Banana Yoshimoto, Internazionale 9/3/2012, 9 marzo 2012
La mia vita dopo Fukushima (Articolo uscito su Die Zeit) Forse molte lettrici e molti lettori troveranno la mia visione delle cose troppo semplicistica o estrema
La mia vita dopo Fukushima (Articolo uscito su Die Zeit) Forse molte lettrici e molti lettori troveranno la mia visione delle cose troppo semplicistica o estrema. Comunque sia, quel che sto scrivendo è solo il personalissimo racconto di una scrittrice e di una madre un po’ eccentrica, che è cresciuta al tempo degli hippy, s’interessa di occultismo, ha un figlio piccolo e vive a Tokyo da quando è nata. Non voglio predicare su questa o quella visione del mondo, o dare dei consigli. È perfettamente possibile che io mi sbagli, perché mi mancano informazioni obiettive e affidabili, che in Giappone purtroppo non ci sono. Inoltre desidero esprimere la mia più profonda simpatia nei confronti delle vittime del disastro nucleare di Fukushima, nella regione del Tōhoku. Spero di cuore che la ricostruzione sia rapida e che aiuti gli abitanti a ritrovare l’ottimismo. Dato che non ho visitato la regione colpita dal cataclisma, non posso aggiungere altro, sarebbe presuntuoso. Vi chiedo di leggere questo testo come il resoconto in prima persona del modo in cui ho vissuto il terremoto e gli eventi successivi nella mia città, Tokyo. L’11 marzo 2011, il giorno della disgrazia, volevo prendere l’aereo per Okinawa, che si trova nel sud del Giappone. Volevo andare a sentire il concerto di un noto virtuoso dell’ukulele. Doveva essere una vacanza di tre giorni in compagnia di mio figlio, che ha otto anni, e di una mia amica. L’albergo era prenotato, i miei amici di Okinawa mi aspettavano, era tutto pronto. Dovevo andare a prendere il bambino a scuola, portarlo a casa, caricare in auto i nostri bagagli già pronti e poi prendere la strada per l’aeroporto. Mio marito e io abbiamo pranzato in un ristorante dove mangiamo spesso, abbiamo bevuto un tè e siamo saliti in macchina. Tutte cose normali. Le parole non bastano per esprimere tutta la gioia che mi danno, nella vita, queste cose normali. Potrà anche essere una constatazione banale, ma la quotidianità è qualcosa di meraviglioso e insostituibile, un’infnita accozzaglia variopinta, confusa e insensata. Il vero senso della nostra vita non è forse imparare ad apprezzare e a far tesoro di questa ricchezza? Tutto è successo mentre mio marito e io eravamo in macchina. A un certo punto la vettura ha cominciato a slittare. Ci siamo chiesti cosa stesse succedendo, e in un attimo ci siamo resi conto che era un terremoto. La mia prima reazione è stata: meno male che c’è mio marito con me. Ma il bambino! Quel pensiero mi ha paralizzato. L’automobile sbandava lateralmente come mossa da una mano fantasma, tanto che a mio marito è sfuggito il volante, mentre cercava come poteva di sterzare per accostarsi. Anche dopo, mentre ci dirigevamo verso la scuola di nostro iglio, abbiamo dovuto fermarci più volte. In cima agli ediici si vedevano oscillare le antenne. Io pensavo anche a Okinawa, e mi domandavo se sarei riuscita a fare quel viaggio. Ho avuto il presentimento che potevo dire addio ai miei progetti. Non solo Okinawa, ma niente sarebbe stato come prima. Un evento di quella portata era inconcepibile! Da quel momento la vita sarebbe cambiata. I collegamenti telefonici non funzionavano, e così ho tentato di mettermi in contatto con i miei amici usando l’email e Twitter. Ma non funzionava più neanche la posta elettronica. Non avevo idea di come stessero i miei colleghi n. la domestica, a casa: potevo solo sperare che non gli fosse successo niente. Mi sono anche immaginata tutto quello che poteva essere andato distrutto e ho avuto