varie, 10 marzo 2012
PALLINATO CARMELO BENE
Carmelo Pompilio Realio Antonio Bene, nato il 1° settembre 1937 a Campi Salentina, poco a nord di Lecce.
Stesso giorno, stessa ora, stesso minuto, quindici anni dopo, di Vittorio Gassman.
«Attore, scrittore, poeta, cantante, regista, pittore, puttaniere e amatore, criminale e santo. Infine genio» (Pietrangelo Buttafuoco).
«Bambino, mi chiedevo: se l’attore fa il personaggio, chi fa l’attore?».
«Quando riuscì a entrare all’accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico si fece subito notare per la sua irriverenza, era sempre molesto con tutti, soprattutto con i docenti. Quando qualcuno chiedeva se c’era Carmelo, altri rispondevano: “Non c’è Bene, grazie”» (Giuliana Rossi, prima moglie).
«A ventuno anni, quando era “un bel mostro” e “si voltavano tutti, uomini, donne, finocchi”, si volta anche Albert Camus e dopo averlo guardato negli occhi gli regala i diritti di Caligola per il prezzo di un posto in platea che un infarto gli impedirà di riscuotere, ed è l’unico posto che alla prima e poi alle quaranta repliche resta vuoto» (Pietrangelo Buttafuoco).
«Ci fu chi notò subito il suo stile. Quelli che lo ignorarono si accorsero di lui quando una sua pièce fu accusata di oscenità. Era il 1963, anno d’oro per le avanguardie artistiche in Italia. Reinventato Cristo, reinventò Manon Lescaut, Ubu Roi, Pinocchio, reinventò l’Amleto reinventato da Laforgue. Divise il pubblico: da una parte il grande pubblico che lo ignorò o lo derise, dall’altra parte un piccolo pubblico disposto a giurare che se il teatro esisteva in Italia era perché esisteva Carmelo Bene, disposto ad affermare che se c’era in Italia un cinema d’autore quello era il cinema di Carmelo Bene» (Il Foglio).
Del Faust scrisse un recensore: «Questo spettacolo non è di competenza di noi critici, ma dei carabinieri».
«Detesto chi fa i baffi alla Gioconda, ma non ho niente da dire a chi la prende a pugnalate» (Ennio Flaiano).
«Era diventato, già a partire dagli anni ’60 a perdifiato delle cantine fino all’apice degli anni ’80, l’icona culturale di certi salotti snob che collezionavano al suo cospetto orgasmi plurimi, puntualmente benedetti dall’equivoco e dall’incomprensione. Di cui Carmelo non si doleva più di tanto, consapevole che tanto rumore e tanti orgasmi aiutavano comunque ad alimentare il conto in banca e certi lussi indispensabili per l’anacoreta pane e caffè nero» (Giancarlo Dotto).
«Pazienza» (quando gli esprimevano apprezzamenti affettuosi sui suoi spettacoli).
«Bravo!», gli urlano dalla platea. «Lo so», risponde lui dal palcoscenico.
«Le opere di Bene sono brevi. Nessuno sa finire meglio di lui» (Gilles Deleuze).
«Come potremmo definire Carmelo Bene? Un regista con i piedi fermamente poggiati sulle nuvole?» (Ennio Flaiano).
«Lo studio di CB. Seduti alla scrivania, l’uno di fronte all’altra. Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Shopenhauer. Io leggo, ad alta voce, alcuni brani. Lui chiosa, e indaga (capire se capisco). Altri “testi”, caldamente consigliati, sono stati letti e riletti in quel periodo – Joyce, Saussure, Flaiano, Gozzano... E gli ascolti – naturalmente Callas (le famose “lettere”) e Kathleen Ferrier... “Devi studiare, studiare. Dodici, quattordici ore al giorno!”, mi diceva» (Sonia Bergamasco).
«Di che altre letture si serve più volentieri?».
«Libri di filosofia, di patristica greca (quella non dogmatica, non positiva), e in teoria consulto ogni letteratura ma devo confessare che la più grande folgorazione l’ebbi con l’Ulisse di Joyce, che ai miei occhi ha trasformato la vita in fenomeno estetico puro, tale è l’immediatezza del linguaggio: in futuro non si raccomanderà e non si tramanderà più l’Odissea di Omero (io amo solo l’Iliade che è follia totale), ma, appunto, l’Ulisse joyciano» (a Rodolfo Di Giammarco).
