Vari, 10/3/2012, 10 marzo 2012
LA REPUBBLICA
FRANCESCO VIVIANO
ALESSANDRA ZINITI
ROMA - Alle otto della sera la Corte di Cassazione mette una pietra tombale sul processo per mafia a Marcello Dell´Utri, inesorabilmente destinato alla prescrizione, ma soprattutto sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa, un reato «al quale ormai non crede più nessuno», come dice il procuratore generale Francesco Mauro Iacoviello, uno dei più apprezzati giuristi della Suprema Corte. È lui a sollecitare ai giudici della quinta sezione presieduta da Aldo Grassi l´annullamento della sentenza con la quale, nel giugno del 2010, i giudici della Corte d´appello di Palermo avevano condannato a sette anni il senatore del Pdl, condanna che - se confermata - avrebbe portato Dell´Utri dritto in carcere. Ma il processo è da rifare: annullamento con rinvio ad un´altra sezione della corte d´appello, decreta la Cassazione che giudica inammissibile il ricorso della procura di Palermo che aveva sollecitato un inasprimento della pena e il riconoscimento del reato di concorso esterno anche per i fatti successivi al 1992, lo spartiacque individuato dai giudici che avevano condannato Dell´Utri per i suoi rapporti con i boss di Cosa nostra riferiti però solo al periodo precedente la discesa in campo di Berlusconi con Forza Italia.
I rapporti e le frequentazioni con esponenti di Cosa nostra non bastano, come ha stabilito la sentenza della Suprema Corte nel processo a Calogero Mannino diventata ormai una colonna del diritto in tema di mafia, e - per i giudici della Cassazione - la prova di quanto Marcello Dell´Utri avrebbe concretamente fatto per aiutare l´organizzazione mafiosa non c´è. Il senatore tira un respiro di sollievo e ai suoi legali dice: «Non cercherò la prescrizione. Affronterò il nuovo processo ancor più convinto della mia innocenza che ho testimoniato in tutti questi anni fiducioso nella giustizia».
La prescrizione però sembra inevitabile. I termini di questo processo infinito, cominciato nel 1994 con l´emissione dell´avviso di garanzia, approdato in tribunale nel 1997 e in Cassazione solo ora, scadranno infatti il 30 giugno del 2014. Appare dunque impossibile che, a fronte dei 15 anni trascorsi per approdare alla sentenza definitiva, ne bastino due per rifare un nuovo processo in appello e passare ad un altro vaglio della Suprema Corte.
C´era aria molto tesa ieri mattina in piazza Cavour per le polemiche che avevano preceduto l´udienza dopo l´assegnazione del processo ad Aldo Grassi, noto alle cronache per il suo strettissimo rapporto con Corrado Carnevale, il giudice "ammazzasentenze", del quale condivideva idee ed impostazione giuridica. Era lui, silente, al telefono quando Corrado Carnevale inveiva contro Giovanni Falcone e fu lui ad essere proposto per il trasferimento d´ufficio, poi negato dal Csm, per la sua tiepidezza nei confronti dei cavalieri del lavoro di Catania, indagati per mafia, quando Grassi lavorava in quella Procura. Ma ieri mattina a demolire la sentenza dei giudici di Palermo è stato il procuratore generale Iacoviello: «Nel caso di Dell´Utri non è stato rispettato neanche il principio del ragionevole dubbio. Non ci sono fatti, le dichiarazioni dei pentiti sono senza riscontri, l´accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza Mannino che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere. Non possiamo agganciare condanne alle parole».
Dopo tre ore di camera di consiglio, i giudici gli danno ragione. Esulta l´avvocato Massimo Krogh: «È la presa d´atto che la condanna era sbagliata». Aggiunge l´avvocato Giuseppe Di Peri: «Cercare la prescrizione non è il nostro obiettivo, vogliamo che sia riconosciuta l´estraneità del senatore». Una pioggia di congratulazioni investe Dell´Utri. Il segretario del Pdl Alfano gli dice: «Tieni duro e continua a difenderti con grande orgoglio e straordinaria dignità come hai fatto in questi anni».
REPUBBLICA
SALVO PALAZZOLO
PALERMO - «Ragionevoli dubbi su Dell´Utri? Il pubblico ministero deve averli sempre i dubbi. Così ci siamo posti tutte le possibili alternative, guai se non fosse stato così. Dell´Utri, vittima della mafia, o co-carnefice che ha fatto da tramite fra Cosa nostra e il gruppo Berlusconi? Le indagini e due processi hanno fugato ogni dubbio». Domenico Gozzo è stato con Antonio Ingroia il pm che ha sostenuto l´accusa contro Dell´Utri, oggi è procuratore aggiunto a Caltanissetta.
Di ragionevoli dubbi su Dell´Utri ha parlato il procuratore generale, secondo cui l´imputato eccellente avrebbe avuto addirittura meno diritti rispetto agli altri imputati.
«Penso si riferisse alla motivazione della sentenza di appello, non certo ai processi celebrati, che hanno dato ampio spazio al diritto di difesa».
Cosa vuol dire l´accoglimento del ricorso di Dell´Utri da parte della Cassazione?
«La Cassazione è giudice di legittimità, si occupa solo di questioni di diritto. Sul merito, si sono già pronunciati i giudici di tribunale e appello, confermando sostanzialmente la ricostruzione della Procura, che ha sostenuto le cointeressenze fra Dell´Utri e ambienti mafiosi. Ora, la Cassazione avrà fissato un nuovo principio che rilegge certi comportamenti. Oppure, ha ritenuto che altri principi di valutazione andavano adottati. Bisognerà attendere le motivazioni, intanto massimo rispetto per la decisione della Cassazione».