un brivido. La radio confermava i miei timori. Con ogni minuto che passava, diventava sempre più chiaro che era una tragedia. La gente usciva dalle case, formava capannelli e parlava sconvolta e confusa. All’interno doveva essere stato angoscioso, altrimenti non sarebbero usciti tutti. Io mi sentivo la testa stranamente vuota, ero come stordita. In momenti del genere uno vorrebbe percepire tutto molto più chiaramente, ma non ci riesce: forse scatta una specie di meccanismo di protezione che serve a non provare dolore. Alla fine siamo riusciti a raggiungere la scuola. Non posso descrivere il sollievo che ho provato quando ho visto nostro figlio correrci incontro. Il sentimento di riconoscenza nei confronti delle insegnanti e di gratitudine a Dio mi ha soprafatto al punto che mi sono quasi spuntate le lacrime. La casa poteva anche essere ridotta a un cumulo di macerie, ma che importanza aveva, in confronto alla gioia di essere tutti insieme e in buona salute? Le scosse di assestamento non finivano, siamo arrivati a casa a passo di lumaca. Alla nostra colf, per fortuna, non era successo niente. Ci ha raccontato che subito dopo il terremoto un nostro amico e vicino di casa era corso lì. Era passato anche dalla trattoria dove lavorava e dal mio ufficio, per accertarsi che stessero tutti bene. Con mia grande sorpresa, a casa erano andati in pezzi solo i piatti da forno, un ritratto di mio nonno e varie cornici con le fotografie del nostro adorato cane, che era morto da poco. I libri erano caduti ed erano sparsi per terra. «È incredibile che non siano cadute neanche queste!», ha detto stupita la colf indicando la collezione di teiere sul davanzale della finestra. Erano quasi tutte capovolte. Sarebbe bastato toccarle – così sembrava – e sarebbero cadute sul pavimento. «Ora basterebbe un niente per mandarle in pezzi!», ho detto io, e ci siamo messi a ridere. Una risata di cuore, liberatoria. Mio marito è andato in ufficio a prendere delle cose di cui aveva bisogno. Era impossibile raggiungerlo per telefono o con un sms. È rientrato a casa solo dopo le dieci di sera. Nelle ore in cui sono rimasta ad aspettare invano un suo segno di vita e ho tentato di mettermi in contatto con lui, mi sono resa conto con sempre più forza di quanto fosse incredibilmente importante per me la mia famiglia. L’essere umano può avere anche dei progetti importanti, ma se la situazione intorno a lui cambia non gli sembrano più granché. E ho pensato: dovremmo passare molto, molto più tempo insieme, e con il bambino, finché è ancora piccolo. Sì, volevo cucinare e mangiare con loro tutte le volte che potevo! Come mi ha raccontato mio marito, tutti stavano rientrando a piedi, anche se la strada era lunga. C’era un’atmosfera stranamente vivace, a tratti perfino allegra. La gente voleva tornare a casa. Un istinto naturale. Le osterie sono rimaste aperte fino a tarda notte. Ma per la nostra domestica, come per uno dei miei colleghi in ufficio, tornare a casa era dificile. Così abbiamo cenato tutti insieme. La presenza di tutte quelle persone mi tranquillizzava. Con una birra in mano ho tentato più volte di mettermi in contatto con i miei amici di Okinawa. Alla fine la linea era libera. Il mondo, all’altro capo del filo, era a posto: una giornata tranquilla e pacifica come sempre. Invidiavo la loro situazione e al tempo stesso mi sembrava irreale. Sette anni prima, all’epoca del grande terremoto del Kansai, la gente che abitava a Kōbe doveva aver provato la stessa sensazione vedendo che Tokyo era illesa. Poi, via via che i treni hanno ricominciato a viaggiare, i miei ospiti si sono messi in cammino per tornare a casa. Era stato un bel momento, e ci aveva dato molta forza. La tv faceva vedere