«La grande passione di Carmelo erano i programmi delle Tv locali, quelli più scadenti e borgatari però. Conosceva a memoria gli imbonitori di Rete A, i banditori d’asta di Canale 66, i chiromanti di GBR, le maghe di Telestudio, i tappetari di Teletevere, i pranoterapeuti di Rete Oro, i podologhi di Telemeno» (Roberto D’Agostino).
«Mi sono prodigato per anni tra una masturbazione e l’altra [...] Le copule vennero molto dopo, in ritardo, non prima dei diciotto anni. Quanto bastava per avere la conferma che il coito è un surrogato della masturbazione, non il contrario».
Curiosando nel dormiveglia un film sulla vita di John Holmes. Holmes che dice «Ho avuto 14 mila donne» e lui, Carmelo, che riemerge stizzoso: «Ma se persino io non sono arrivato a 5 mila!» (Giancarlo Dotto).
«Mai stato un facchino del sesso, un atleta della prestazione. Bisogna cercare d’istupidirsi non di fottere. “Fate voi, ma fate presto”, così dicevo tra me e me in quei letti sempre molto affollati. Pensano che la perversione sia il kamasutra... E non l’uscir di strada, come diceva San Juan de la Cruz. Solo i grandi mistici e le grandi mistiche possono capire questo. Anche se non possono raccontarlo. Delle loro estasi non ne sanno niente. Non erano in casa».
«Il più grande pornomane non è il Sade, è Franz Kafka».
«Il corpo implora il ritorno all’inorganico. Nel frattempo non si nega nulla».
«A me piace chi non mi comprende».
«Era la persona più facile che si possa immaginare. Per lui il quotidiano non esisteva, non aveva senso pratico e si affidava completamente a me. Era un figlio: gli tagliavo perfino i capelli, gli compravo le scarpe» (Lydia Mancinelli, sua compagna per 19 anni).
«Sa perché Carmelo amava incondizionatamente le donne? Me lo disse quel giorno: “Perché sono la cosa vivente più vicina alla morte”» (Sandro Bechetti).
«Ma il calcio cos’è? Quelle partite in America a cinquanta gradi all’ombra? [parla dei Mondiali di calcio Usa 1994, ndr] Da bambino guardavo un po’... ché il gioco è una cosa importante, ma loro non giocano... scherzano... lo scherzo è adulto, non è più il gioco, non è bambino. Quindi non c’è nessun aspetto ludico, non c’è più l’equivoco del mito, non si vede un assist di Maradona, che è più interessante certamente, di qualunque attimo di teatrante internazionale. O di Van Basten o del Pelé di una volta, che ne so... o di una volé di Edberg, che, essendo il tennis, non può giocare al tennis e gioca addormentato, e infatti si addormenta come i cavalli, Stefan Edberg. [...] Quindi, li trovo nemmeno osceni, perché sarebbe un far torto al porno. Proprio nell’etimo ou schenè, fuori scena: il porno come eccesso del desiderio. Ecco, sarebbe davvero insolentire, oltraggiare il porno, definendo il non gioco italiano o italiota osceno».
«Ha presieduto addirittura la giuria del Processo del lunedì» (Roberto D’Agostino).
Parlando di Romario: «Come un flash: talmente veloce che è fermo».
Marco Van Basten, secondo Carmelo Bene limitato per la mancanza del «concettazzo del tiro sporco».
«Passava delle ore a girare sui canali satellitari a gustarsi il calcio dell’una o dell’altra nazione. Gianni Melidoni mi raccontava che gli telefonava al Messaggero e gli attaccava bottoni infiniti sulla disposizione in campo delle squadre» (Giampiero Mughini).
Di tutti i giornalisti Carmelo Bene salva solo Ruggiero Orlando, con il quale dice che si scolava dieci bottiglie di whisky al giorno.
«Poteva scolare un litro e mezzo di whisky al giorno e un fiasco di vino, ma nonostante tutto non l’ho mai visto sbronzo, al massimo un po’ alterato» (Giuliana Rossi).
Fo, andato a trovare Carmelo Bene in camerino a Parigi nell’intervallo del Macbeth, vide uno stuolo di bottiglie di birra vuote, sistemate in file di tre. Bene: «Questa è la mia razione quotidiana». Fo: «Aveva recitato tutto il primo tempo con una veemenza incredibile, e nella seconda parte saltò come un capretto, digrignò, andò di falsetto, sbrodolò parole a grande velocità, il tutto mantenendo un tempo e una coordinazione straordinari» (Franca Rame).
