Maurizio Panarari, La Stampa 10/3/2012, 10 marzo 2012
Il «mistero di Maria» (De Filippi). Dopo l’atto inaugurale della ormai leggendaria Fenomenologia di Mike Bongiorno , vergata, nel 1961, da Umberto Eco, gli intellettuali si applicano intensamente (e senza più, immotivati, complessi) da decenni alla disamina della cultura e delle sottoculture pop prodotte dalla società dello spettacolo
Il «mistero di Maria» (De Filippi). Dopo l’atto inaugurale della ormai leggendaria Fenomenologia di Mike Bongiorno , vergata, nel 1961, da Umberto Eco, gli intellettuali si applicano intensamente (e senza più, immotivati, complessi) da decenni alla disamina della cultura e delle sottoculture pop prodotte dalla società dello spettacolo. Da qualche tempo, per di più, è arrivata pure la pop filosofia, cui fa ricorso il giornalista (con studi e libri filosofici alle spalle) Salvatore Patriarca per decodificare, giustappunto, Il mistero di Maria nell’ omonimo volume appena pubblicato da Mimesis (pp. 104, euro 12). La «domina» della tv commerciale italiana, campionessa di ascolti che ha appassionato ai suoi format generazioni di italiani, viene così dissezionata (in maniera, va detto, alquanto benevola, e perfino un po’ simpatetica) all’insegna di un filo rosso ininterrotto, quello della «formazione della personalità» dei suoi teleutenti più affezionati. Disegnando, in tal modo, un percorso narrativo e psicanalitico (e, verrebbe da aggiungere, pure iniziatico…) unitario, da cui emerge l’idealtipo antropologico di uno spettatore che si sente, spesso, come un vero e proprio coprotagonista delle vicende, in virtù del fenomeno, esemplarmente televisivo, della mimesis (l’imitazione). Addirittura, si potrebbe obiettare… E, invece, l’analisi di questo trattatello filosofico scorre, tra Husserl e Baudrillard, in modo serrato, dimostrando, se ve ne fosse ancora bisogno, quanto i fenomeni televisivi - soprattutto qui da noi vadano presi sul serio. Il processo di costruzione dell’identità dello spettatore delle trasmissioni di Maria De Filippi prende il via con il debutto di Amici (siamo nel 1992, su Canale 5): un autentico Bildungsroman che dà spazio al bisogno di raccontarsi dei ragazzi, offre il primo importante palcoscenico tv alla categoria degli insegnanti, e mette in scena il passaggio dall’età dell’adolescenza alla fase (complicata e difficile) dell’ingresso nel mondo delle responsabilità, regalando anche alla sua conduttrice ampia notorietà. Il principio della «formazione», per l’appunto, che rimarrà la stella polare del programma anche lungo le sue evoluzioni, fino a quella, più recente e benedetta dall’audience, di «scuola di talenti» per lo show business, con annesso pubblico televotante (e, dunque, non solo passivo, ma partecipe e dotato della facoltà di esprimere di un giudizio). Il secondo principio cardine, quello della «competizione», ispira invece Uomini e donne : dalla sostanziale armonia che vigeva in seno alla tribù degli «amici» fattasi comunità si passa alla rappresentazione dei conflitti che si sviluppano all’interno di uno scenario, anche linguisticamente e semioticamente, assimilabile a quello di una corte. Tutto ruota intorno al trono, sul quale sta comodamente assiso il (o la) tronista (inedita e inusitata categoria antropologica), affiancato dagli «opinionisti» (figure anfibie, a metà tra i ciambellani e i consiglieri dei competitor), cui spetta la regale prerogativa di dare il via agli scontri, senza esclusione di colpi, tra le corteggiatrici (o i corteggiatori) che se lo (la) contendono. Un’apparente condizione di pari opportunità, improntata, a dire il vero, a un paradigma che, dietro le fattezze postmoderne, lascia intravedere parecchio tradizionalismo nella concezione dei rapporti tra i generi. Infine, con C’è posta per te e le «buste» recapitate dai suoi emissari, fa capolino il terzo principio, quello della «riconciliazione». Secondo Patriarca qui non saremmo, come sostengono in parecchi, di fronte all’ennesima manifestazione di tv del dolore, ma al cospetto di «una sorta di religiosità laica e televisiva». Si potrebbe così dire che, sotto il segno dell’unica autorità fidelisticamente riconosciuta da tutti i partecipanti e comprimari, molto catodica e assai poco trascendente («non avrai altro format, all’infuori di me…»), si inscena una liturgia del perdono, con tanto di libero arbitrio riservato al destinatario della missiva, il quale può scegliere se premiare la contrizione del figliol prodigo rimettendone il peccato (o lo sgarbo), o meno. E qui ci spostiamo dal «lavoro sul campo etnologico» al vasto dominio della teologia. Insomma, il modo (assai vincente) di fare tv di De Filippi come una sorta di polizza assicurativa donata ai suoi telespettatori per tutelarsi dal disorientamento e dalla frammentazione dell’ età liquida. Ma anche, a nostro giudizio, l’invenzione della tradizione di un immaginario di strada (e di borgata), piuttosto sottoculturale, i cuiconnotati si sposavano perfettamente con la stagione politica vissuta dal nostro Paese fino a non molto tempo fa. E che stridono non poco, invece, con una certa aria, maggiormente sobria e meno esagitata, che, da qualche mese stiamo vivendo (con indubbio beneficio dello spread). Certo, nessuna illusione eccessiva al riguardo, ma, visto che l’abito fa il monaco (oppure il tronista), dal punto di vista dello stile, e non solo, un’alchimia sociale in grado di prevedere un po’ meno «Maria» e un po’ più Mario (Monti) darebbe agli italiani parecchio giovamento…