Antonella Rampino La Stampa 10/3/2012, 10 marzo 2012
Erano sue quelle ossa gettate in fondo a una foiba, mescolate allo scheletro del mulo che lo trasportò nell’ultimo viaggio, ai filamenti di cuoio delle redini, a una moneta da dieci lire coniata nel 1920, ai probabili resti di altri corpi sepolti nel ventre della montagna di Rocca Busambra che i vecchi del paese indicavano a sussurri e mezze parole come il cimitero della mafia
Erano sue quelle ossa gettate in fondo a una foiba, mescolate allo scheletro del mulo che lo trasportò nell’ultimo viaggio, ai filamenti di cuoio delle redini, a una moneta da dieci lire coniata nel 1920, ai probabili resti di altri corpi sepolti nel ventre della montagna di Rocca Busambra che i vecchi del paese indicavano a sussurri e mezze parole come il cimitero della mafia. Erano sue, di Placido Rizzotto, il segretario della Camera del Lavoro scomparso il 10 marzo del 1948, a 34 anni, mentre andava a una riunione con i compagni in quegli anni infuocati di speranze e di lotte. Sparito da allora, fatto fuori dai picciotti di Luciano Liggio agli ordini dei latifondisti minacciati dagli straccioni. Solo adesso la polizia scientifica di Palermo ha dato il suo nome a quei resti recuperati nel 2009 dai vigili del fuoco-speleologi che si sono calati in fondo al crepaccio profondo cinquanta metri. «Non lo troveranno mai», aveva detto Liggio. Dopo 64 anni è stato smentito. L’esito di un’indagine che sta a metà tra l’archeologia e l’avanguardia. Provette, vetrini, reagenti per isolare le sue ossa, estrarne il Dna e compararlo con quello dei resti del padre, esumati dalla tomba in cui era sepolto - una complicazione in più insieme con la seconda moglie. Adesso è arrivata la verità: i profili genetici sono compatibili al 76 per cento, la quasi assoluta certezza del rapporto di parentela. Un pezzo del mistero è svelato, ma molti altri ne restano aperti, in questa storia che sembra un romanzo. A partire dalla morte di Giuseppe Letizia, l’unico testimone, il pastorello di 12 anni che fece i nomi di Liggio e del suo amico Pasquale Criscione prima di essere ricoverato per lo choc e la paura, in preda a un delirio febbrile. Morì pochi giorni dopo per una tossicosi - così dissero i medici causata dall’iniezione che doveva servire a guarirlo. Il primo della serie di bambini fatti fuori senza battere ciglio, a smentire la leggenda aurea della mafia che risparmia picciriddi e donne. Già, perché il direttore dell’ospedale era Michele Navarra, il medicoboss, il capostipite dei Corleonesi che presto sarebbero usciti dalle campagne, avrebbero sconfitto i padrini di Palermo e inaugurato la stagione delle stragi. Quelle stragi che nel maggio del 1992, insieme con Giovanni Falcone, avrebbero ucciso la moglie Francesca Morvillo. Alfredo Morvillo, il procuratore di Termini Imerese che coordina questa indagine, è suo fratello. Ma la storia di Rizzotto incrocia anche il nome di Carlo Alberto Dalla Chiesa, allora giovane tenente dei carabinieri di Corleone, che nel 1949 arrestò Criscione e un suo gregario, Vincenzo Collura. I due confessarono, raccontarono di avere partecipato all’uccisione, accusarono Liggio di essere l’esecutore, raccontarono che il sindacalista era stato torturato, ucciso, squartato senza pietà e che il suo corpo era stato gettato nella foiba di Rocca Busambra. In fondo alla scarpata furono recuperati i resti di almeno tre persone. I familiari di Rizzotto riconobbero la calotta cranica con un ciuffo di capelli, gli scarponi, la cordicella per tenere su le calze. Ma tutto scomparve nei magazzini del tribunale. Intanto i due ritrattarono la confessione e furono assolti, insieme con Liggio, per insufficienza di prove. Sentenza confermata in appello e infine in Cassazione nel 1961. A tutt’oggi il delitto non ha colpevoli. E la Cgil ieri ha chiesto di riaprire le indagini. Come sono senza colpevoli gran parte degli altri trentacinque omicidi avvenuti in quegli anni in Sicilia, dal giugno del 1945 all’aprile 1948. Una stagione di terrorismo agrariomafioso che aveva come obiettivi i capi sindacali e politici del movimento contadino. Molti comunisti e socialisti, due democristiani. Da una parte scendevano in piazza le cooperative con migliaia di braccianti. Dall’altro diventava sempre più rigido l’ostruzionismo dei proprietari, pronti a cercare sponda nel braccio armato che da sempre da secoli tutelava l’ordine costituito. Oggi, nella Corleone che cerca di scrollarsi di dosso il suo pesantissimo nome, una grande manifestazione organizzata dalla Cgil. «Lo Stato ha risolto un mistero italiano», dice il sindaco Antonino Iannazzo, pronto a realizzare al cimitero una tomba per accogliere l’eroe ritrovato. Dei sei fratelli del sindacalista, solo una è viva: Giuseppina, 80 anni, felice come i ventidue nipoti. «Finalmente - dice Placido Rizzotto, omonimo della vittima - potremo portare un fiore sulla sua tomba».