Quali elementi avevano fatto superare i ragionevoli dubbi dei pm?
«Sono nelle sentenze, che hanno concluso per la condanna dell´imputato. I dubbi sono stati fugati da numerosi collaboratori di giustizia e da tanti riscontri, su cui c´è stato un confronto serrato fra accusa e difesa. Questo è stato un processo equo».
REPUBBLICA
ATTILIO BOLZONI
ROMA - Il processo a Marcello Dell´Utri è da rifare. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell´ex numero uno di Publitalia disponendo un nuovo dibattimento davanti alla Corte d´Appello di Palermo. I giudici hanno annullato con rinvio la sentenza di secondo grado con la quale il senatore Pdl era stato condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Il pg della Cassazione, prima della sentenza, aveva parlato di «diritti violati» dell´imputato. Dell´Utri si è detto «molto soddisfatto» e fiducioso nel nuovo processo.
Significa che di riffa o di raffa, lui si salverà per prescrizione. Finisce così una delle più incredibili vicende del nostro Paese - giudiziarie ma non solo giudiziarie - dell´ultimo quarto di secolo, la storia di un siciliano doc che si è trascinato le sue conoscenze palermitane nella Milano dove cominciava la grande scalata al potere un signore di nome Silvio Berlusconi. Finisce come era cominciata tanto tempo fa: nella normalità italiana.
L´imputato non doveva mai diventare un imputato.
Cosa ha fatto di così grave per scivolare negli ingranaggi delle investigazioni antimafia? Aveva relazioni con uomini vicini alla Cupola ma che importa, mica c´è la prova di un suo «contributo» all´associazione criminale denominata Cosa Nostra? Stare una vita al fianco di Vittorio Mangano, lo «stalliere» di Arcore, trafficante di stupefacenti, uomo d´onore della famiglia di Porta Nuova, non è illecito. Invitare il sicario Gaetano Grado o il capo della decina di Santa Maria del Gesù Mimmo Teresi su in Lombardia, non è un delitto.
Vincoli innocenti. Mangiate. Bevute. Flirt.
È per questo che devono iniziare un´altra volta il processo al senatore, che in una vita ha navigato nel brodo bollente siciliano e che nell´altra vita ha trasferito il suo «patrimonio» di rapporti e di amicizie lassù, quando era al servizio di re Silvio.
Concorso esterno. Non c´è. «Non ci crede più nessuno, spetta a voi il compito di smentirmi», incalza il procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello in una requisitoria che a qualcuno è sembrata un´arringa difensiva. Perché «non si fanno così i processi», ha aggiunto il pg.
Allora diciamo che bisogna ricominciare tutto daccapo. Anche per ricostruire la vita e le gesta di Marcello Dell´Utri, ex anonimo impiegato di una cassa rurale di Belmonte Mezzagno nato nel 1941 e poi trasformatosi nel più misterioso personaggio di collegamento fra la Sicilia e la Milano degli affari, costruzioni e politica, soldi e laboratorio ideologico, voti e intrighi.
E «tradizione». Quella c´è tutta nella biografia di Marcello. Complicità non occasionali ma lunghe venticinque anni. Da Antonio Virgilio e Salvatore Enea detto «Robertino» a Jimmy Fauci e Francesco Paolo Alamia. Da una generazione all´altra di mafia, dall´aristocrazia dei boss di Palermo alla follia di Totò Riina e dei suoi Corleonesi terroristi. È rimasto sempre incollato a loro, Marcello Dell´Utri. Non è reato. Però è andata così.
Anche se non conta più niente per gli eccellentissimi giudici della Suprema Corte della Cassazione.
È tutto annacquato ormai. Un esempio: un´agenzia di ieri sera, ore 19.54. Testuale: «Vittorio Mangano considerato vicino alla mafia...». Non si sa più quello che si dice e quello che si scrive anche sulle più autorevoli agenzie di stampa. Vittorio Mangano non era uno «considerato vicino alla mafia»: era un mafioso. Se partiamo da questa - come dire, piccola imprecisione - possiamo scrivere un´altra storia di Marcello Dell´Utri. Ma a noi piace raccontare quella vera.
Quella della Palermo mafiosa dove Marcello Dell´Utri era infilato, magari non protagonista ma sicuramente consapevole, sempre in contatto con gli amici degli amici dei Bontate, dei Calderone, dei Cancemi, dei Cinà. Non abbiamo mai avuto prove delle rivelazioni bislacche, sospette e a puntate di Massimo Ciancimino sul ruolo di Dell´Utri e della sua trattativa fra Stato e mafia, ma nessuno ha mai avuto dubbi - nemmeno il procuratore generale della Cassazione - sulla vicinanza fra il senatore e quella gente là.
Un concorso esterno che non esiste più e un processo lungo 11 anni hanno fatto il resto.
Il passato di contiguità mafiosa di Marcello Dell´Utri (che nessun giudice e nessuna Corte potrà mai cancellare con una sentenza di rinvio o con sofisticate acrobazie giuridiche) è lì e lì resterà per sempre. Che poi non ci sarà condanna, è altro discorso.
Anche se non valgono niente le dichiarazioni di una ventina di pentiti di Cosa Nostra. Anche se è ormai carta straccia quello che ha dichiarato nemmeno tre anni fa il killer Gaspare Spatuzza sul «paesano» Dell´Utri e il suo amico Berlusconi sulle stragi in Continente organizzate dai Graviano di Brancaccio.
