Vittorio Sgarbi, Davide Brullo, il Giornale 7/3/2012, 7 marzo 2012
Imparare a sopportare la vita? Bastano sei ore e un quarto - Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto del filosofo polacco Witold Gombrowicz (1904-69) è una personale rivisitazione delle varie correnti del pensiero moderno (e anche del suo proprio)
Imparare a sopportare la vita? Bastano sei ore e un quarto - Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto del filosofo polacco Witold Gombrowicz (1904-69) è una personale rivisitazione delle varie correnti del pensiero moderno (e anche del suo proprio). Uscito nel 1969, questo libro-culto torna in una nuova edizione Bompiani (pagg. 124, euro 12; a cura di Francesco M. Cataluccio; in libreria da oggi) con una postfazione di Vittorio Sgarbi, che qui anticipiamo. Alla fine dei suoi giorni Gombrowicz era giunto alla conclusione che la filosofia servisse a poco ( o meglio: non servisse alla vita) e aveva accentuato la propria avversione verso il pensiero astratto. *** Qualunque scrittore arrivasse a Buenos Aires negli anni Trenta del ’900 veniva attratto, come una necessita culturale, dal salotto di Victoria Ocampo, fondatrice e direttrice della rivista Sur , che vedeva tra i suoi protagonisti Jorges Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sabato e Julio Cortazar. Witold Gombrowicz attiro subito curiosità nel mondo letterario argentino perché fu l’unico scrittore a non recarsi mai nel salotto buono della Ocampo: «Secondo me - dice - quel poco di notorietà che ho acquistato in Argentina mi è venuta non in quanto autore, ma per essere stato l’unico letterato straniero a non recarsi in pellegrinaggio dalla signora Ocampo. Ero convinto che le mie opinioni, il mio modo di essere, le mie opere, le sarebbero apparse eccessivamente eccentrici ». E infatti, quando uscì in Argentina il capolavoro di Gombrowicz, Ferdydurke , la rivista Sur non pubblicò alcuna recensione del libro. Gombrowicz incontrò altrove Borges e tutto il mondo letterario della Ocampo, ma i rapporti evidentemente si manifestarono sotto la forma dell’antagonismo: due mondi inconciliabili. E le ragioni non sono solo da ricercare nella diversità della letteratura, ma proprio nella convinzione profonda di Gombrowicz che la letteratura sia un’emanazione delle energie del corpo, oltre che della mente, e che quindi uno scrittore lasci nella pagina qualche cosa che ha a che fare con la sua insofferenza e il suo malessere. La pagina allora non è un luogo incontaminato rispetto a una vita che può anche essere peccaminosa. Una convinzione questa che ribalta il precetto di Marziale « Lasciva pagina, sed vita proba ». Per molti scrittori accade il contrario: « Lasciva vita, sed pagina proba ». E in un certo senso non lasciva, ma certamente diversa è la vita di Borges, preso come il riferimento di una letteratura rinchiusa in un cristallo, integra, incontaminata, e in questo senso straordinariamente apprezzabile; ma, proprio per questa ragione, tanto lontana dalla contaminazione che invece rende così viva l’esperienza letteraria di Gombrowicz. Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto è la pagina meravigliosamente organizzata di una vita dove il dolore è il culmine di un’esperienza fondamentale per la formazione della coscienza umana. Non c’è coscienza senza dolore e non c’è letteratura senza coscienza di questo dolore. La filosofia diventa per Gombrowicz il culmine di un momento edificante per lo spirito nell’istante di maggior decadenza del corpo, quasi a preservare il ricordo di una vita che svanisce nel nulla, che ritorna al nulla dal quale proviene. E questo movimento della vita non può essere mutato con alcuna finzione della letteratura, e Gombrowicz si schiera contro tutto ciò che nella finzione ricerca il cambiamento di una realtà che è come una piaga: «Uno scrittore che si consideri padrone della realtà è cosa triste e ridicola ( e ne rido)» [...]. Nel dramma che è la vita allora e che la letteratura rappresenta si svolge il pensiero di Gombrowicz, che nel suo Corso di filosofia tocca il culmine di una ricerca condivisa sotto forma di una paideia minima, per tutti coloro che vogliono vivere. E cosa è la filosofia insegnata nelle scuole se non l’educazione a un dolore ineliminabile e alla meraviglia per un mondo che ci è dato in eredità? Gombrowicz ci spinge così a lottarecontro l’inautenticità della vita e della letteratura, anche se dovessimo sfidare giganti della fantasia come Borges. Non è un caso allora che il Corso parta dalle riflessioni sulla filosofia di Cartesio criticando nel filosofo francese il suo aver reso la coscienza la realtà basilare dell’universo