Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 07 Mercoledì calendario

Imparare a sopportare la vita? Bastano sei ore e un quarto - Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto del filosofo polacco Witold Gombrowicz (1904-69) è una personale rivisitazione delle varie correnti del pensiero moderno (e an­che del suo proprio)

Imparare a sopportare la vita? Bastano sei ore e un quarto - Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto del filosofo polacco Witold Gombrowicz (1904-69) è una personale rivisitazione delle varie correnti del pensiero moderno (e an­che del suo proprio). Uscito nel 1969, questo libro-culto torna in una nuova edizione Bom­piani (pagg. 124, euro 12; a cura di Francesco M. Cataluccio; in libreria da oggi) con una postfazione di Vittorio Sgarbi, che qui anticipiamo. Alla fine dei suoi giorni Gom­browicz era giunto alla conclusione che la filosofia servisse a poco ( o meglio: non ser­visse alla vita) e aveva accentuato la propria avversione verso il pensiero astratto. *** Qualunque scrittore arri­vasse a Buenos Aires negli anni Trenta del ’900 veniva attratto, co­me una necessita culturale, dal sa­lotto di Victoria Ocampo, fondatri­ce e direttrice della rivista Sur , che vedeva tra i suoi protagonisti Jor­ges Luis Borges, Adolfo Bioy Casa­res, Ernesto Sabato e Julio Corta­zar. Witold Gombrowicz attiro su­bito curiosità nel mondo letterario argentino perché fu l’unico scritto­re a non recarsi mai nel salotto buo­no della Ocampo: «Secondo me - ­dice - quel poco di notorietà che ho acquistato in Argentina mi è venu­ta non in quanto autore, ma per es­sere stato l’unico letterato stranie­ro a non recarsi in pellegrinaggio dalla signora Ocampo. Ero convin­to che le mie opinioni, il mio modo di essere, le mie opere, le sarebbe­ro apparse eccessivamente eccen­trici ». E infatti, quando uscì in Ar­gentina il capolavoro di Gom­browicz, Ferdydurke , la rivista Sur non pubblicò alcuna recensione del libro. Gombrowicz incontrò al­tr­ove Borges e tutto il mondo lette­rario della Ocampo, ma i rapporti evidentemente si manifestarono sotto la forma dell’antagonismo: due mondi inconciliabili. E le ragio­ni non sono solo da ricercare nella diversità della letteratura, ma pro­prio nella convinzione profonda di Gombrowicz che la letteratura sia un’emanazione delle energie del corpo, oltre che della mente, e che quindi uno scrittore lasci nella pagina qualche cosa che ha a che fare con la sua insofferenza e il suo malessere. La pagina allora non è un luogo incontaminato rispetto a una vita che può anche essere pec­caminosa. Una convinzione que­sta che ribalta il precetto di Marzia­le « Lasciva pagina, sed vita proba ». Per molti scrittori accade il contra­rio: « Lasciva vita, sed pagina pro­ba ». E in un certo senso non lasci­va, ma certamente diversa è la vita di Borges, preso come il riferimen­to di una letteratura rinchiusa in un cristallo, integra, incontamina­ta, e in questo senso straordinaria­mente apprezzabile; ma, proprio per questa ragione, tanto lontana dalla contaminazione che invece rende così viva l’esperienza lettera­ria di Gombrowicz. Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto è la pagina meravigliosa­mente organizzata di una vita do­ve il d­olore è il culmine di un’espe­rienza fondamentale per la forma­zione della coscienza umana. Non c’è coscienza senza dolore e non c’è letteratura senza coscienza di questo dolore. La filosofia diventa per Gombrowicz il culmine di un momento edificante per lo spirito nell’istante di maggior decadenza del corpo, quasi a preservare il ri­cordo di una vita che svanisce nel nulla, che ritorna al nulla dal quale proviene. E questo movimento del­la vita non può essere mutato con alcuna finzione della letteratura, e Gombrowicz si schiera contro tut­to ciò che nella finzione ricerca il cambiamento di una realtà che è come una piaga: «Uno scrittore che si consideri padrone della real­tà è cosa triste e ridicola ( e ne rido)» [...]. Nel dramma che è la vita allora e che la letteratura rappresenta si svolge il pensiero di Gom­browicz, che nel suo Corso di filo­sofia tocca il culmine di una ricer­ca condivisa sotto forma di una paideia minima, per tutti coloro che vogliono vivere. E cosa è la fi­losofia insegnata nelle scuole se non l’educazione a un dolore ine­liminabile e alla meraviglia per un mondo che ci è dato in eredi­tà? Gombrowicz ci spinge così a lot­tare­contro l’inautenticità della vi­ta e della letteratura, anche se do­vessimo sfidare giganti della fan­tasia come Borges. Non è un caso allora che il Corso parta dalle ri­flessioni sulla filosofia di Cartesio criticando nel filosofo francese il suo aver reso la coscienza la real­tà basilare