immagini sempre più spaventose. Al solo pensiero di tutte le persone che potevano essere rimaste vittime dello tsunami ero attanagliata dal terrore. È allora che ho capito le conseguenze spaventose che poteva avere il guasto di una centrale nucleare a seconda della direzione del vento. Ancor oggi non so se sia stato un bene guardare e riguardare quelle immagini. Cosa sarebbe successo se fossimo stati costretti a lasciare la città? Sarebbe stato il caos. La cosa migliore è uscire soltanto in caso di emergenza, pensavo, e per precauzione ho tirato fuori le maschere protettive di cui avevamo ancora abbondanti scorte dall’epoca dell’epidemia di influenza. Il telefono dei miei genitori e di mia sorella è rimasto muto per tutta la notte. All’alba siamo riusciti a parlare con il padre di mio marito, che viveva da solo. Ci eravamo preoccupati perché abitava non lontano dalla regione del Tōhoku. Al telefono, per., ci ha detto: «No, qui da me è tutto tranquillo». Mio suocero era vivo, stava bene. Sono rimasta senza parole, ma al tempo stesso talmente sollevata che mi è venuto da piangere. Non sappiamo mai quando all’improvviso è troppo tardi e non potremo più vedere qualcuno. In quel momento ho avuto una fortissima consapevolezza di quanto volevo bene a mio suocero e quanto significava per me. Domenica mattina sono andata a trovare i miei genitori. Dormivano profondamente e mia sorella aveva aperto le finestre come se non fosse successo nulla. A guardarli mi sono quasi sentita male, ma al tempo stesso le mie maschere protettive e la chiusura scrupolosa delle finestre mi sono sembrate delle precauzioni assurde. Anche mio figlio portava una maschera: era fastidiosa, ma insistevo che la mettesse. Non volevo correre rischi. Le mie fonti d’informazione erano essenzialmente due, il blog Isehakusandō e il sito Takedanet. Per non cadere anch’io in confusione evitavo i tweet, che pure si stavano moltiplicando. Invece rispondevo a tutte le domande delle mie lettrici e dei miei lettori, alcuni dei quali abitavano nella regione del Tōhoku e avevano perso tutto. In quel momento, per loro non potevo fare nient’altro. Nei negozi, nei ristoranti e nei caffè, commessi e camerieri erano un po’ più gentili del solito, e anche per la strada si avvertiva una maggiore animazione, come se la gente si rallegrasse di essere ancora viva. Come se tutti avessero capito per la prima volta quanto siano importanti la generosità e la disponibilità a dare una mano al prossimo. Naturalmente c’era anche chi reagiva in modo isterico o litigioso, ma almeno le persone intorno a me sono rimaste tutte calme. Ogni volta che tornavamo a casa ci cambiavamo immediatamente d’abito, ci sfregavamo con un guanto le parti esposte del corpo e mettevamo i vestiti in lavatrice. Le maschere protettive le depositavamo all’ingresso, e lavavamo i pavimenti più volte al giorno. Avevo già sospettato che il nostro amico vicino di casa fosse un artista della sopravvivenza. La mia impressione è stata confermata quando cose come il riso, le uova o la benzina sono diventate improvvisamente introvabili. Per paura di non poter più uscire di casa per molto tempo, tutti si erano precipitati a fare scorte. Molti generi alimentari di prima necessità venivano inviati nella regione del Tōhoku, dove ce n’era urgente bisogno. Anche se avevano subìto pochi danni, gli abitanti di Tokyo si accapigliavano nei supermercati contendendosi i prodotti più ambiti. Non posso dire che fosse scoppiato il panico, ma ho assistito a scene inconsuete e spiacevoli. Io tentavo di girare alla larga dagli accaparratori, e di regola compravo soltanto vino, formaggio e uva sultanina. Il nostro amico si era offerto di aiutarci se gli avessimo fatto usare