Tutto destinato all´archivio. Tutto inghiottito dalla scienza del diritto. Per i potenti, in Italia, funziona sempre così. Per tutti gli altri no.
CORRIERE DELLA SERA
VIRGINIA PICCOLILLO
ROMA — Condanna annullata con rinvio. Marcello Dell’Utri, il «miglior amico di Silvio Berlusconi», come lo ha definito ieri il suo difensore Massimo Krogh, l’inventore di Forza Italia e Publitalia, ora senatore pdl, non dovrà trascorrere i prossimi sette anni in cella. La Corte di cassazione ha stracciato la sentenza della Corte d’appello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Accogliendo il ricorso della difesa e la richiesta del pg di Cassazione, Francesco Iacoviello, che aveva tuonato contro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa: «ormai diventato un reato autonomo, un reato indefinito al quale non crede più nessuno!».
Processo da rifare, con grande soddisfazione, riferiscono dalla Russia, di Berlusconi da sempre convinto dell’innocenza dell’amico. Non è un’assoluzione, ma si riparte dalla prima condanna a nove anni, e da un nuovo processo d’appello a Palermo con un collegio diverso. Con la ragionevole sensazione dell’avvocato Krogh, che si concluderà prima del verdetto per l’arrivo della prescrizione, attesa a giugno 2014 e «non si giungerà mai alla verità, che noi invece vogliamo». Ovvero a capire se Dell’Utri tra gli anni 70 e il ’92 abbia fatto o no da interfaccia tra Cosa Nostra e Berlusconi. Intrattenendo rapporti con i mafiosi Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Vittorio Mangano, poi «stalliere» ad Arcore, che gli valsero la «protezione» finanziaria e personale per sé e per il Cavaliere, secondo quanto sostenuto da molti pentiti a partire dal 1994.
«Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio», aveva sostenuto ieri il pg Iacoviello. «Se alla sentenza togliamo tutte le frequentazioni e le conoscenze, non rimane niente, e la Cassazione, con la sentenza Mannino, ha detto che queste cose sono irrilevanti», aveva fatto notare. «Descrivere l’imputato come "referente o terminale politico della mafia," non significa nulla: non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto», aveva aggiunto. E censurando le «gravi lacune» della sentenza, aveva avvertito la Corte: «La sentenza sostiene l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione semplice fino al 1982, poi parla di concorso esterno in associazione mafiosa fino al 1992. Nessuno ha mai sostenuto una tesi del genere». Da lì la richiesta di rigettare il ricorso del pg di Palermo Antonino Gatto, favorevole a una condanna più dura e al riconoscimento delle accuse anche per il periodo successivo al 1992, e di annullare la sentenza, o affidarla alle Sezioni Unite.
Gli ha dato ragione la quinta sezione, presieduta da Aldo Grassi. «Molto soddisfatto» per la sentenza l’avvocato Krogh: «Il ricorso si è dibattuto in un clima di grande serenità che ha consentito il chiarimento dei fatti». «I giudici di Palermo sono stati assediati da una Procura che, ad ogni costo, voleva provare quello che non si poteva e hanno finito con lo scrivere una sentenza che contiene solo acrobazie», aveva argomentato nell’arringa. E aveva aggiunto: «Non c’è mai stato alcun incontro tra Berlusconi e i boss Di Carlo, Teresi e Bontade e la Procura si è ostinata a credere a una bugia smentita da tutti gli accertamenti».
«Nessuno osi più dire che la giustizia italiana non è garantista», commenta la pd Garavini. Ma il Pdl attacca come se Dell’Utri fosse stato già assolto. Per Bondi: «Nessuno potrà mai sanare le sofferenze patite ingiustamente». E mentre il segretario Alfano esorta Dell’Utri: «Tieni duro», Maurizio Gasparri chiede: «Chi paga i danni a lui e alla nostra parte? Dobbiamo valutare la possibilità di far condannare chi nella magistratura ha sostenuto accuse prive di fondamento. Approviamo la norma sulla responsabilità civile dei giudici senza cambiare una virgola».
CORRIERE DELLA SERA
FELICE CAVALLARO
PALERMO — La moglie a Milano assicurava che non era in casa e al cellulare di Marcello Dell’Utri rispondeva fino a ieri sera una segreteria telefonica in lingua spagnola. Quanto bastava per alimentare illazioni su un viaggio oltrefrontiera a sentenza non emessa. Cosa che non risultava ai suoi avvocati, mentre misuravano a grandi passi i freddi corridoi della Cassazione sperando nell’annullamento poi emesso.
Riavvolgiamo allora il nastro e scrutiamo il film dell’attesa vissuta da un Dell’Utri fatalista, ufficialmente deciso a non correre né a Madrid né ai Caraibi, apparentemente sereno, anche pronto a varcare la soglia del carcere. Come non accadrà, visto che i giudici impongono un nuovo processo. Ma alla vigilia il più eccellente degli imputati non escludeva proprio nulla: «Mi dicono gli avvocati che ci sono almeno venti motivi di nullità nei processi fatti a Palermo. Eppure, in caso di conferma scatterebbero i 7 anni di carcere. E se dovesse accadere, meglio andare subito da soli, prima di ogni procedura. Aspettando, arriverebbe qualcuno che potrebbe portarmi dove vuole. Andando spontaneamente, potrei almeno scegliere il luogo in cui scontare la pena».