e l’aver fatto del dubbio il metodo dell’eliminazione della realtà dell’oggetto esteriore. Da Cartesio a Sartre, passando per Kant e Schopenhauer, Gombrowicz con la forza di chi ha poche ore da vivere e nulla da perdere sorride dei maestri del pensiero che hanno allontanato il soggetto e l’oggetto, l’uomo dalla vita e dal dolore. Forse solo Schopenhauer nella sua visione tragica della vita è preservato dalla critica di Gombrowicz, quantomeno perché il pensiero del filosofo tedesco parte dalla sensibilità e non dal dubbio di una coscienza. Ma la rinuncia alla vita che propone Schopenhauer per uscire dall’imbroglio della volontà di vivere e dalla tragedia irrinunciabile della vita appare a Gombrowicz una soluzione debole. Proprio lui che nei giorni di dettatura all’amico Dominique Roux e alla moglie Rita Labrousse del Corso di filosofia chiedeva con insistenza la morte per non sopportare più quel dolore terribile della malattia. E c’è un qualcosa di vagamente comico nel finire per resistere alla malattia uccidendo i filosofi che hanno allontanato la vita dal pensiero. E l’attacco meglio preparato lungo tutta una vita sembra essere quello nei confronti di Sartre e delle varie forme di esistenzialismo che prendono vita dallo scontro tra Hegel e Kierkegaard. Il «codardo Sartre» cerca in tutti i modi un fondamento logico all’esistenza dell’altro, ma finisce per cadere nell’errore di Cartesio e richiude i propri principi logici in una impossibilità di esistenza dell’altro, benché questa sia evidente a tutti. Se l’esistenzialismo naufraga nella vita, questo accade perché la filosofia stessa viene superata dalla vita: l’evidenza dei fenomeni, rispetto all’intellegibilità dei principi. Il Corso di filosofia diventacosì il vero suicidio di Gombrowicz: l’aver abbandonato il dolore della vita per l’ironia del pensiero,tanto più distante dal dolore quanto più intricato e paradossale. Sembra essere questo allora l’ultimo messaggio per i suoi lettori: uscite per il mondo liberi cercando la vita autentica e non fingete, se non il dolore che sentite per voi, come quello sentito nella carne degli altri. Vittorio Sgarbi *** Fa così ridere da costringerti a piangere - Una recente Piccola inchiesta d’intrattenimento sulla Narrativa d’oggidì (Giuliano Ladolfi Editori; roveto d’interviste agli scrittori più importanti del momento) mi convince di una ovvietà: gli scrittori non hanno niente d’interessante da dire, se li incontri per strada sterza altrove, se ti garba leggili. Con Witold Gombrowicz (1904-1969)capita il contrario:il polacco vorresti conoscerlo. Vi impiatto l’appunto critico: il Diario di Witold (lo stampa Feltrinelli) è la sua opera maggiore. Al secondo posto si piazza Testamento (sempre Feltrinelli), che è una clamorosa, urticante, petulante intervista. Al terzo (ma molto più sotto) i romanzi. La classifica dei romanzi, secondo i critici doc,è questa: medaglia d’oro a Cosmo , d’argento a Ferdydurke , di bronzo a Pornografia (stampa tutto Feltrinelli). Per me uno vale l’altro, nei romanzi Gombrowicz fa la parte dello Scrittore Più Importante del Mondo, retoricamente se la mena, ma i suoi eccitanti estetici non mi fanno effetto. Il talento prodigioso di parlare di sé (imparato dai francesi) lo rendono un conversatore micidiale, e uno scrittore inconcludente. Witold, polacco transitato in Argentina, fa razzia del genere «confessionale» (da Agostino a Rousseau), usando la penna come un chiodo, grattandosi tutte le rogne, mostrando le vergogne più oscure, svergognando. Memorabile quando pugnala Borges dicendo che di sudamericano non ha nulla, la sua opera di pallida ceramica potrebbe essere fabbricata a Parigi. Fustigatore dei damerini della scrittura, fu sfidato a duello da Giuseppe Ungaretti. Nel 1968 le edizioni«L’Age d’Homme»pubblicano l’affondo, lo sberleffo, il gioco drammatico al cubo Su Dante, in cui la Divina Commedia diventa, nell’anima esasperata di Witold, «opera maldestra», «opera mostruosa », «recitazione retorica», «vuoto rituale» e «fuoco d’artificio». Giuseppe, moralmente, mortalmente offeso, scagliò l’attacco: «Il libro su Dante del polacco è pura cretineria. È assurdo aver pubblicato una cosa simile. Ho fatto a pezzi e ho gettato al diavolo questo scritto stupido, stupido come nessun altro». Belli i tempi in cui gli scrittori si pestavano ed erano pestilenza. Oggi Gombrowicz piace a tutti, è osannato come capobranco del «comico dell’Est», imparentato a Bruno Schulz e a Milan Kundera. Brandello di tapezzeria domestica, cagnolino addomesticato, saporito dopocena. Ma non dimenticate che Witold è un lupo: vi strappa a morsi i genitali da lettori gentildonne. Davide Brullo