Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 15 Giovedì calendario

Nel male e nel Bene (colloquio con Carmelo Bene di Giancarlo Dotto) In una registrazione ritrovata per caso, i gusti letterari del grande genio del teatro italiano

Nel male e nel Bene (colloquio con Carmelo Bene di Giancarlo Dotto) In una registrazione ritrovata per caso, i gusti letterari del grande genio del teatro italiano. Dal detestato Goethe al noioso Beckett, agli amati Kafka e Joyce Dieci anni dopo la sua morte, l’ho trovato in fondo a un cassetto. Un vecchio nastro. Un Carmelo Bene inedito che si diffonde sulle sue predilezioni e repulsioni letterarie, in fondo a una delle tante notti insonni nel suo eremo di Otranto, estate del 1997. Dell’opera di Bene si sa e si è scritto tutto, tranne l’indispensabile. Ancora prima che reinventare l’attore a teatro, ancora prima che ripensare il cinema e la tv, la letteratura e il verso, dislocare la voce dal corpo, il suono dal significato e l’atto dall’intenzione, la sua impresa, certosina, implacabile, è stata quella di diventare Carmelo Bene. E cioè mito a se stesso, mito tra i miti, di un mitomane nato. Che, da bambino, andava a frugare sotto le vesti delle Madonne di cartapesta, in attesa di diventare la loro apparizione preferita. Quella notte iniziammo a parlare di miti sportivi, da Edberg a Van Basten e finimmo a parlare di miti letterari. Cominciamo dai tedeschi e da Goethe. Risulta che non l’hai mai amato. Il tuo "Faust" a teatro è quello di Marlowe. "Lo trovo troppo esemplare Goethe. Troppo esemplare e a sproposito. È anche per questo che André Gide lo stronca come si deve nelle sue note sull’"Egmont". Peraltro stroncato per la concertistica anche dal suo amico Schiller, un altro poco interessante nei suoi conflitti morali". Virando in positivo? "M’interessa molto Von Chamisso. Il suo "Peter Schlemihl" è il Faust più grande, dove l’anima da perdere è l’ombra. Gigantesco. Aggiungo il Rilke delle "Elegie Duinesi"". Aspetterei una citazione del tuo Hölderlin. "Sono d’accordo con don Benedetto Croce: per trovare una perla in Hölderlin bisogna scorrere tante cose cristologiche o teocratiche. L’ho anche tradotto, io. Dio mi perdonerà. No, non mi perdona perché non c’è. Sono io a perdonargli l’assenza. Certo, dove svetta, Hölderlin, svetta su tutti". Ci sarebbe poi un boemo di lingua tedesca. "Su tutti, non ci piove, inarrivabile, Franz Kafka. Ho cominciato a leggerlo a quindici anni, ma non ero pronto. Troverò prima o poi il tempo di stilare un mio saggio sul "comico" in Kafka. E, quando parlo di comico, non intendo la consolazione del riso, ma il cianuro del porno". Continuiamo il gioco. Siamo in Spagna. "E qui non si finisce mai. La leggo in lingua la letteratura spagnola. Dico Gongora, Quevedo, Antonio Machado. Naturalmente Pedro Calderón de la Barca". Tirso de Molina, il prete drammaturgo? "Non m’interessano i teatranti". Cervantes? "Ovvio. Non solo quello del "Don Chisciotte", ma anche "Vetrada", il dottore che si crede fatto di vetro e vive nel terrore di essere infranto, da cui il mio omaggio teatrale negli anni eroici delle cantine". García Lorca? "Cose per la maggior parte da buttar via, pur essendo Lorca tra i più grandi simbolisti. Prendo quello del "Paesaggio americano". Ci metto, il filosofo Unamuno con i suoi limiti. Nel suo commento "Don Chisciotte e Sancio Panza" ci sono cose interessanti". È il momento per affrontare i portoghesi. "Portoghese è il mio romanziere preferito: Josè Eza de Queiroz. Il suo "Illustre casata Ramires" è un ceffone alla nobiltà, uno schiaffo all’araldica, di una desolazione sconfinata, le atmosfere gelate dei film di Joao Monteiro. De Queiroz è uno dei miei dieci autori prediletti". Con i francesi il discorso si fa sterminato. "Inizio da François Villon a Rabelais, per restare nel Cinquecento. Se poi si passa al Sette-Ottocento, si va ai pazzi. Emile Zola in primis. La bestia umana, una crudezza inaudita, il fango al fango. Lo metto tra i dieci assoluti". Più di Flaubert e Maupassant? "Assolutamente. Di Flaubert prendo quello dei "Racconti" più che "Bovary" e "Salambò". E poi tanto Balzac. Anche qui non dico "Papà Goriot" ma "Sarrasine", quindici paginette e un miracolo della penna. Il mio francese preferito è, però, Villiers de L’Isle-Adam. Lo amo da sempre. E poi Sade, chiaramente. Come si fa a non citarlo?". Tra Baudelaire, Verlaine e