Ovvio pensare a quanto fece Totò Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia. «Già, lui è andato a Rebibbia. Sì, forse quella di Roma è meglio di altre strutture. Sorridiamoci su. Diciamo che passo la vigilia a esaminare la guida Michelin dei penitenziari. Controllo e mi informo sui confort: doccia, lavandino, branda... Ma poi mi dico che ci si adatta. L’uomo si adatta a tutto. In ogni caso ci sarebbero i libri a tenermi compagnia...».
Ipotesi tratteggiata facendo gli scongiuri, pensando a quei venti motivi di nullità esposti dai suoi legali, ma con una punta di distacco: «Gli avvocati sono sempre fiduciosi. Dicono sempre così. Tanto cosa costa essere fiduciosi? Ma ogni tanto penso che potrebbero avere ragione. Mi sono immaginato la sentenza. Una assoluzione? Chissà. Sarebbe cosa giusta. Con quei motivi di nullità mi pare di avere diritto di sperare almeno in una "cassata con rinvio". Beh, sì, una sentenza di Cassazione con rinvio ad altra corte di appello per rifare il processo sulle prove concrete, non sui teoremi o sulle parole di qualche, diciamo così, "pentito"».
Una previsione azzeccata come ha capito ieri quando poco dopo le 8 di sera l’hanno informato, certo di un dato che ripete con forza: «Poteva succedere di tutto perché il mio è nato ed è stato gonfiato, fuori da ogni regola di diritto, come un processo politico. Forse lo capiscono finalmente i giudici di Cassazione davanti a un reato che c’è e non c’è, davanti a insinuazioni senza una prova concreta». Gli avvocati riferiscono comunque del sollievo del loro assistito.
Scaramantico, invece, lui alla vigilia punzecchiava se stesso sull’ipotesi Rebibbia: «Chissà, forse incontrerei Cuffaro che legge, scrive, studia... Già lui si vuole laureare in Giurisprudenza. Leggo che dà esami, che prende 30 e lode. Io la laurea in legge ce l’ho già. Potrei studiare per prendere l’abilitazione e diventare avvocato. Mi potrei studiare da capo il mio processo e diventare un giorno l’avvocato di me stesso. Una boutade, ovviamente...».
E il Cavaliere? Che dice? «Con Berlusconi ci sentiamo sempre. Non siamo mai stati preoccupati. Non lo è lui. E io dormo sonni tranquilli. Anche perché la regola resta una: "primum vivere, deinde philosophari", prima vivere, poi filosofare. Importante resta conservare la salute...». Battuta aggrappata a una sorta di training autogeno targato Aristotele.
CORRIERE DELLA SERA
DINO MARTIRANO
ROMA — «L’unico politico di rango che di recente è stato condannato per aver aiutato la mafia è l’ex governatore Salvatore Cuffaro dopo che noi, a Palermo, chiedemmo il giudizio per favoreggiamento con l’aggravante mafiosa mentre qualcun altro avrebbe preferito il concorso esterno. E, dunque, alla fine si è dimostrato che per combattere la cosiddetta "zona grigia" che ruota intorno a Cosa Nostra è preferibile la strada della contestazione di una fattispecie concreta di reato. D’altronde bastava leggersi la sentenza Mannino per rendersene conto...».
Piero Grasso, oggi procuratore nazionale antimafia, non intende entrare nel merito della sentenza della Cassazione sul processo Dell’Utri ma se gli si parla del «non reato» di concorso esterno in associazione mafiosa non può non pensare ad anni lontani, ma anche vicini, passati in prima linea a Palermo. I ricordi del procuratore vanno al 1987 — quando al maxi processo contro Cosa Nostra fu inaugurata e gestita con successo da Giovanni Falcone la svolta del concorso esterno per colpire la zona di collusione con la mafia — ma non può essere dimenticata anche la battaglia interna alla Procura di Palermo che di recente si spaccò proprio sul titolo di reato da contestare a Cuffaro rimasto impigliato nell’inchiesta sulle talpe alla Dda.
A condurre quella battaglia c’era anche Giuseppe Pignatone che in quegli anni, prima di rinchiudersi nella trincea di Reggio Calabria, era procuratore aggiunto a Palermo insieme a Grasso: «In questo momento preferisco non parlare di una problematica così delicata come quella del concorso esterno», dice Pignatone, neo procuratore di Roma. Che però ricorda un monitoraggio della Procura nazionale antimafia in cui i numeri descrivono i processi per concorso esterno come una eterna corsa ad ostacoli.
Eppure, prima la sentenza Mannino — l’ex ministro dc è stato assolto a maggio del 2011 — e ora l’annullamento e il rinvio della sentenza Dell’Utri sembrano aver chiuso un’epoca, a Palermo. Domenico Gozzo, il pm che ha condotto 2 anni di indagini e 7 anni di processo di primo grado contro Marcello Dell’Utri, dice di rispettare l’opinione del sostituto procuratore generale Iacoviello — «quando afferma che il concorso esterno è ormai un reato indefinito cui non crede più nessuno» — ma poi aggiunge che «da Falcone in poi il concorso è una realtà del nostro ordinamento». Con Gozzo, che oggi è titolare a Caltanissetta della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio, si schiera il procuratore generale di Palermo, Nino Gatto: «Quello che dice il pg della Cassazione lo rispetto ma io ho un’altra opinione. Del resto, ogni testa è tribunale».