Quella volta che a Mosca Carmelo Bene rifiutò lo champagne del presidente sovietico e poi cominciò a gridare «Viva Hitler, viva Stalin» (Claudia Provvedini).
«Scampato nell’estate del ’90 per miracolo a un intervento di otto ore e mezzo a cuore aperto. Ai chirurghi che gli domandavano cosa desiderasse prima dell’anestesia, lui rispondeva: “non svegliarmi mai più”. Tornò a casa e si lasciò andare a qualunque eccesso, fisico, alcolico e olfattivo. Dipinse tele che non faceva vedere a nessuno (“Ho smesso perché ho capito di non poter diventare più grande di Bacon”), smanacciava mostri che solo lui vedeva. Ricoverato alla “Mater Dei“ per allucinazioni, labirintite e stato confusionale, venne curato con la terapia del sonno e dosi farmacologiche da elefante. Sparì. Niente più spettacoli, niente televisione, niente giornali. Solo meditazioni e allucinazioni. Riappare quattro anni dopo in un Costanzo Show su cui hanno scritto decine di tesi di laurea» (Giancarlo Dotto).
«L’evento televisivo dell’anno» (Michele Santoro).
Saranno due i «Bene contro tutti» al Costanzo Show: 27 giugno 1994 e 23 ottobre 1995 in occasione dell’uscita delle sue Opere nei classici Bompiani. Estratti:
«Lei è capace di friggere l’aria? Io sì» (94).
«Qualunque autobiografia è immaginaria e di conseguenza a me non rimane che sconfessare e sconfessarmi continuamente [...] Bisogna impugnare soltanto la contraddizione, vivere solo la crisi. Bisogna sputarsi in faccia continuamente, tutte le sere fino la sera e dalla sera alla mattina, anche nel sonno, contraddirsi continuamente, sfuggire, non essere mai se stessi, non fermarsi mai, così soltanto si è nell’immediato, è questa soltanto la volontà di potenza possibile» (95).
«Noi siamo nel linguaggio, il linguaggio crea dei guasti ed è fatto solo di buchi neri, è fatto solo di guasti... “Codesto solo – dice l’Eusebio nazionale e cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari da Nietzsche – codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E questo si può dire: chi dice “Io dico d’esserci, io dico questo” è coglione due volte. Prima perché si ritiene “io”. Secondo perché è convinto di dire. Ed è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non siano significanti, ma sian significati e che dipendono da lui. Ma Lacan ha insegnato “Il significato è un sasso in bocca al significante”...» (94).
«Il teatro non può conoscere il teatro, così come la felicità non è felice... Così come il cinema non sa di cinema, così come tutte le rivoluzioni più importanti che ritengo di aver apportato alla concertistica fino alla macchina attoriale, l’amplificazione [...] Sennò si finisce davvero non soltanto nel quotidiano... si rischia il simbolico e cioè si rischia ancora l’arte e invece verremo a sapere come nessuno è attore di alcunché, come non si dà opera d’arte, come non si può produrre un capolavoro, come non resta che essere un capolavoro» (95).
Luigi Lunari: «Io appartengo alla parrocchia in cui le frasi hanno un senso comune». CB: «Ah, senta, per favore non mi offenda... Il senso comune, ma scusi, il senso comune buono? Il buon senso comune?». LL: «Comprensibile agli altri». CB: «Comprensibile... io sono per il grande teatro, cioè grande teatro è quanto non è comprensibile. La vita si comprende? No. Allora occupiamoci della vita, basta con il sociale» (94).
Guido Almansi: «Lei è diventato molto, molto noioso, cosa che non era vent’anni fa [...] Lei non parlava di “Kafka pornografo”, “voglia delle voglie”, di “privato del privato”, di “superare me stesso”, “sono io mia moglie”, “tutti aldilà”, “parlare di dio con dio”. No, no, queste cose sono venute dopo, quando lei [...] ha cominciato a scrivere che lei appariva alla Madonna. Mi chiedo se lei ha imparato da cattivi maestri. I cattivi maestri sono i suoi allievi, in realtà. Gli erofanti e i sacerdoti del culto beniano, i quali arrivano a scrivere frasi come “Lo spaccio negato della negazione della negazione” [...] e altre fesserie del genere» (94).