la nostra automobile. Non sembrava molto preoccupato per il fatto che la benzina si stava esaurendo e che non si sapeva quando e dove sarebbe stato possibile trovarla di nuovo. Poi, un giorno, mentre in auto rientravamo da uno dei nostri giri di spese, improvvisamente ha esclamato: «Ehi, è appena passato un camioncino con un carico diretto al distributore!». Senza la minima esitazione, ha fatto inversione e si è diretto verso la stazione di servizio. Effettivamente c’era un addetto indafarato a servire i clienti. Noi siamo stati i primi, e dopo aver fatto il pieno ci siamo accorti che dietro di noi si era formata una lunga coda di veicoli in attesa. Ancora poche ore, e tutta la benzina sarebbe inita. Senza la reazione istantanea del nostro amico, saremmo rimasti bloccati a casa per giorni e giorni. Mi ha spiegato: «I primi ad andare via saranno quelli che non abitano a Tokyo o che non sono costretti a rimanere qui in città per motivi di lavoro. Poi, naturalmente, va via chi non vuole restarci». Il nostro amico non è il tipo d’uomo disposto a lavorare come un pazzo. Gli piace molto di più andare a zonzo per la città e osservare la gente. È un simpatico misantropo. Eppure ha amici in tutto il mondo, sa procurarsi informazioni affidabili, e nelle situazioni critiche dimostra un fiuto e una capacità di giudizio stupefacenti. Per esempio, quando la rete dei cellulari andava in tilt, lui sapeva sempre dove trovare una cabina telefonica libera. Mi ha colpito molto anche sentirlo descrivere la situazione in un inglese perfetto quando un suo amico l’ha chiamato dall’India. Per me è stato come una roccia nel bel mezzo di una mareggiata. A causa dell’avaria di diverse centrali nucleari, è stata razionata la corrente elettrica. A partire dal 15 marzo, Tokyo è stata suddivisa in distretti e la corrente è stata erogata a turno per qualche ora, secondo un piano prestabilito, e la gente si è ritrovata spesso in casa al buio e al freddo. Noi, anche quando l’elettricità c’era, non abbiamo usato i condizionatori per scaldarci, perché altrimenti sarebbe entrata nelle stanze l’aria esterna. Abbiamo usato soltanto una piccola stufa e abbiamo evitato di aprire le finestre. Oggi, con il senno di poi, posso dire che forse tante precauzioni non erano necessarie. Ma l’incertezza della situazione non era certo facile da sopportare. Una sera che non ne potevamo più abbiamo chiamato a raccolta qualcuno dei nostri vicini di casa e alla luce delle candele abbiamo arrostito dei bocconcini di carne. A un certo punto, qualcuno ha raccontato che il nostro amico artista della sopravvivenza, per chissà quale motivo, aveva fatto scorta esclusivamente di burro, e ne aveva preso tantissimo. Al che siamo scoppiati tutti in una sonora risata. Su queste storie ho anche un articolo e nel luglio del 2011, quando ho vinto il premio Capri, l’ho letto in occasione della cerimonia. È stata una sensazione davvero strana far rivivere nella luce di un tardo pomeriggio assolato sull’isola italiana quella serata fredda e buia a Tokyo. Da allora faccio di continuo un sogno singolare. Ci sono diverse casse nere, una accanto all’altra, e soprattutto la seconda cassa è avvolta da una nebbia nera. Io osservo ogni volta la scena da una grande altezza. All’inizio mi sono chiesta se fosse un cimitero, ma poi ho capito che si trattava di una centrale nucleare. Nel mio sogno vedo Fukushima che lotta con la morte. Posso soltanto sperare, e quindi spero, con tutto il cuore. A proposito dell’energia nucleare, non posso dimenticare che per noi di Tokyo la corrente elettrica della centrale di Fukushima era una benedizione. Ma anche se la tecnica fosse in grado di dominare al cento per cento l’energia nucleare, questo è