Anche Sebastiano Ardita, ora procuratore aggiunto a Messina con Guido Lo Forte, dopo la lunga parentesi all’ufficio detenuti del Dap, ritiene che il combinato disposto dell’articolo 110 (concorso) e del 416 bis (associazione di stampo mafioso) sia sufficiente per dimostrare che «il reato di concorso esterno esiste». La realtà, però, è come sempre più complessa. E questa complessità la sottolinea il giudice Gioacchino Natoli — già pm del processo Andreotti, oggi presidente del tribunale di Marsala — ricordando che in Cassazione lavorano ottimi colleghi: «Mi chiedo però quale sarebbe stato il loro giudizio se avessero avuto alle spalle 10 anni di impegno in prima linea contro la mafia».
LA STAMPA
RICCARDO ARENA
Sedici anni dopo il primo avviso di garanzia, datato giugno 1996, non è ancora finita: Marcello Dell’Utri dovrà andare ai tempi supplementari della giustizia, affrontare il quarto processo e attendere ancora una decisione definitiva sul suo status di imputato di professione, autodefinizione che lui ama dare di sé con i cronisti. Ieri sera, dopo tre ore di camera di consiglio, la quinta sezione della Cassazione, presieduta da Aldo Grassi, ha annullato con rinvio la sentenza che aveva riconosciuto la colpevolezza del senatore del Pdl, condannato per concorso in associazione mafiosa, il 29 giugno 2010, dalla Corte d’appello di Palermo. Inammissibile, secondo il Supremo collegio, il ricorso presentato dal pg di Palermo Nino Gatto, che aveva chiesto l’annullamento dell’assoluzione parziale di Dell’Utri decretata dai giudici siciliani per i fatti successivi al 1992.
Processo da rifare, dunque. Le tesi degli avvocati Massimo Krogh, Giuseppe Di Peri e Pietro Federico sono state condivise, a sorpresa, anche dal procuratore generale della Cassazione, Francesco Mauro Iacoviello: era stato anche lui, soprattutto lui, a chiedere l’annullamento della decisione dei giudici siciliani, che pure, rispetto al primo grado, avevano ridotto la pena inflitta a Dell’Utri, da nove a sette anni. Iacoviello aveva detto chiaro e tondo che «al concorso esterno in associazione mafiosa non crede più nessuno, è un reato indefinito… Se alla sentenza Dell’Utri togliamo tutte le frequentazioni e le conoscenze, non rimane niente».
Dell’Utri non era finito sotto processo in quanto politico: fu eletto infatti per la prima volta alla Camera nel 1996, nelle file di Forza Italia, partito che aveva fondato assieme al suo amico di sempre, Silvio Berlusconi. E in quel momento era già sotto indagine da tempo: il processo aveva avuto le sue premesse negli anni ‘70 e ‘80, con la presenza nella villa di Arcore di Berlusconi di personaggi inquietanti come lo stalliere Vittorio Mangano, portato a Milano proprio da Dell’Utri. E sulle «protezioni» che il boss di Porta Nuova avrebbe garantito al Cavaliere, ma anche sui contatti fra Mangano e Dell’Utri, aveva indagato anche Paolo Borsellino.
Non solo Mangano. Il manager di Publitalia sarebbe stato legato a Stefano Bontate e Mimmo Teresi, secondo il pool della Procura di Palermo, coordinato da Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, e avrebbe messo questi rapporti al servizio di Berlusconi, negli anni ‘60 costruttore emergente e che solo nel decennio successivo si sarebbe lanciato nell’avventura televisiva. Dell’Utri sarebbe diventato un trait d’union e oltre a Mangano avrebbe trattato anche con Gaetano Cinà, processato con Dell’Utri e morto dopo la sentenza di primo grado risalente all’11 dicembre 2004.
Quando i corleonesi soppiantarono la vecchia mafia dei Bontate e dei Teresi, che avrebbero pensato più agli investimenti e agli affari, Totò Riina, rozzo com’era, aveva chiesto soldi, «pizzo» per le tv che Berlusconi aveva avviato anche in Sicilia. Attorno agli interessi nelle attività della Fininvest era stata costruita un’ipotesi di concorso esterno anche per l’ex premier, ma l’accusa era stata poi archiviata ed erano cadute pure le ipotesi di riciclaggio.
Il sospetto secondo cui i rapporti sarebbero andati avanti fino agli anni ‘90, con le stragi e la nascita di Forza Italia, aveva caratterizzato fino all’ultimo le ricostruzioni della Procura di Palermo, confermate dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sui mandanti esterni delle stragi del ‘93. Questa parte delle accuse era però caduta con il processo di appello: la ricostruzione della Procura e della Procura generale era stata ritenuta infondata, l’imputato era stato in parte assolto, per i fatti successivi alla primavera del 1992, e la pena era stata ridotta. Ora invece è tutto da rifare: non vale, secondo la Cassazione, nemmeno la presunta contiguità di Dell’Utri nel periodo compreso tra il 1975 e il 1992. E a conti fatti si avvicina persino la mannaia della prescrizione, perché il concorso esterno cade per effetto del tempo dopo ventidue anni e mezzo, dunque nella seconda metà del 2014 la questione potrebbe chiudersi comunque. Anche se la difesa, entusiasta per il successo di ieri sera, è pronta a dire che rinuncerà alla prescrizione, per avere un’assoluzione piena.
