Carlo Alberto Bucci e Achille Bonito Oliva, la Repubblica 8/3/2012, 8 marzo 2012
2 articoli: "VOGLIO ESSERE IL RAFFAELLO DEL NOVECENTO" CARLO ALBERTO BUCCI «Poi vincerò una borsa di studio per andare quattro anni a Roma e al ritorno sarò un genio, il mondo mi ammirerà
2 articoli: "VOGLIO ESSERE IL RAFFAELLO DEL NOVECENTO" CARLO ALBERTO BUCCI «Poi vincerò una borsa di studio per andare quattro anni a Roma e al ritorno sarò un genio, il mondo mi ammirerà. O forse sarò disprezzato e incompreso, ma sarò un genio, un grande genio». Colmo di un´autostima adolescenziale che non lo abbandonerà mai nel corso della lunga vita, Salvador Dalí (1904-1989) così scriveva nel suo diario di sedicenne. Siamo nel 1920, anno in cui il pittore spagnolo, che al culmine della sua parabola esclamerà «il Surrealismo sono io!», realizza l´Autoritratto con il collo di Raffaello. È il quadro a proposito del quale molti anni dopo nella Mia vita segreta ricorderà: «Mi ero lasciato crescere i capelli, ormai lunghi come quelli di una fanciulla e guardandomi allo specchio amavo assumere l´espressione di malinconia, l´affascinante atteggiamento di Raffaello nell´autoritratto». Ed è il più antico dei dipinti, il punto di partenza della mostra romana che da domani al complesso del Vittoriano farà luce su rapporto tra Dalí e l´Italia. Il tour ideale e reale del pittore del Bel Paese si inserisce però nel contesto di un percorso espositivo che punta comunque a descrivere l´itinerario umano di Dalí, nell´intreccio indissolubile tra arte e vita, e sua messa in scena, da lui ordito. L´Io, il sogno surrealista e il rapporto conflittuale con i maestri italiani del Rinascimento, sono insomma i tre estremi entro cui si articola la rassegna allestita a Roma fino al primo luglio (catalogo Skira). Lea Mattarella e Montse Aguer ソ direttrice del Centro per gli studi daliniani alla Fundació Gala-Salvador Dalí, Figueres, principale prestatore dell´esposizione ソ nel curare la mostra insieme con Alessandro Nicosia hanno voluto prendere in parola l´artista, sin dal titolo, Dalí, un artista un genio, che ripete l´autoincoronazione del 1920. L´antologica propone in realtà un percorso sfaccettato intorno alla figura del pittore, tra debiti nei confronti della tradizione e i complessi, tormentati rapporti con le avanguardie storiche; tra i celebri contatti con il cinema sperimentale di Buñuel (Un chien andalou) e con il noir di Hitchcock (Io ti salverò), ma anche il teatro di Luchino Visconti (per il quale nel 1948 a Roma firmerà le scenografie di Rosalinda, o come vi piace), fino al progetto per un cartone animato per Walt Disney o a quello per tre bottiglie di Rosso antico. Tanti Dalí, insomma, e non un solo "genio" nell´esposizione che si apre con il primo piano di quei baffi a manubrio che diventeranno ソ insieme con le grucce, l´elefante berniniano dalle zampe filiformi e gli orologi flosci a misurare un tempo sempre più liquido ソ gli emblemi della sua pittura. Ma anche gli attributi di un personaggio che, in anticipo rispetto all´attitudine performativa e autobiografica di artisti come Andy Warhol, Luigi Ontani o Cindy Sherman, farà (anche) del proprio corpo un´opera totale. Ed è lo sguardo beffardo, ironico, ammaliante del pittore istrione a introdurre lo spettatore in una doppia parete di grandi foto realizzate da Philippe Halsman che conduce all´ambiente in cui sono le testimonianze video e audio a dare conto dell´attitudine drammaturgia del pittore surrealista. L´avvio della mostra alla pittura di Dalí ソ un´esposizione composta solo di opere di sua mano, senza l´ausilio dei molti multipli presenti sul mercato ソ è quindi nel segno dell´Italia. Il tour comprende, oltre all´Autoritratto raffaellesco («forse un giorno sarò considerato, senza essermelo prefisso, il Raffaello della mia epoca» scrive nel 1949), la Madonna di Port Lligat del 1949 (Collezione Haggerty Museum of Art, Marquette University, Milwaukee) in cui è Gala, la moglie/madre/musa/modella, a incarnare la Vergine in un quadro debitore tanto dell´Urbinate quanto di Piero della Francesca; ma anche la serie originale delle illustrazioni per il libro sulla Vita di Cellini scritto dallo stesso scultore manierista di cui Dalí ammirava l´impeto romantico oltreché certe soluzioni formali, come testimoniato dalla Gea della celebre saliera citata nella figura femminile del minuscolo, conturbante Spettro del sex-appeal. A chiusura ideale di questo legame conflittuale con l´Italia dei grandi maestri, i tre omaggi a Michelangelo in altrettante tele del 1982 che ソ attraverso una pittura più libera e mossa (vicina al vigore espressionista degli anni Ottanta) rispetto a quella analitica e fredda della sua tavolozza