chiaramente impossibile per quanto riguarda il funzionamento delle centrali. I rischi sono incalcolabili, anche perché sono in gioco interessi diversi, ma tutti potenti. Questo significa che oggi la sicurezza delle centrali non è garantita. L’ho capito davvero solo grazie al disastro di Fukushima. Ecco perché, anche se non è facile, occorre sostituire l’energia nucleare con energie alternative, e le centrali ancora in funzione vanno prima di tutto rese più sicure, poi vanno chiuse. La mia collega scrittrice Randy Taguchi mi ha raccontato che a Černobyl alcune persone, soprattutto anziani, sono volute rimanere a casa e ironicamente, poiché non spruzzano più pesticidi, sotto la loro protezione le terre coltivabili torneranno a essere uno dei posti più puliti del pianeta. Randy c’è stata diverse volte e se ne è accertata personalmente. Quanto a me, nutro grandi speranze che un giorno anche le regioni contaminate del Giappone torneranno com’erano prima. Forse il mio ottimismo è eccessivo, ma credo che noi esseri umani sottovalutiamo la capacit. della natura di rigenerarsi. Certo, dovremo convivere per un certo tempo con molte cose fortemente contaminate: pesci, molluschi, alghe marine, ortaggi, la supericie del suolo, le foglie morte, le pensiline e le mura esterne degli ediici, le macerie. Ma chissà se tutto non si risanerà ancora più rapidamente di quanto speriamo. Naturalmente mi preoccupo moltissimo per mio iglio. A casa nostra abbiamo installato un iltro dell’acqua, e faccio sempre molta attenzione ad acquistare soltanto ortaggi e uova non contaminati dalla radioattività. È molto importante, ma non posso fare molto di più. Cerchiamo semplicemente una vita che sia il più possibile normale. Dovete sapere che io sono una fan dei film dell’orrore. Il mio preferito è Zombi, un film degli anni settanta diretto da George A. Romero. La storia è questa: grazie a una misteriosa radiazione i morti tornano in vita e attaccano i vivi. Non appena un essere umano viene morso da uno zombi, si trasforma anche lui in uno zombi. Per ucciderli definitivamente c’è un solo mezzo: distruggergli il cervello. Questo è possibile con l’aiuto delle forze armate e di milizie civiche che salvano l’umanità dallo sterminio. Ma il numero degli zombi continua ad aumentare. I protagonisti del film sono due amici, un nero e un bianco, entrambi ex poliziotti appartenenti a un’unità speciale, più un giornalista e la sua fidanzata incinta, che lavorano entrambi per un’emittente tv e sanno anche pilotare un elicottero. Durante la loro fuga dagli zombi, si barricano dentro un enorme centro commerciale e lì, in quell’isolamento, cominciano a condurre una vita di eccessi. Va tenuto presente che il film è ambientato in un periodo di espansione economica, quando nella società statunitense, malgrado la profonda insicurezza causata dalla guerra del Vietnam, dominava l’abbondanza di beni materiali, e le persone si preoccupavano soprattutto del proprio benessere. Ora, siccome nel mondo esterno gli zombi si moltiplicano rapidissimamente, i nostri eroi non possono più uscire dall’edificio. La sensazione di essere rinchiusi si fa sempre più insopportabile, ma loro cercano di vincerla. Finché un giorno fa irruzione nel loro territorio una banda di teppisti. Alla fine restano vivi soltanto il nero – all’epoca i neri erano vittime delle discriminazioni molto ma molto più di oggi – e la ragazza. In altre parole, le persone deboli e vulnerabili. Il nero, che ha perso il suo amico, non vede più un futuro davanti a sé e vuole uccidersi. Accerchiato dagli zombi, si punta la pistola alla testa. Ma improvvisamente viene colto dall’istinto di sopravvivenza e decide invece di sparare a uno zombi. Si scrolla di