FRANCESCO LA LICATA
Eadesso ci sarà chi griderà alla vittoria sui «pubblici ministeri che pretendono di scrivere la storia» e chi si aggrapperà ancora all’eventualità che un nuovo processo, già ordinato dalla Cassazione in un collegio diverso da quello appena sconfitto, possa dimostrare la fondatezza della tesi accusatoria della Procura di Palermo. Questo è il quadro che puntualmente ci viene consegnato, ogni volta che una sentenza definitiva accontenta o scontenta i contrapposti gruppi politici l’un contro gli altri armati.
Così è avvenuto con l’«assoluzione parziale» di Giulio Andreotti, «macchiata» dalla millimetrica prescrizione per alcune delle accuse, così durante gli altalenanti risultati dei diversi gradi di giudizio del processo all’ex ministro Calogero Mannino, alla fine assolto - anche lui - per la difficoltà di tenere il punto in Cassazione sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Ma forse bisognerebbe concludere che così avviene quando la posta in palio riguarda i volti delle istituzioni e, per automatismo, i giudici vanno alla ricerca di accertamenti più profondi risolvibili con salomoniche mediazioni. Nel caso del processo Dell’Utri - a giudicare dalle parole del procuratore generale e della relatrice - ci sarebbe in più una certa debolezza nell’esposizione delle tesi accusatorie, debolezza che si riverbera irrimediabilmente nella logica delle motivazioni offerte alla Suprema Corte. Ma questo sarà argomento discutibile solo dopo la lettura delle conclusioni di ieri sera.
E’ vero che logica vorrebbe che ogni processo facesse storia a sé, ma è pur vero che lo stesso svolgersi degli avvenimenti quotidiani offre il fianco per una lettura, come si dice, di squisita natura politica. Del resto basterebbe mettere in fila gli ultimi sviluppi giudiziari, cominciati con l’avvento della cosiddetta «Seconda Repubblica», per verificare come siano tenuti insieme da un sottile filo politico. Dall’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima, fino alle stragi mafiose di Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano: un’unica storia che ha visto coinvolti uomini politici di prima grandezza e fior di istituzioni. In appena 48 ore abbiamo assistito all’agghiacciante quadro descritto dai magistrati di Caltanissetta sulla strage Borsellino e al clamoroso ribaltamento di due sentenze di condanna nei riguardi del sen. Marcello Dell’Utri. Sono vicende separate, certo. Ma sono storie che nell’immaginario viaggiano sulla stessa trama. Forse, allora, si dovrebbe prendere atto che la soluzione giudiziaria possa non corrispondere al reale conseguimento della giustizia, che la verità processuale possa non coincidere con quella storica. In tal caso, però, dovrebbero essere le istituzioni politiche, il Parlamento, ad assumersi l’onere di colmare i vuoti che la magistratura per forza di cose è costretta a lasciare.
Si potrebbe discutere a lungo sui singoli «addebiti» contestati all’imputato Dell’Utri. Certo, sono provate alcune frequentazioni discutibili (Tanino Cinà, lo stalliere Vittorio Mangano in primis) e si potrebbe persino fare della facile ironia sulle telefonate coi mafiosi o sulla sua presenza al matrimonio londinese di un boss italo-americano, presenza giustificata come «casuale», trovandosi lui a Londra per visitare una mostra sui vichinghi. Sono episodi non edificanti ma, ha sostenuto il Pg, non dimostrano il concretizzarsi del concorso esterno. Le frequentazioni, insomma, non sono reato, come non lo furono per Calogero Mannino e per le strette di mano dispensate da Andreotti. Ma non dovrebbero neppure essere sottovalutate in un giudizio politico e morale che non attiene più alle prerogative delle aule di giustizia.
Paradossalmente, forse, a favore di Dell’Utri ha giocato l’enorme mole di atti entrati nel processo in corso d’opera. Durante l’appello sono arrivate le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza (lo stesso del processo Borsellino) con le accuse sul presunto coinvolgimento dell’imputato, e di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, nelle vicende delle stragi mafiose. Ancora le stragi, ancora il filo rosso che trascina nelle aule di giustizia un’intera stagione politica. Nessun processo, finora, è riuscito a mettere un punto fermo nella direzione della conferma dell’esistenza di una innaturale sinergia, diciamo organica, tra mafia e politica. Neppure quello ad Andreotti pure offerto all’opinione pubblica come «La vera storia d’Italia». E il processo che si profila all’orizzonte di Caltanissetta soffre già del vizio d’origine: la difficoltà di provare il coinvolgimento dei politici che, infatti, sono stati indicati come «presenti» nel palcoscenico del periodo della «trattativa» e delle stragi, ma senza «mani sporche». Una mediazione possibile, come in quasi tutti i processi di mafia e politica, compreso quello contro il sen. Dell’Utri, che può sperare in un nuovo processo e, in subordine, nella prescrizione. Il nuovo clima, derivato dalla caduta di Berlusconi, per paradosso gli può persino giovare. Senza con questo voler credere in una magistratura sensibile ai cambi di stagione.
LA STAMPA
VITA DI DELL’UTRI
Anni 60: l’incontro con Silvio
Marcello Dell’Utri, dopo aver finito il liceo classico a Palermo, studia giurisprudenza a Milano. All’università Statale incontra Silvio Berlusconi del quale diventa, a 23 anni, segretario. All’epoca il Cavaliere sponsorizzava il Torrescalla, piccola squadra di calcio di cui Dell’Utri era allenatore. Dopo un breve passaggio a Roma, Dell’Utri nel 1967 torna a Palermo dove diventa direttore sportivo dell’Athletic Club Bacigalupo. Qui incontra Vittorio Mangano e Gaetano Cinà, due mafiosi. Dal ‘70 al ‘73, fa carriera come bancario.
