Umberto Ambrosoli, Corriere della Sera 08/03/2012, 8 marzo 2012
L’ATTO EROICO (E SCONOSCIUTO) DEL COMMERCIALISTA COLI - L’ 8
marzo del 2004 Ausonio Coli ha 47 anni; dall’unione con la moglie, Silvana, sono nate due figlie: Angela, che ha venti anni, Emma, che attende di compierne sei.
La famiglia vive a Porto Ercole, lui fa il pendolare con Grosseto, ove lavora come dottore commercialista. La sua attività professionale è fatta per lo più di perizie per il Tribunale, incarichi di curatore fallimentare, di revisore contabile per alcuni comuni della Maremma. Da libero professionista ha scelto di dedicarsi in principalità al pubblico interesse, trovando nella tutela di esso ragione di entusiasmo e fierezza. Nel lavoro e nella vita è preciso, umile, determinato e responsabile (caratteristica che colpì la futura signora Coli quando conobbe Ausonio ai tempi dell’università). «Gli ostacoli lo hanno sempre stimolato — spiega la moglie — e forse gli piaceva anche dimostrare che non si possono aggirare, atteggiamento che lo mandava su tutte le furie».
La signora Coli parla all’imperfetto perché l’8 marzo del 2004, alle 13.30, Ausonio Coli è nel suo studio di Grosseto quando tre colpi di pistola lo uccidono.
Stava svolgendo l’incarico di curatore fallimentare di una società che commerciava veicoli. Il fallimento era stato dichiarato più di un anno dopo la morte del socio accomandatario: con ciò il patrimonio personale di costui era inaccessibile alla massa dei creditori sociali. Il dottor Coli, interpretando con intelligenza e rigore il proprio mandato, era però riuscito ad ottenere una sentenza che estendeva il fallimento anche al figlio del socio accomandatario, poiché questi aveva di fatto svolto il ruolo di amministratore della società: l’estensione non solo assicurava alla massa dei creditori sociali il patrimonio personale dell’uomo, ma rendeva pure aggredibile l’eredità giacente del socio defunto.
A sparare è stato proprio il destinatario della sentenza di estensione del fallimento, poche ore dopo aver ricevuto la notifica della stessa, mosso dal risentimento nei confronti del professionista che ai suoi occhi in quel momento incarna, per usare le parole della Corte d’Assise d’Appello di Firenze, «quel richiamo alle norme e alle responsabilità civili alle quali l’imputato tenta invano di sottrarsi».
La storia di questo professionista non è famosa: forse perché ambientata nella tranquillizzante normalità di una piccola provincia, o in quanto lontana da scenari di grandi poteri e loschi intrighi e, quindi, facilmente classificabile come un fatto di criminalità fra tanti. Una ricerca su internet consegna un paio di manciate di articoli dalle pagine della cronaca di giornali di provincia, poco più. Un piccolo doloroso libro ha raccolto i pensieri di elaborazione del lutto della moglie.
Eppure è una storia importante, emblema non tanto del rischio che corre un professionista (prima e dopo Ausonio Coli altri hanno incontrato il medesimo destino), ma di come sia sempre in agguato la facile fuga dalla propria responsabilità attraverso l’aggressione di chi esercita appieno la sua responsabilità.
Potremmo soffermarci sul dolore di una moglie, di una figlia grande, di una bambina di cinque anni che apprende della morte del padre dall’imbarazzo di due poliziotti. Potremmo scoperchiare il vaso delle nostre emozioni pensando all’assurdità di familiari costretti ad immaginare gli ultimi minuti della vita del loro caro attraverso perizie autoptiche e balistiche. O possiamo, come molti fanno, trovare nella storia di Ausonio Coli uno stimolo in più per vivere a fondo le nostre responsabilità, contribuendo a dare l’esempio che gli ostacoli si affrontano, non si aggirano.
Umberto Ambrosoli