«Bisogna che vi rassegnate a mentirvi, perché voi, noi non siamo. Siamo quello che ci manca, non siamo in quello che siamo. Voi mentite di interessarvi alla Bosnia, voi mentite, mentite come Clinton, mentite come gli altri, mentite come Stalin, mentite come Hitler, mentite come Fini, mentite come Amato, mentite come Almansi [...] insomma, voi siete dei democratici proprio. E volete anche lavorare: degli schiavi. Invece di pensare a dispensare gli schiavi dal lavoro, ecco l’unico appunto che io faccio alle vostre sinistre: perché vogliono schiavizzare la gente, perché bisogna far lavorare in miniera a cinquecento metri di profondità, senza aria, della povera gente per settecentomila lire al mese? Perché hanno famiglia. Ma non sarebbe meglio distruggere la famiglia e che questa povera gente prendesse un po’ d’aria? [Contestazioni e rumoreggiare del pubblico] Mi fa piacere sentire la famiglia, la famiglia ce l’ha in quel posto. Non sono nato per piacervi» (94).
«Fino al Settecento l’editoria era ben poca cosa ed un libro costava davvero un patrimonio, e quindi l’orale ha sempre avuto un ruolo, da Adamo in poi, notevolissimo. [...] Dopo il Settecento/Ottocento comincia ad allargarsi questa sciagura editoriale e quella delle gazzette... anche dell’informazione...» (95).
«Sarebbe ora di finirla con questa libertà di stampa. No mi sta bene la libertà di stampa, se è libertà dalla stampa...» (94).
«L’informazione sempre informa i fatti, diceva tanti anni fa Jacques Derrida, non informa mai sui fatti, anche perché i fatti non accadono mai, Aristotele docet. Non conta la veridicità di un fatto accaduto, ma il convincimento che il messaggero di questo fatto riesce a trasmettere... e quindi i fatti non contano» (95).
«Crepi la democrazia, crepi la Repubblica, crepi il presidente della Repubblica! [...] Liberatevi della libertà, soprattutto, niente è così vincolante quanto la libertà... sputate sulla libertà e sui tribuni della libertà soprattutto...» (95).
Roberto D’Agostino: «Maestro, se lei non esiste, perché si tinge i capelli?» (94).
«Visse come la più profonda ingiustizia “la rassomiglianza della razza umana”, visse la cosiddetta democrazia (“inumana e disumana”) come il risultato di un incubo, “una clonazione impostata sul pessimo”. Disse appunto: “Se anch’io sono così, mi faccio schifo”. Il caso C è tutto qui dunque: “Ci vorrebbe un bel lager, sì. Non parlo mai per metafore io”. Il caso C è potente: “Meglio il Medioevo del Rinascimento. Non c’è dubbio”» (Pietrangelo Buttafuoco).
«Un giorno, in camerino, Luisa Viglietti prende tra le braccia un pargoletto. Temeraria e candida, lo sottopone allo sguardo sardonico del Nostro. Il quale sentenzia: “Stai vezzeggiando un ragioniere”» (Sonia Bergamasco).
«[Il reazionario] non è volgare come il rivoluzionario, non intende sostituirsi a nessuno, soprattutto al potere. Non vuole essere autore, autorità, padronato; e neanche servo, perché “ogni forma di coscienza è servile”. È tentato, semmai, dall’inorganico. Vuole essere il niente che è».
«Bisogna arrangiar quattrini perché un buon reazionario possa difendersi».
«Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al contrario. Quando l’arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era per i privati. Un Vélazquez, solo un principe poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l’arte è diventata decorativa, consolatoria. L’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso».
«Era umile, sembra strano dire questo, ma era uno umile. Era un’umiltà straziata e vera, storica, come la si potrebbe pensare oggi di un santo antico, un’umiltà armata, sì, un’umiltà armata di spada, armata di dolore» (Jean-Paul Manganaro).
«Quel gusto di vivere appartato fra l’edera, gli angeli di gesso del Bernini, i broccati, gli argenti, i cristalli delle sue lunghe notti. Accogliendo gli ospiti, ogniqualvolta apriva loro la porta, come principi. Mai un bicchiere vuoto, occhi brillanti negli specchi, sigarette, lampi di luce nelle parole, e tanto riso senza comicità» (Gioia Costa).