Mangano lo “stalliere”
Richiamato da Berlusconi, torna a Milano nel 1974 per lavorare alla Edilnord. Si occupa della ristrutturazione della Villa di Arcore. Il 7 luglio qui porta Vittorio Mangano (foto), esponente del clan Porta Nuova con all’attivo tre arresti. Per il tribunale di Palermo, Mangano è assunto per evitare che i familiari del Cavaliere siano vittima di sequestri di persona da parte della mafia.
Compleanni e matrimoni
Il 24 ottobre 1976 Dell’Utri partecipa con Mangano al compleanno del boss catanese Antonino Calderone al ristorante “Le Colline Pistoiesi” di Milano. L’anno dopo lascia la Edilnord per la Inim di Filippo Rapisarda (foto), società che ha rapporti con esponenti mafiosi. Il 19 aprile partecipa a Londra al matrimonio di Jimmy Fauci, boss che gestisce il traffico di droga tra Italia, Gran Bretagna e Canada.
Il ritorno di fiamma col Cavaliere
Nel 1982 Dell’Utri torna a lavorare con il Cavaliere e diventa socio di Publitalia ‘80, la società di raccolta pubblicitaria della Fininvest. Nel 1983, durante un blitz contro la mafia dei casinò a Milano, Dell’Utri viene trovato in casa del boss Gaetano Corallo. Nel 1992 il presidente della pallacanetro Trapani, Vincenzo Garraffa, riceve la visita del boss Vincenzo Virga che dice di agire per conto di Dell’Utri. I processi si concluderanno con l’assoluzione di Dell’Utri.
Nasce Forza Italia. Parlano i pentiti
Dell’Utri è tra i fondatori di Forza Italia e comincia la sua carriera politica al fianco del Cavaliere. Nel 1996 viene eletto deputato, nel 1999 diventa parlamentare europeo, nel 2001 senatore della Repubblica. Ma già nel ‘94 il pentito Salvatore Cancemi (foto) parla con i magistrati di Caltanissetta dei rapporti tra Dell’Utri e Cosa Nostra. Dell’Utri, attraverso la mediazione di Gaetano Cinà, avrebbe avuto rapporti con mafiosi di spicco come Stefano Bontate, Mimmo Teresi e lo stesso Vittorio Mangano. Rapporti iniziati a metà degli anni ‘70.
La prima condanna: 9 anni
Iscritto nel registro degli indagati, Dell’Utri viene sentito due anni dopo dai magistrati. L’interrogatorio durerà 11 ore. Il 19 maggio 1997, viene rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo è lunghissimo: sette anni per 256 udienze. Vengono sentite 270 persone tra testimoni, periti e consulenti. L’11 dicembre 2004 Dell’Utri viene condannato a nove anni di carcere.
Mangano? «Un eroe» Processo da rifare
L’Appello inizia il 30 giu- Ieri la Corte di Cassazione gno 2006. Durante il processo ha annullato la sentenza d’apmuore, nel 2008, Vittorio Man- pello accogliendo le richieste gano. Dell’Utri lo ricorda con della difesa e del Pg Francesco benevolenza: «Mangano è sta- Iacoviello che aveva lamentato to un eroe, a modo suo». Le gravi lacune giuridiche in merisue parole provocano polemi- to alla mancanza di motivazioche. L’Appello si conclude il 29 ne e mancanza di specificazione giugno 2010 con una condan- nella condotta contestata a Delna a 7 anni. Dell’Utri è assolto l’Utri. Ora una nuova corte d’apper i fatti successivi al 1992. pello dovrà rifare il processo.
LA STAMPA
FABIO POLETTI
La sua prima dichiarazione arriva dieci minuti dopo la sentenza della Cassazione: «Sono sollevato. Finalmente ho trovato una magistratura che mi ha giudicato in maniera serena». C’è un giudice a Roma per Marcello Dell’Utri. Ma dove sia il senatore che da quasi vent’anni cerca di dimostrare di avere niente a che fare con Cosa Nostra nessuno lo sa. I suoi avvocati giurano che sia a Milano: «Per noi è con i suoi familiari, ha atteso con loro la sentenza...». Il telefono cellulare di Dell’Utri suona a vuoto per tutto il giorno. Poi scatta un messaggio registrato in spagnolo che avvisa di provare più tardi: «Por favor marque de nuevo». Non c’è mica bisogno di giocare troppo di fantasia per immaginare che Dell’Utri abbia preferito attendere lontano, più sereno e meno avvicinabile dalla giustizia che poteva essere avversa, l’ennesimo verdetto della sua infinita storia processuale. Ma appunto è solo una supposizione.
Alla fine solo un giallo, nemmeno dei più inquietanti di questo palermitano di successo, inventore di Forza Italia e prima ancora di Publitalia, vicinissimo a Silvio Berlusconi, pericolosamente vicino alle cosche secondo un bel po’ di magistrati della sua città di origine, che dal ‘94 ad oggi hanno cercato di dimostrare quello che la Cassazione giura si debba ancora provare e allora si ricomincia come se nulla fosse successo.