Rimbaud? "Dico Tristan Corbiere, più di Verlaine e di Rimbaud, più di qualunque altro poeta francese. Certo, a me il più affine. Dico Gerard de Nerval, tanto in versi quanto in prosa. Di Baudelaire prendo, oltre a "Les fleurs du mal", il suo interessamento a Poe e a Delacroix". Nella casa romana hai l’opera completa di Stendhal. "Cinquanta tomi. Non tanto e non solo "Il rosso e il nero" o "La Certosa", a cominciare da quando, diciassettenne, scriveva le sue prime recensioni musicali, i suoi studi su Rossini". Con i francesi non si finisce più. È quasi l’alba e mancano gli inglesi, i russi, gli italiani. "Qui rischiamo il manicomio. Con gli inglesi ci perdiamo del tutto. Da Chaucer alla grande vendemmia elisabettiana, Marlowe, Shakespeare, fino a John Donne, sopra tutto e tutti. Lo stesso Oscar Wilde, quello grandissimo de "La ballata del carcere di Heading"". La tua più grande dichiarazione d’amore l’ho sentita però per un dublinese. "L’"Ulisse" di Joyce fu la svolta dei miei anni giovanili. Nulla fu più come prima. Illeggibile nella versione francese di Valery Larbaud e dello stesso Joyce, ci vuole la traduzione italiana di Giulio de Angelis per riscattarlo. L’inglese moderno deve tutto a un irlandese come Joyce e a un americano come Ezra Pound. Irlandese d’origine era l’enorme Jonathan Swift". Lo stesso Bernard Shaw. "Non mi riguarda molto. Come non mi riguarda Samuel Beckett. Lo capisco talmente che non m’interessa". Parliamo di Walt Whitman, per entrare nel mondo anglo-americano. "Non m’interessa. C’è piuttosto Henry James, in quanto rovescio di Joyce. C’è soprattutto il sublime Nathaniel Hawthorne, non tanto nella "Lettera scarlatta" ma nei racconti. Ha ragione Borges a consigliarli. Melville gli dedica il suo "Moby Dick"". C’è il grande Francis Scott Fitzgerald. "L’infinito Francis Scott Fitzgerald. Un fratello per me. Uno che nega il tempo, non c’è infanzia, con lui non si è mai nati. Prendo i suoi romanzi brevi, "Il prezzo era alto" su tutti. Una penna magistrale che, a tratti, parrebbe giornalistica tanto butta giù rapido. Superbo e insuperato". Ernest Hemingway? "Appartiene al grande giornalismo. M’interessa molto, ma molto meno di Fitzgerald". Gli scrittori e poeti della Beat Generation? "A morte. Tutti da fucilare. Corso, Ferlinghetti, Ginsberg. Il William Burroughs del "Pasto nudo". Kerouac? Ha scritto delle cosine meno gravi, ma se ne può fare a meno benissimo. La Beat Generation è stata sopravvalutata, Come la Nouvelle vague francese. Godard mi fa schifo, come tutto il cinema francese". Charles Bukowski. Mai incrociato? "Ma sì, come Nabokov. Li ho aperti e chiusi. Non c’è tutto questo tempo disponibile. Lo stesso "Zivago". Sono un ammiratore di Boris Pasternak, ma l’ho lasciato a metà. Però ha ragione Majakovskij: "Chi non conosce il russo perde due cose, Puskin e Pasternak". Restando in terra russa, preferisco Gogol a Gorkij". L’italiano da affinità elettive? "Il più grande, a tutt’oggi, rimane Matteo Maria Bandello, il novelliere. Ma, la manzoniana "Storia della colonna infame" è forse il più grande libro di tutta la letteratura italiana d’ogni tempo. Più della "Vita Nova", più d’ogni cosa. È un miracolo scritto da un cattolico". Il tuo Dante? "È come Chaucer o Shakespeare per gli inglesi. Pozzi senza fondo, troppo vasti per parlarne, tali che a un certo punto si smarrisce anche la tua deferenza. Certo, tra i poeti italiani il sommo resta Dino Campana. Nessuno, nemmeno Leopardi, arriva ai "Canti orfici"". Abbiamo omesso qualcosa di fondamentale? "Ho taciuto "Cime tempestose" che è l’opera romantica più importante d’Europa, e forse non solo romantica. Georges Bataille mette quello di Emily Brontë fra gli undici libri della storia umana. Sono d’accordo". C’è n’è abbastanza perché possa anche tu stilare il tuo santuario della letteratura di ogni tempo. "L’"Iliade" in testa a tutto. Ecco, lì c’è il bacio della Grazia in fronte all’orbita vuota di chi l’ha scritta. Si chiami Omero o qualsivoglia, l’"Iliade" è follia pura, nella versione di Einaudi. Tutte le altre sono da cestinare. A seguire ci metto l’"Ulisse" di Joyce e poi "Cime tempestose". Franz Kafka tutto, anche avesse scritto solo la "Descrizione di una battaglia", un raccontino. Basterebbe qualunque pagina di Kafka. Di Zola abbiamo detto". Si è fatta l’alba e non abbiamo toccato i latino-americani. "Ne parleremo alla prossima veglia".