per bloccare la mafia non facciamo più lavori pubblici – Bardo immortale, almeno secondo Repubblica e Che tempo fa, Roberto Saviano fornisce alle competenti autorità della repubblica un argomento decisivo per fermare la Tav prima che sia troppo tardi: infiltrazioni mafiose nell’assegnazione dei lavori. Come lo sa? Chi gliel’ha detto? Non gliel’ha detto nessuno. Saviano lo sa à la Pasolini, che come ricorderete aveva la «certezza intellettuale», dunque scientifica, che le Stragi erano di Stato; allo stesso modo, quella di Saviano, nato imparato com’è, è una «certezza storica e giudiziaria» a prescindere. Vale per la Tav, naturalmente, come per ogni altra opera pubblica, ciascuna delle quali è dunque da fermare per non ingrassare le cosche. D’accordo. Ma non sarebbe meglio combattere mafie, ’ndranghete, camorre, corone unite e (non dimentichiamoli) racket politici con indagini, processi e condanne piuttosto che fermando il mondo (e scrivendo articoli ampollosi?) * * * Tutti danno buca a tutti. Mentre la Buonanima sceglie Vladimir Vladimorovic invece di Bruno Vespa, volando al Cremlino anzichè farsi vedere a Porta a porta, Angelino Alfano annuncia che non incontrerà gli altri capi della maggioranza, anche a costo d’offendere il Caro Leader che doveva ospitare l’incontro, perché non ha tempo da perdere in chiacchiere. Nonno Mario, perciò, fa sapere agli altri leader che l’incontro è disdetto anche per loro, non importa se s’offendono. Si sono sentiti scricchiolare i denti di Pier Luigi Bersani fin da Mosca. * * * «Aveva capito che cos’era il capitale: e come bisognava in ogni modo adoperarsi, non soltanto a utilizzarlo e ad accrescerlo, e a difenderlo con tutti i mezzi avverso la sottile estorsione degli altruisti (che così appunto si chiamano perciocché intendono beneficare gli altri con le palanche degli altri) ma anche a tegumentarlo e a nasconderlo con ogni cura davanti alla concupiscenza irrequieta dei presumibili estorquenti privati o pubblici, tribuni della plebe o ministri delle finanze: difendendo, col fermo possesso del capitale, le ragioni stesse della vita» (Carlo Emilio Gadda, Accoppiamenti giudiziosi, in C.E. Gadda, Accoppiamenti giudiziosi, Adelphi 2011). * * * Come il Caro Leader prima di lui, anche il presidente della repubblica ha detto «No ai No Tav». Poveri! Come contadini cinesi, che viaggiavano tra mille pericoli verso la capitale per presentare una supplica all’imperatore, i No Tav volevano lasciare la Val di Susa per porgere una petizione all’inquilino del Quirinale, in visita a Torino. Ma il Grande timoniere, con quel suo elegantissimo Borsellino e con quel suo cappotto scuro da Vecchio Comintern, non ha voluto nemmeno incontrarli: l’alta velocità non è affar mio, ha detto; i No Tav ne parlino con chi di dovere, e in ogni modo s’astengano dalle violenze, che non se ne può più e qualcuno, ai piani alti della democrazia, potrebbe perdere la pazienza (come l’Armata rossa a Budapest, nell’epico 1956). * * * Sergio Marchionne lo nega, ma lo scoop di Repubblica, che gli contesta l’intenzione di voler chiudere gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco e (addirittura) di Mirafiori, nella capitale sabauda, ha una sua minacciosa credibilità. Come negli horror mistici, quando appaiono i cavalieri dell’apocalisse (a volte quattro, come da copione, a volte molti di più perché Hollywood è Hollywood) e per la creazione les jeux sont faits e rien ne va plus, la Fiat non fa più Lux. * * * Restando ai piedi del monte, nel paese dei gianduiotti, ecco un altro segno sicuro d’apocalisse imminente: Torino, che a Hermann Melville, nei suoi diari, era apparsa «più regolare di Filadelfia» con «case tutte d’un taglio, d’un colore, della stessa altezza», tanto che «la città sembra tutta costruita da un solo imprenditore e pagata da un solo capitalista», ha ormai cambiato natura. Persino le strade non sono più così regolari e l’altezza, il taglio, il colore delle case varia orribilmente. Sparito il solo capitalista, e svanita con lui l’unica impresa, la città che fece l’Italia, e che oggi per il futuro dell’Italia conta meno di Detroit, s’appresta a fare la fine di Gerico mentre Giosué Marchionne si porta la tromba del giudizio alla bocca e perepè perepè. * * * «Mia moglie racconta che al suo paese il presidente di un’associazione di lavoratori si chiamava Mao e che ovviamente rispondeva se la gente lo chiamava Presidente Mao. Con la Rivoluzione culturale, cadde in disgrazia. Il suo crimine era aver fatto comparire due Presidenti Mao sulla faccia della terra. Disperato, protestava con le lacrime agli occhi che gli altri lo chiamavano così, ma che lui non si sarebbe mai preso una libertà del genere. Le masse rivoluzionarie che lo avevano sottoposto a critica lo rimbeccavano: “Anche se erano gli altri a chiamare così, tu non dovevi rispondere. Poiché lo hai fatto, sei un controrivoluzionario”» (Yu Hua, La Cina in dieci parole, Feltrinelli 2012).