tradizionale ソ reinterpretano e disossano le sculture del Giorno e della Notte nelle cappelle medicee ma anche la Pietà di San Pietro in Vaticano. Artista anticonformista e anacronista, tanto da rifiutare le suggestioni della scultura africana cara alle avanguardie storiche in favore del Rinascimento, Dalí del secolo d´oro dell´arte italiana non prende quindi a modello la fase apollinea, quanto la crisi manierista di cui anche Raffaello, del resto, è stato protagonista. La scoperta nel 1948 delle sculture di Bomarzo, testimoniata da un filmato in mostra dell´Istituto Luce, non fa che confermare nella mente di Dalí l´origine antica e italiana dei suoi miti surrealisti, tra i mostri, le meraviglie e le metamorfosi dell´arte del Cinquecento. Non è solo con e contro l´Italia degli antichi maestri che si dibatte il pennello affilato dello spagnolo, tecnicamente più vicino al grado di precisione di un fiammingo che all´aurea sintesi della classicità. Tra i moderni, nel suo panorama affollato spicca Giorgio de Chirico la cui ombra, ora solo accennata, ora evidente, si ritrova in molti dei dipinti che costituiscono la sala centrale della mostra: la sezione sugli anni decisivi del suo lavoro, dopo il viaggio del 1926 a Parigi e la successiva adesione al gruppo dei surrealisti di Breton ed Éluard, fino all´abiura del 1934. Ignaro degli inviti dei surrealisti che vedevano in lui un faro, de Chirico, il "Grande Metafisico", il "Pictor optimus" come amava definirsi, bollò Dalí come «l´antipittore per eccellenza». Eppure i contatti tra i due sono più d´uno. E innumerevoli gli inserti di scorci metafisici, di manichini, persino un treno in un quadro del 1928, che lo spagnolo inserì nei suoi dipinti secondo un processo di citazione, appropriazione e rielaborazione che appare come la cifra più moderna del suo lavoro. Il dandy che lottava con la morte – ACHILLE BONITO OLIVA «Tanto credito prestiamo alla vita/ciò che essa ha di più precario: la vita reale, naturalmente/che quel credito finisce per perdersi». Così nel 1924 Breton apriva il Primo manifesto del surrealismo, nel quale l´arte teorizzava una strategia di avvicinamento alla vita proprio per risolvere la realtà "mancata", cioè quella quotidiana e puramente cronologica, attraverso l´affermazione di una surrealtà costruita dall´immaginazione, dal sogno, "follia" che il quotidiano riesce solo a sospettare. Salvador Dalí, nell´intero arco della sua produzione artistica, ha esercitato questa strategia, oscillando dall´opera al comportamento, dall´arte alla vita: la mostra a Parigi di fotografie di sue azioni, riprese da Robert Descharnes e Marc Lacroix, lo dimostra "proiettato nella sua opera d´arte" (H. Segal). Ma la vitalità di Dalí nasconde invece l´idea di un´arte come idea del lutto, come nostalgia del disordine perduto. Un´idea che nasce nella sospensione tra conscio e inconscio, tra arte e mondo, tra una cosa e il suo opposto. Nasce cioè dall´ambivalenza. In Dalí, come in tutto il surrealismo, l´opera è l´emergenza espressiva di una tensione liberatoria, di un´affermazione vitale dell´intera struttura dell´uomo. Ma il risultato è pur sempre solo forma e linguaggio, un guscio fermo e ormai lontano dal flusso della vita che intanto scorre altrove. Da qui il senso di colpa, l´impossibilità dell´artista di identificarsi con l´opera prodotta e l´assunzione del tema della morte. Se la vita sopravanza di molto l´opera, se il tempo, come dimensione reale, sfugge alla trappola tesa dall´arte, allora Dalí si rivolge direttamente al gesto e al comportamento. L´artista ソ le foto nel museo lo testimoniano ソ impiega l´evento come strumento barocco di descrizione del tema della morte. Se la vita è l´incessante pulsare degli attimi, la morte è l´arresto traumatizzato di ogni pulsione. L´iconografia dell´orologio liquefatto rappresenta il terrore infantile del tempo che porta ogni cosa alla propria putrefazione e all´annullamento. L´ossessione della morte diventa maniacale e cordiale, ridotta a descrizione di un quotidiano in cui ogni stile viene contaminato e ogni immagine pareggiata. Le statue greche diventano oggetti praticabili, con i cassetti chiusi sul proprio vuoto o ripieni di oggetti imprevisti e impensati. La metafora del linguaggio artistico viene stravolta fino al proprio contorcimento, ogni simbolo diventa il proprio contrario, la donna Gala diventa la presenza materna di ogni Risurrezione, ma anche l´inevitabile segno della castrazione. Perché ogni metafora è anche castrazione, riduzione di ogni terrore a fissa immagine. Perciò Dalí ha trascorso tutta la vita a combattere il problema della morte con la propria vita. Una vita da dandy che stupisce il mondo per non morire.