dosso tutti gli altri, sale sul tetto e corre verso l’elicottero, che la ragazza incinta ha già messo in moto. L’elicottero si alza da terra e vola via. Quando lui le chiede quanto carburante sia rimasto nel serbatoio, lei risponde: «Non molto». E lui di rimando: «Benissimo». Quel commento non suona né rassegnato né particolarmente ottimistico. Il nero ci sta semplicemente dicendo che inché c’è vita c’è speranza. Non tutto è perduto. Quando ho visto questo film per la prima volta andavo ancora alle elementari. Mi ha fatto un’impressione tale che ha cambiato il mio modo di vedere il mondo. Una persona cara che è morta torna in vita ma non è più umana. Con sguardo inespressivo come quello di uno squalo ti viene incontro e ti vuole divorare. Per salvarti la vita non ti resta altro che sparargli in testa anche se le vuoi bene. In un mondo così estremo sono ancora possibili il rispetto reciproco e la dignità umana? Secondo me il vero tema del film è questo interrogativo, a cui dà una risposta chiara: sì, anche di fronte all’estremo, l’essere umano riesce a non diventare un mostro e a conservare la sua dignità. Nel film si ripetono ininterrottamente notizie che arrivano dal mondo esterno. I conduttori di programmi televisivi, che non escono più dai loro studi, riferiscono sempre degli stessi spaventosi avvenimenti e moderano discussioni senza senso. Poco tempo dopo il terremoto, esattamente come nel film, la tv giapponese ha mandato in onda e commentato ininterrottamente immagini tutte uguali: lo spaventoso tsunami, la centrale nucleare in avaria, ancora e ancora. Io ero terrorizzata e pensavo: sto vivendo una situazione identica a quella di Zombi. In questi dodici mesi che sono trascorsi dal terremoto ho conosciuto molte persone che hanno perso la fiducia nel futuro e vivono rassegnate. Quando uno prende la decisione di cominciare una nuova vita in un posto nuovo, almeno ha ancora una speranza. Io invece vedo persone che si trascinano nella vita quotidiana con volto inespressivo, persone che di colpo si precipitano fuori e cominciano a litigare con dei perfetti estranei, che non escono più di casa; che ormai riescono a pensare solo alle radiazioni e alle loro conseguenze. In giro, di persone così, ce ne sono molte. Quando vado a passeggiare nei giardini pubblici, vedo madri che con contatori geiger presi a prestito misurano il livello di radioattività della sabbia e nel suolo del parco giochi. “Qui è ok. Questo quartiere mi sembra abbastanza sicuro, no?”, si dicono tra loro come stessero parlando del tempo che fa. E io penso: non rinunciate a vivere, continuate a lottare! Come gli eroi del ilm. Per fortuna ci sono anche tante persone meravigliose. Persone che danno una mano dovunque possono; persone di cui ci si può idare; persone che pur avendo perso tutta la famiglia non hanno perso il coraggio di vivere. Per come la vedo io, a Tokyo si osservano due reazioni chiaramente distinguibili. Per alcuni, la catastrofe è stata un’opportunità per ripensare a tutta la propria vita: queste persone sono diventate più gentili, più aperte, più disponibili. Altri, che hanno ancora il terrore nelle ossa, si sono rinchiusi in se stessi, hanno modi bruschi e sono diventati più rigidi. Io però voglio vivere e scrivere in questa città. Spero con tutto il cuore che Tokyo ritorni alla normalità, che il Giappone diventi un paese bello, paciico, impegnato nella protezione della natura e dell’ambiente, e che i suoi abitanti imparino di nuovo a vivere un po’ più semplicemente. E così come c’è chi fa coraggio a me, anch’io voglio fare coraggio agli altri e rimanere fedele alla mia amata terra. Anche se ognuno si comporta in un modo diverso, non c’è dubbio che la maggioranza dei