Della sua condanna a sette anni di carcere rimane niente. Tutto da rifare. Ma per Marcello Dell’Utri che parla attraverso i suoi avvocati va bene pure così: «Affronterò il nuovo processo ancor più convinto della mia innocenza che ho testimoniato in tutti questi anni, fiducioso nella giustizia». Chi lo ha sentito nelle ultime ore dice che Dell’Utri è sollevato ma l’attesa di questa sentenza è stata tutt’altro che facile. Giocarsi una condanna a sette anni, col rischio di finire in carcere prima ancora di mezzanotte, non farebbe piacere a nessuno. «Non so dove sia, ma se fossi in lui sarei molto lontano. Credo sia comprensibile», raccontano i suoi più stretti collaboratori che però assicurano di non averlo sentito negli ultimi giorni.
La sua segretaria di sempre, Ines Lattuada, giura di avergli parlato fino al giorno prima e che sicuramente era a Milano, la sua città di elezione da sempre: «Non era agitato perché non è nel suo carattere. Preoccupato all’idea di andare in carcere ovviamente sì». Fine delle dichiarazioni da questa donna con cappottino blindato e occhialoni scuri. E lo si capisce che per lei la riservatezza è molto più di una questione d’onore. Il suo nome, il nome di questa segretaria in forza a Publitalia, spunta ovunque nelle carte del processo di Palermo. È lei a tenere le agende del senatore e annotare con diligenza le chiamate dei dirigenti del partito ma pure quelle dello stalliere di Arcore Vittorio Mangano, di Gaetano Cinà o Pino Mandalari, il cassiere di Totò Riina. «Non so dire dove sia. E mi raccomando... vi ammazzo se esce il mio nome sui giornali», sibila quella che vorrebbe essere solo una battuta, prima di chiudere il doppio portone in legno lucido del Circolo del Buon Governo, via Marina 1, una delle residenze ufficiali del senatore che in questo palazzo in pieno centro ha messo in piedi da anni un raffinato circolo bibliofilo con annesso teatro e agorà di dibattito politico.
Al terzo piano Marcello Dell’Utri ha un appartamento. La segretaria giura che, come sempre, nel pomeriggio era passata la moglie. Alle sei e mezza della sera quando sembrava che si potessero ritrovare i suoi fedelissimi per attendere la sentenza il portone si chiude. A Milano 2, quartiere Sagittario, Torre 2, via Fratelli Cervi dove Dell’Utri ha ufficialmente eletto domicilio anche per il processo, le domestiche abbassano la tapparella. «Non lo vediamo da giorni», giura un vicino che passa col cane. «Quando c’è, lo sappiamo perché c’è la scorta». Il rischio per Dell’Utri era che ieri sera ci potesse essere la polizia con un cellulare ad aspettarlo. Ma per lui c’è stato un giudice a Roma. E altri ce ne saranno a Palermo.
LA STAMPA
RIC.ARE.
Abbiamo il massimo rispetto per la Cassazione. Io non ho una posizione ideologica, sull’associazione mafiosa e sul concorso esterno. E questo non era un processo politico, né a un politico. È stato un processo a un imputato, il senatore Marcello Dell’Utri, che è divenuto politico in corso d’opera».
Domenico Gozzo fu il pm del processo di primo grado, assieme al collega Antonio Ingroia: emigrato a Caltanissetta, dove oggi è procuratore aggiunto e si occupa delle stragi del ‘92, è entrato spesso in contrasto con i suoi ex colleghi palermitani. Ma ieri sera ha accettato di commentare con la Stampa la sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio la condanna a sette anni dell’esponente del Pdl. Non parla invece il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. Ingroia è in viaggio per il Messico, dove si fermerà per due settimane, tenendo incontri e conferenze. E il pg del processo di appello, Nino Gatto, non sta molto bene: prima della sentenza si era limitato a un commento laconico, dicendo che «ogni testa è tribunale», con un riferimento polemico al suo collega pg della Cassazione.
Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non esiste, ha detto infatti il rappresentante dell’accusa, Francesco Iacoviello, di fronte alla Suprema Corte. Gozzo non ne è convinto: «Questo è un giudizio di legittimità: nei due processi di merito l’imputato era stato condannato. L’esistenza del concorso esterno è stata consacrata in numerose sentenze della stessa Cassazione. Io non ne faccio una questione ideologica. Aspettiamo le motivazioni della decisione e vedremo quale sarà il principio di diritto cui i colleghi di Palermo dovranno attenersi. Non si chiude una stagione, né si riapre. La posizione del pg è rispettabile ma è isolata. Se il concorso esterno non deve esistere più, va detto con chiarezza».
La decisione di ieri ripropone comunque l’eterno dilemma del personaggio «vicino», «a disposizione», «contiguo» alle cosche e della sua punibilità secondo l’interpretazione della legge.
I pm palermitani nei «grandi processi» sono riusciti ad ottenere finora solo una condanna definitiva, che l’imputato sta scontando: quella di Bruno Contrada, colpevole di concorso in associazione mafiosa. Pm di quel processo - e del processo Dell’Utri - era stato ancora una volta Antonio Ingroia.
Negli altri processi a politici o imputati eccellenti, i pm hanno incassato solo assoluzioni: se si fa eccezione per politici minori, sono stati scagionati Francesco Musotto, Corrado Carnevale - molto legato in passato ad Aldo Grassi, il presidente della quinta sezione della Cassazione, che ieri ha annullato la sentenza Dell’Utri - l’ex ministro Calogero Mannino, oggi di nuovo indagato per la trattativa Stato-mafia. E poi c’è anche Giulio Andreotti, che rispondeva di associazione mafiosa: la prescrizione lo ha salvato dalla condanna per i fatti avvenuti fino alla primavera del 1980, ma per il resto il sette volte presidente del Consiglio è stato assolto.