dell’universo e l’aver fatto del dubbio il metodo dell’eli­minazione della realtà dell’ogget­to esteriore. Da Cartesio a Sartre, passando per Kant e Scho­penhauer, Gombrowicz con la forza di chi ha poche ore da vivere e nulla da perdere sor­ride dei maestri del pensiero che hanno allontanato il sogget­to e l’oggetto, l’uomo dalla vita e dal dolore. Forse solo Scho­penhauer nella sua visione tragica della vita è preservato dalla critica di Gombrowicz, quantomeno per­ché il pensiero del filosofo tedesco parte dalla sensibilità e non dal dubbio di una coscienza. Ma la ri­nuncia alla vita che propone Schopenhauer per uscire dal­l’imbroglio della volontà di vi­vere e dalla tragedia irrinun­ciabile della vita appare a Gombrowicz una soluzione debole. Proprio lui che nei giorni di dettatura all’amico Dominique Roux e alla moglie Rita Labrousse del Corso di filosofia chiedeva con insistenza la morte per non soppor­tare più quel dolore terribile della malattia. E c’è un qualcosa di vaga­mente comi­co nel finire per resiste­re alla malattia uccidendo i filosofi che hanno allontanato la vita dal pensiero. E l’attacco meglio prepa­rato lungo tut­ta una vita sembra es­sere quello nei confronti di Sartre e delle varie forme di esistenziali­smo che prendono vita dallo scon­tro tra Hegel e Kierkegaard. Il «co­dardo Sartre» cerca in tutti i modi un fondamento logico all’esisten­za dell’altro, ma finisce per cadere nell’errore di Cartesio e richiude i propri principi logici in una impos­sibilità di esistenza dell’altro, ben­ché questa sia evidente a tutti. Se l’esistenzialismo naufraga nella vita, questo accade perché la filosofia stessa viene superata dal­la vita: l’evidenza dei fenomeni, ri­spetto all’intellegibilità dei princi­pi. Il Corso di filosofia diventacosì il vero suicidio di Gombrowicz: l’aver abbandonato il dolore della vita per l’ironia del pensiero,tanto più distante dal dolore quanto più intricato e paradossale. Sembra es­sere questo allora l’ultimo messag­gio per i suoi lettori: uscite per il mondo liberi cercando la vita au­tentica e non fingete, se non il dolo­re che sentite per voi, come quello sentito nella carne degli altri. Vittorio Sgarbi *** Fa così ridere da costringerti a piangere - Una recente Piccola inchiesta d’intrat­tenimento sulla Narrativa d’oggidì (Giuliano Ladolfi Editori; roveto d’interviste agli scrittori più importanti del momento) mi convince di una ovvietà: gli scrittori non hanno niente d’interessante da dire, se li incontri per strada sterza altrove, se ti garba leggili. Con Witold Gombrowicz (1904-1969)capita il contrario:il polacco vor­resti conoscerlo. Vi impiatto l’appunto criti­co: il Diario di Witold (lo stampa Feltrinelli) è la sua opera maggiore. Al secondo posto si piazza Testamento (sempre Feltrinelli), che è una clamorosa, urticante, petulante inter­vista. Al terzo (ma molto più sotto) i romanzi. La classifica dei romanzi, secondo i critici doc,è questa: medaglia d’oro a Cosmo , d’ar­gento a Ferdydurke , di bronzo a Pornografia (stampa tutto Feltrinelli). Per me uno vale l’altro, nei romanzi Gombrowicz fa la parte dello Scrittore Più Importante del Mondo, re­toricamente se la mena, ma i suoi eccitanti estetici non mi fanno effetto. Il talento prodi­gioso di parlare di sé (imparato dai francesi) lo rendono un conversatore micidiale, e uno scrittore inconcludente. Witold, polacco transitato in Argentina, fa razzia del genere «confessionale» (da Agostino a Rousseau), usando la penna come un chiodo, grattando­si tutte le rogne, mostrando le vergogne più oscure, svergognando. Memorabile quando pugnala Borges dicendo che di sudamerica­no non ha nulla, la sua opera di pallida cera­mica potrebbe essere fabbricata a Parigi. Fustigatore dei damerini della scrittura, fu sfidato a duello da Giuseppe Ungaretti. Nel 1968 le edizioni«L’Age d’Homme»pubblica­no l’affondo, lo sberleffo, il gioco drammati­co al cubo Su Dante, in cui la Divina Comme­dia diventa, nell’anima esasperata di Witold, «opera maldestra», «opera mostruo­sa », «recitazione retorica», «vuoto rituale» e «fuoco d’artificio». Giuseppe, moralmente, mortalmente offeso, scagliò l’attacco: «Il li­bro su Dante del polacco è pura cretineria. È assurdo aver pubblicato una cosa simile. Ho fatto a pezzi e ho gettato al diavolo questo scritto stupido, stupido come nessun altro». Belli i tempi in cui gli scrittori si pestavano ed erano pestilenza. Oggi Gombrowicz piace a tutti, è osannato come capobranco del «co­mico dell’Est», imparentato a Bruno Schulz e a Milan Kundera. Brandello di tapezzeria domestica, cagnolino addomesticato, sapo­rito dopocena. Ma non dimenticate che Witold è un lupo: vi strappa a morsi i genitali da lettori gentildonne. Davide Brullo