giapponesi sia molto preoccupata per la contaminazione radioattiva. E a ragione. Visto che le misurazioni efettuate in vari luoghi continuano a restituire valori molto alti, è importante lavare bene le verdure, bere acqua non contaminata e tenere sempre d’occhio i dati che vengono pubblicati. Io mi porto dietro un apparecchio che registra tutte le radiazioni assorbite dal mio corpo lungo tutto l’anno, e quando vedo su internet che il carico di radiazioni nell’ambiente è particolarmente elevato, esco di casa solo con la maschera protettiva. Ma adottare precauzioni eccessive e andare in giro tutti i giorni con una maschera mi sembra discutibile come essere irresponsabili, vivere solo nel presente e dire «Tutte sciocchezze!». Bisogna essere consapevoli del pericolo e prendere delle precauzioni, ma al tempo stesso cercare di evitare che i propri pensieri e sentimenti siano completamente dominati dalla situazione. Insomma, cercare di mantenere la testa libera. L’energia nucleare non è certo desiderabile e secondo me è importante passare a quelle alternative. Ma il problema è che il governo esita e per giunta ha rapporti stretti con l’industria. D’altra parte, il movimento antinuclearista a volte mi sembra troppo aggressivo. È come se di colpo, attraverso i dibattiti sulle centrali nuclea ri, gli aspetti negativi e discutibili del Giappone siano diventati evidenti a tutti. La situazione appare caotica, quasi disperata. Per me, l’unica speranza è rappresentata dagli abitanti di Fukushima che non hanno voluto rinunciare alla loro terra e hanno detto chiaro e tondo al governo quello che pensano. Ma anche dagli scienziati che si dedicano alla ricerca sulle fonti energetiche alternative e tentano in ogni modo di arginare le radiazioni. Il nostro nuovo cagnolino è nato dopo il marzo del 2011. Viene da Saitama, quindi ha certamente assorbito una dose elevata di radioattività. Il latte materno, il cibo, il suolo, tutto sarà stato molto più radioattivo di prima del disastro. E così quando gli preparo la pappa ci metto un po’ di fuco, funghi e lievito di birra, che a quanto pare agevolano l’eliminazione delle sostanze nocive. Questo è il compito di una madre. Con mio figlio faccio la stessa cosa. Voglio che entrambi crescano sani e diventino forti. Dopo il disastro ho fatto tutto il possibile per guardare avanti e afrontare con nuovo slancio ogni nuovo giorno. Ci sono riuscita abbastanza bene, ma non potevo certo reggere il confronto con quel cucciolo, che era al mondo da appena qualche mese! Ha retto bene alle vaccinazioni, così inalmente ho potuto portarlo fuori. Era autunno, il cielo era alto e azzurro, soiava un’arietta fresca… il tempo ideale per lunghe passeggiate. Il cucciolo saltellava con tanto slancio che s’impigliava di continuo nel guinzaglio e abbaiava a pieni polmoni. Una farfalla che svolazzava, le foglie che stormivano al vento, le automobili, altri cani, vecchi signori, bambini in carrozzina, tutto suscitava la sua attenzione. Allora mi guardava con due occhi scintillanti che sembravano dire: “Che divertimento! Ma quant’è bello ed entusiasmante il mondo! Non avrei mai creduto che esistesse qualcosa di così fantastico. Che fortuna essere nato!”. Sprizzava una gioia di vivere esuberante e incontenibile, tanto che a un certo punto ho provato dentro di me un enorme rispetto per quel piccolo essere vivente. La bellezza non è scomparsa del tutto. Caro mondo, scusa tanto ma come vedi anch’io sono contenta di esserci, di vivere tante cose belle e di potermi godere il momento presente. Davvero! Guardavamo il cielo entrambi, il cane e io. Avevo gli occhi che luccicavano. Lassù, da qualche parte – immaginavo – dev’esserci qualcuno che ascolta le mie parole mute.