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 2012  marzo 08 Giovedì calendario

«UN MONTI BIS? VISIONE PESSIMISTICA. CHI VINCE ALLE URNE CREI LA MAGGIORANZA»

«Non c’è nessun pericolo Hollande, il rischio vero che corre l’Europa è la mancanza di visione. L’assenza di un impegno per la crescita. Il deficit di solidarietà che ci ha fatto scrivere in Grecia una pagina vergognosa. Sono i conservatori a penalizzare l’Europa, non Hollande o Gabriel».
Massimo D’Alema è reduce da Parigi dove ha lavorato al testo del Manifesto dei progressisti. Racconta come i socialisti francesi abbiano apprezzato l’immediata smentita di Mario Monti all’articolo di Der Spiegel sulla congiura anti Hollande delle cancellerie europee. Ma racconta soprattutto che idee ha per sbloccare il confronto politico in Italia: fine del bipolarismo selvaggio, nuova legge elettorale, il leader di partito che vince ha il compito di costruire in Parlamento le convergenze programmatiche per governare.
Partiamo da Parigi. Sia Hollande che il leader dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel parlano di aumentare le tasse. Dov’è la novità?
«La grande massa di europei che stanno pagando la crisi sulla loro pelle non teme la Tobin tax, anzi chiede una diversa distribuzione della fiscalità. Sono i gruppi finanziari ad averne paura e a tentare di ostacolare il ritorno dei socialisti. Il manifesto di Parigi è europeista, lega l’integrazione alle politiche di sviluppo. È un passo avanti, non indietro».
Insisto. Non state riproponendo una ricetta «tassa e spendi»?
«Le migliori performance nella riduzione della spesa e nelle liberalizzazioni vengono dai progressisti. Le ricordo cosa hanno fatto i governi di centrosinistra in Italia, ma anche Schröder in Germania. Le riforme liberali quando si sono fatte hanno avuto il nostro imprinting, non quello delle destre. Sento dire che Hollande non sarebbe affidabile, ma affidabile per chi? La finanza internazionale e le destre, che hanno portato alla disastrosa crisi attuale, pretendono di dare i voti agli altri? La squadra di Hollande, poi, vanta persone come Moscovici e Sapin che assicurano competenza ed equilibrio».
Il Manifesto di Parigi punta anche a rimettere in campo la politica estromessa dai mercati. Vasto programma...
«Non si può governare solo adottando scelte tecniche efficaci. Occorre una visione del futuro e un progetto in grado di coinvolgere e convincere i cittadini. E questo può venire solo dalla politica. Nella crisi hanno retto meglio i Paesi che hanno sistemi politici e partiti più forti, come la Germania».
Anche lei è di quelli che nel Pd hanno mal di pancia verso il tecnocrate Monti?
«Neanche un po’. Avevamo chiesto un governo come quello presieduto da Monti e non abbiamo indicato il nome del professore solo per rispetto delle prerogative del Quirinale. Non è stato imposto ai partiti e certamente non a chi, dall’opposizione come Pd e Terzo polo, chiedeva un governo di responsabilità nazionale. E da Palazzo Chigi sta facendo ciò che è necessario per l’Italia. Detto questo è legittimo che chi fa politica si adoperi a progettare il dopo Monti».
C’è chi come Scalfari sostiene che invece di pensare al dopo, Napolitano e Monti vanno invitati a restare.
«Una proposta così nasce da una visione pessimistica dell’Italia. Si pensa a un nuovo quinquennio emergenziale. Io no, credo che si possa tornare a una dialettica democratica, naturalmente riformando la politica e restituendole autorevolezza, credibilità e forza».
Monti comunque, secondo i sondaggisti, vincerebbe sia le primarie del Pdl che quelle del Pd.
«Sono esercitazioni astratte. E comunque nel momento in cui si schiera, anche il migliore dei tecnici si aliena il consenso di una parte degli elettori».
Si ha l’impressione che mentre nella stagione degli anni 90 i progressisti sentirono proprio il presidente Ciampi, con Monti non sia scattata la stessa empatia.
«Sono figure diverse tra loro. Ciampi veniva dal Partito d’azione, aveva una storia politica affine alla nostra. Monti lo definirei una personalità non partisan e sarebbe un errore tirarlo da una parte o dall’altra».
Per progettare il dopo Monti ci vuole un’idea. È ancora valida la sua proposta di unire il 60% dell’elettorato grazie a un patto con il Terzo polo?
