Mario Pappagallo, Corriere della Sera 10/3/2012, 10 marzo 2012
«Non è concepibile che, a una certa ora, qualcuno inizi a guardare l’orologio perché deve scappare in una casa di cura privata
«Non è concepibile che, a una certa ora, qualcuno inizi a guardare l’orologio perché deve scappare in una casa di cura privata. In questo modo si creano inevitabilmente pazienti di serie A e di serie B, perché i casi più semplici (e, va detto, che riguardano le persone più abbienti) finiscono nelle strutture private, mentre quelli più problematici restano a carico della struttura pubblica. Inoltre non è più concepibile che un clinico non dedichi parte del suo tempo allo studio e alla ricerca scientifica». È uno dei temi cari ad Umberto Veronesi che già da ministro della Sanità aveva posto sul tappeto per rinnovare l’organizzazione sanitaria. L’oncologo milanese, fondatore dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo), non può quindi che apprezzare la linea sul tempo pieno ribadita dall’attuale ministro della Salute Renato Balduzzi. Perché ritiene il tempo pieno fondamentale per la sanità italiana? «A parte l’etica (non è corretto che il medico ospedaliero tratti in ospedale i pazienti più critici e in casa di cura i meno gravi) per altre tre ragioni: i medici devono dedicare tempo ai pazienti; organizzare il lavoro di tecnici e infermieri, addestrando le nuove leve; fare ricerca». Va bene, ma se gli ospedali non hanno gli spazi adeguati per l’attività privata all’interno della struttura? «Da quando ero ministro della Sanità, nel 2000, gli ospedali sono tenuti a organizzare un reparto dove si possa svolgere la professione privata. È giusto che il cittadino abbia la possibilità di scegliere il suo medico e farsi curare da lui, ma in questo agisce come privato. In molti casi questi reparti non sono stati realizzati e questa mancanza è diventata un alibi per continuare a portare i pazienti fuori dell’ospedale. Ma questa non è una soluzione. Non c’è alternativa all’intramoenia». Purtroppo buona parte degli ospedali non è facile da ritoccare. Molti sono obsoleti e andrebbero chiusi. «Per questo è urgente un piano di ristrutturazione nazionale del sistema ospedaliero. Lo dico da anni e da ministro, con Renzo Piano, ho messo a punto un progetto articolato che giace da più di 10 anni in un cassetto. La sanità di un Paese vale quanto valgono i suoi ospedali. E oggi circa 4 ospedali italiani su 10 andrebbero chiusi perché obsoleti, inefficienti e costosissimi. Poi si potrebbe ripartire con un progetto di costruzione: strutture di nuova concezione, adeguate alla nuova filosofia della medicina. Ciò permetterebbe anche un rilancio delle opere pubbliche e senza dover sempre ricorrere allo Stato. Esistono modi di far partecipare anche i privati. Non è giusto che la nostra sanità abbia ancora ospedali in decadenza che la fanno apparire una malasanità». Una nuova sanità ha bisogno da subito di nuovi medici. «Il medico di oggi non può più limitarsi ad applicare protocolli e linee guida, ma deve interrogarsi incessantemente, dubitare di ogni certezza per cercare la migliore cura possibile per il suo paziente. E il collegamento con il mondo della ricerca internazionale diventa un fattore fondamentale della professionalità medica. Così come l’aggiornamento continuo: in 7-10 anni diventa obsoleta oltre metà delle conoscenze scientifiche acquisite con la laurea». Quindi, un medico clinico e ricercatore a tempo pieno? «È indispensabile. Occorre formare in modo nuovo. Con il Young Investigator Program (che eroga borse di studio a giovani tramite bandi pubblici) la mia Fondazione ha scelto di creare una compagine di giovani medici e ricercatori capaci di inserirsi nei centri più avanzati e di muoversi nel nuovo mondo internazionale della ricerca, che oggi cambia molto più rapidamente dei sistemi educativi. La scienza, spinta dalla tecnologia, ha il passo veloce, e per seguirla, non basta accumulare nozioni, ma bisogna possedere un abito mentale. Il compito che ci siamo posti in Fondazione è di instillare nei giovani la mentalità scientifica». Come intendete farlo? «Fra pochi giorni a Roma, il 28 marzo, nel corso di una cerimonia in Campidoglio, assegneremo 95 borse di ricerca a ragazzi principalmente italiani, ma con una frazione di stranieri, in onore all’universalismo della scienza. E attenzione: abbiamo scelto la prevenzione come tema di ricerca. Creare la cultura della prevenzione nei giovani è un altro cardine della sanità futura». Nuovi ospedali e nuovi medici a tempo pieno. E che altro? «Bisogna ragionare alla luce dei tempi di crisi economica». Già, la crisi economica. Se non si interviene si rischia di tornare ad una sanità moderna solo per ricchi. «Io penso che dovremmo andare nella direzione opposta: chi supera una certa soglia di reddito dovrebbe uscire dalla copertura del servizio sanitario nazionale e rivolgersi alle assicurazioni private. Si formerebbe una categoria a parte, che stimolerebbe il mercato delle assicurazioni. Bisogna dedicare le limitate risorse pubbliche per chi ha meno possibilità economiche e non il contrario». Ma non è sufficiente collegare l’entità dei ticket ai diversi redditi? «Credo che nel futuro i ticket vadano progressivamente eliminati perché sono una tassa sulla malattia. Chi più è malato, più paga: è un indebolimento dei più deboli. Credo sia più equa una sanità completamente gratuita per chi ha i redditi inferiori, essendo tramontato il sogno di cure gratuite per tutti». Non c’è il rischio che la fascia di gratuità nel tempo si assottigli sempre più? «La soluzione è in un ripensamento profondo. I costi della sanità vanno riesaminati alla luce delle innovazioni tecnologiche. Potrebbe così nascere una sorta di sanità low cost sul modello dei voli aerei. Nessuno, pochi anni fa, avrebbe immaginato una riduzione così drastica del prezzo dei voli, mantenendo più o meno la stessa efficienza. È stato ridotto il personale, aumentandone la produttività grazie alle tecnologie e alla maggiore responsabilizzazione dei passeggeri. Un processo analogo si può applicare alla sanità. Per esempio nella diagnostica, medici e tecnici possono raddoppiare la produttività nei referti grazie ai sistemi di registrazione automatica della voce. Ci vuole un investimento iniziale, ma minimo rispetto ai risparmi che ne deriverebbero». Che cosa pensa di una sanità a «chilometro zero»? «La diagnostica deve essere a "chilometro zero", così come la gestione dei rapporti con i centri specializzati. Nel territorio occorre creare i presupposti per la prevenzione e la gestione dei malati, e dei non malati, senza bisogno di perdere tempo e denaro nelle strutture ospedaliere dove le degenze dovrebbero essere ridotte al minimo. Detto questo, la nostra è fra le migliori sanità del mondo». Mario Pappagallo