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 2012  marzo 08 Giovedì calendario

A vent’anni di distanza dalla fallimentare esperienza della Rete - L’infelice Palermo ri­schia di tornare tra le grinfie di Leoluca Orlando, l’ex sinda­co degli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo che pare voglia ricandidar­si primo cittadino

A vent’anni di distanza dalla fallimentare esperienza della Rete - L’infelice Palermo ri­schia di tornare tra le grinfie di Leoluca Orlando, l’ex sinda­co degli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo che pare voglia ricandidar­si primo cittadino. Leoluca conte­sta la vittoria alle primarie del Pd di Fabrizio Ferrandelli, outsider e ri­belle dell’Idv (lo stesso partito di Leoluca), che ha battuto di poco Ri­ta Borsellino, candidata ufficiale della triade Pd-Idv-Sel, e da lui so­stenuta. Al solito su di giri, ha rilasciato un’infuriata intervista in cui insi­nua - insinuare è il suo mestiere ­che Ferrandelli, (complice Raffae­le Lombardo, il governatore), ab­bia indotto un plotone di mafiosi a votarlo dietro pagamento. Testual­mente: «Ci sono state cose strane nei quartieri Zisa, Piazza Indipen­denza, Borgonuovo». Zone, pare, ad alta densità mafiosa. Sentire questo e tornare a vent’anni fa, è stato tutt’uno. Or­lando non si smentisce. L’accusa agli avversari di raccogliere voti nei quartieri mafiosi per insinuare che siano mafiosi pure loro, è stata la sua tecnica per decenni. Subì il trattamento anche Claudio Mar­telli, un milanese che per sfizio nel­l’ 87 si candidò per la Camera a Pa­lermo. Martelli se la legò al dito e re­stituì la pariglia: quando Orlando nel ’93 fu eletto sindaco per la se­conda volta denunciò urbi et orbi che aveva fatto il pieno di voti nei quartieri delle coppole: Kalsa, Zen, Ciaculli. Dovunque passi, Or­lando avvelena le acque e abbassa sottozero i rapporti umani e politi­ci. Comunque, per concludere la storia della sua ira per le primarie, ha sibilato: «Non possiamo lascia­re il futuro di Palermo a Raffaele Lombardo, a un inquisito per voto di scambio con i mafiosi», lascian­do intendere che potrebbe candi­darsi lui, esempio di virtù, alla gui­da della città. Il Signore abbia pietà del capoluogo siciliano. Leoluca è legato a diverse stagio­ni palermitane. La più nota, è quan­do, lasciata la Dc, si riciclò in anti­mafioso intransigente, fondò la Re­te e inaugurò la cosiddetta «prima­vera di Palermo». Un inferno: tutti sospettavano di tutti, fu un conti­nuo di denunce, di trabocchetti e il trionfo del professionismo dell’an­timafia. A ispirare Leoluca, il gesui­ta Padre Pintacuda, un Che Gueva­ra in tonaca, suo insegnate al liceo. Il sodalizio durò un paio di lustri al­l’insegna del motto pintacudiano, «il sospetto è l’anticamera della ve­rità » e finì a pesci in faccia. Anni do­po, in un’intervista il gesuita disse di Orlando e della Rete: «Pensavo di avere formato degli statisti, mi sono ritrovato con dei nani». Finché è stato in auge- prima di sciogliere la Rete, cadere nel di­menticatoio, passare con Rutelli, farsi cacciare e approdare da Di Pietro (2006)- Leoluca ha fatto tut­ti guai possibili. Ruppe perfino l’amicizia con Giovanni Falcone, seccato perché aveva arrestato Ciancimino che faceva affari con la sua prima giunta (1985-1990). Fu lo stesso Falcone a farne cenno al Csm che lo convocò dopo le inau­dite accuse di Orlando contro di lui. Le cose andarono così. Nel maggio del 1990, a Samarcanda da Santoro, comparve Leoluca col ciuffetto più indisponente del soli­to e disse che il magistrato teneva «nel cassetto» le prove contro An­dreotti e il suo factotum nell’isola, Salvo Lima. Additando così Falco­ne al pubblico ludibrio. Era la ven­detta di Orlando perché il giudice, ascoltato un pentito che accusava Andreotti di mafiosità (insufflato dai professionisti dell’antimafia), anziché dargli retta lo aveva incri­minato per calunnia. Inoltre, gli or­landiani andavano dicendo che l’attentato subito da Falcone nella villetta estiva dell’Addaura se l’era fatto da sé per farsi pubblicità. Il Csm volle vederci chiaro e con­vocò Falcone. Nell’audizione,il ca­stello orlandiano crollò e Giovan­ni disse di Leoluca: «Fa politica at­traverso il sistema giudiziario. Sa­rà costretto a spararle sempre più grosse. Per ottenere ciò che voglio­no, lui e i suoi amici sono disposti a passare sui cadaveri dei loro geni­tori. Questo è cinismo politico. Mi fa paura». Falcone aggiunse: «Mi stanno delegittimando. Cosa No­stra fa così: prima insozza la vitti­ma, poi la fa fuori». Sei mesi dopo, infatti, fu am­mazzato. Orlan­do si presentò al funerale af­franto. La sorel­la di Falcone, Maria, loaffron­tò: «Hai infan­gato il nome, la dignità l’onora­bilità di un giu­dice integerri­mo ».«È una co­s­a che mi fa mol­to male», pia­gnucolò l’altro. Questo non gli impedì di ri­caderci nel ’95, sempre da San­toro, a Tempo reale , accusan­do in diretta il maresciallo, Antonino Lom­bardo, di esse­re colluso con la mafia. Era la solita falsità. Due giorni do­po, l’informatore del maresciallo fu trovato incaprettato. Lombardo lasciò passare una settimana poi, impaurito e solo, si uccise. Per le sue calunnie, Orlando non ha mai pagato, salvo una condanna defini­tiv­a per diffamazione di alcuni con­siglieri comunali di Sciacca accu­sati, al solito, di mafia, ma del tutto innocenti. Gli è costato qualche de­cina di migliaia di euro. Niente ri­spetto ai veleni che ha diffuso nella vita. E dire che era nato dc, figlio di Or­lando Cascio ( «tra quelli che più or­ganicamente e stabilmente hanno espresso il potere mafioso..», pag. 578 della Relazione Antimafia di minoranza), e che, diventato sin­daco dc la prima volta, andò subito in pellegrinaggio da Salvo Lima per ringraziarlo. Ah, avere lo spa­zio per dirle tutte...