«Rimane valida. Penso che per risolvere il rebus bisogna uscire dall’idea egemone degli ultimi venti anni, quella che portava a costruire coalizioni e a mettere in secondo piano le coerenze programmatiche. Basta con un’interpretazione frontista del bipolarismo che ha portato le forze politiche a delegittimarsi, a frantumarsi e ad assicurare una bassa governabilità. Le ammucchiate generano cattiva politica».
Sta dicendo che il Pd piuttosto che disegnare coalizioni deve puntare a cambiare la legge elettorale?
«Prima di discutere di alleanze, il Pd deve prendere coscienza di sé, del proprio ruolo di partito nazionale e approfondire il progetto per l’Italia. Poi, certo, occorre riformare legge elettorale e istituzioni, uscendo dal pasticcio che ha mirabilmente descritto Sartori. Se siamo nel campo della democrazia parlamentare, come effettivamente è, dobbiamo far sì che i partiti possano chiedere il voto per sé e non per gli alleati. Chi vince avrà il dovere di ricercare le necessarie convergenze programmatiche. Se invece si vuole che il capo del governo sia eletto dal popolo, bisogna avere il coraggio di proporre il presidenzialismo, con tutti gli equilibri e i contrappesi necessari. Ci vuole una scelta limpida. I pasticci non hanno funzionato».
Affidare alla dialettica parlamentare la creazione delle maggioranze aumenta la distanza con gli elettori che danno ai partiti un mandato in bianco.
«Anche gli inglesi, abituati al maggioritario, non hanno trovato sulla scheda la coalizione Cameron-Clegg. Il primo ha vinto e ha costruito l’alleanza con i liberali. In tutti i Paesi democratici è il maggior partito che ha il compito di costruire una maggioranza parlamentare. E quale sia il maggior partito lo decidono gli elettori. Il sistema attuale enfatizza il potere di ricatto delle forze minori, con gli effetti negativi che abbiamo misurato in questi venti anni. Ci sono due modi per evitarli, lo ripeto da tempo: il doppio turno, oppure, se non lo si vuole, una legge elettorale del tipo di quella tedesca, con opportuni correttivi».
Nella variante tedesca la premiership sarebbe negoziabile tra i partiti che compongono il governo?
«In nessun Paese la premiership va al leader di un partito minore. Ogni partito porta un suo candidato, quello che prende più voti è automaticamente il futuro premier con la responsabilità di formare un governo».
Sembra un vestito costruito su misura di Bersani. A meno che il candidato del Pd non venga scelto con nuove primarie.
«Bersani è stato eletto con un voto popolare al quale hanno partecipato oltre 3 milioni di persone. Chi volesse sostituirlo — e non sono tra quelli che lo chiedono — dovrebbe seguire lo stesso iter: congresso e primarie. A mio giudizio, il vero problema del Pd è fare un salto di mentalità, diventare pienamente consapevole di rappresentare una forza indispensabile per il governo dell’Italia».
Con i suoi schemi la riforma della politica va a farsi benedire.
«Questa è la riforma della politica, non le chiacchiere futili di questi anni. E Monti sta facendo la sua parte. La visione nuovista di una politica in cui i partiti fanno il casting per trovare il leader bello, che sorride, che comunica bene, ormai è superata. Monti ha riportato al centro la serietà, le competenze, la qualità della classe dirigente. E lo sta facendo il governo più anziano d’Europa, l’unico esecutivo nel quale se entrassi io si abbasserebbe l’età media».
Lei sembra molto convinto, ma intanto il suo partito si divide a ogni colpo di primarie locali.
«Le primarie per il sindaco non sono un congresso, a Genova o a Palermo non si decideva una strategia politica. E tutto quello che sta avvenendo in questi giorni è una manifestazione di scarsa tenuta nervosa. Abbiamo adottato un sistema nel quale il Pd comunque finisce per perdere sempre perché ci sarà sempre un candidato appoggiato da una frazione del partito che alla fine soccombe. È bene allora che i dirigenti nazionali si facciano gli affari loro e che i cittadini possano decidere con assoluta libertà il candidato che preferiscono».
Almeno due dei soggetti ritratti nella foto di Vasto, Di Pietro e Vendola, sospettano che lei preferisca Casini a loro.
«Non ho mai pensato al rapporto con il Terzo polo nella prospettiva di una rottura a sinistra, ma sono Idv e Sel che devono dire cosa vogliono fare. Si considerano forze che vogliono governare o no? A volte ho l’impressione che cedano alla demagogia come nel caso Tav, ma noi vogliamo governare il Paese, il che richiede serietà e responsabilità».
Dario Di Vico