«Migliaia di libri e una quantità davvero smodata di carte, quadri di Klossowski in ogni stanza, bagni neri, tavoli di marmo, cornici dorate, raso azzurro, rosa, rosso, oro alle pareti, un soffitto incorniciato, pareti completamente nere, tappeti su tappeti, tendaggi, una stanza piena di nastri con la sua voce, lampade déco, cassettiere in madreperla, la strumentazione fonica...» (Luca Buoncristiano).
«L’indecenza della vita mi ha frequentato assidua fin dalla prima infanzia. Malattie di ogni sorta e degenze, convalescenze continue; ambulatori diagnostici: coronografie, biopsie, gastroendoscopie, scintigrafie, risonanze magnetiche; astenterie d’ospedali e sale operatorie, broncopolmoniti, paradontologie, odontoprotesi, epatopatie, infarti, accidentacci vertebrali, discopatie, disfunzioni gastrointerinali, anestesie complesse, interventi chirurgici logoranti, disfunzioni oculari, emicranie intollerabili, irriducibili insonnie, complicazioni delle vie urinarie. Non c’è brano di carne che Esculapio abbia tralasciato».
«La fisiologia è esclusa dal romanzo, dal teatro, dal cinema. Non si dà mai una sequenza che si interrompa perché “Lei” d’improvviso ha da evacuare... [...] Non c’è un’esecuzione musicale dove un qualcuno in scena o nell’orchestra, colto da stimolo più che naturale, incontenibile, interrompa il tutto. Invocazione allo stacco...: “e allora lui che aveva alzato il coltello per ucciderla, disarmato da una diarrea immediata, fugge”».
«La stanza era la 416, il tumore maligno, il paziente molto irritabile e però solvibile. Altre note dall’accettazione: “Soggetto cardiopatico, la transaminasi alta, stato civile separato, professione pensionato“. Scritto proprio così: «Pensionato». Lettura preferita Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, aggiungo io. [...] Cristiano Huscher è il medico che esegue l’intervento [...] Sosia di Bela Lugosi, molto noto nell’ambiente per la sua chirurgia estrema. La cartella clinica parla di resezione del peritoneo, di parte del colon, dell’intestino e del diaframma. [...] Torna a casa tra Natale e Capodanno. Le ferite che sembravano cicatrizzate si riaprono una a una. Tanto dolore, tanta morfina. Un incubo. Carmelo non si nutre più. Tre mesi dopo, 21,10 del 16 marzo 2002, al terzo giorno di coma, Carmelo Bene moriva, vegliato dal miagolio dei gatti e dal brusio delle donne che lo amavano, Luisa tra tutte, la “femminile disattenzione“ che da sempre invocava a scortare i suoi morenti eroi di scena, da Pinocchio a Otello. No, non era la vista il dono più bello. Aveva fatto oscurare con le pagine rosa del suo giornale sportivo lo specchio della camera e il suo prediletto Sony 37 pollici, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul quadro di Amore e Psiche. Aveva urlato notti intere, spellato dall’orrore ancora prima che dal dolore. Aveva invocato la morfina, il cianuro, impartite lezioni in francese su Céline a Massimo, l’infermiere che lo assisteva la notte e non sapeva una parola di francese, ma non sapeva neppure chi fosse Céline, consultato febbrilmente il manuale del perfetto suicida che l’amico francese gli aveva spedito da Parigi, maledetto i medici che si ostinavano a tenerti in vita, dopo avergli reciso un pezzo di diaframma e la sua voce che non era più la tua voce. “Non ha più le armoniche“, si disperava a chi provava a consolarlo [...], lui avvolto nella vestaglia da camera, con lo spacco vezzoso che ne esaltava le pose da Eliogabalo, prima di somigliare impeccabile ai comatosi che aveva tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle liriche di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, negli incubi di Poe e nei manuali di Krafft-Ebing. L’aveva detto per tempo. Inciso su nastro. “Sono inconsolabile. Me lo sono guadagnato. Ho meritato quest’uscita dalla felicità infelice. Sono fuori. Questo muovere incontro alla morte. Forse per vivere non ci vuole una dignità, ma per morire sì. Bisogna essere degni“» (Giancarlo Dotto).
«Il novantanove per cento di me è contento di morire, ma c’è un uno per cento a cui invece rode. E io, quell’uno, proprio non lo capisco».