TONIA MASTROBUONI, La Stampa 7/3/2012, 7 marzo 2012
In Italia i laureati sono pochi e sempre più disoccupati - In Italia ci si laurea meno che negli altri paesi e chi finisce l’università non soltanto fa fatica a trovare un lavoro ma rischia, dopo un anno o dieci, di guadagnare ancora poco
In Italia i laureati sono pochi e sempre più disoccupati - In Italia ci si laurea meno che negli altri paesi e chi finisce l’università non soltanto fa fatica a trovare un lavoro ma rischia, dopo un anno o dieci, di guadagnare ancora poco. È lo sconfortante quadro offerto dal XIV rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati, presentato ieri a Roma. Anzitutto l’Italia si piazza agli ultimi posti fra i paesi Ocse come quota di laureati. I giovani tra 25 e 34 anni in possesso di un titolo di studio universitario sono in media 20 su 100 contro la media dei paesi avanzati di 37 e i 27 della Germania, i 43 della Francia, i 41 degli Stati Uniti, i 45 del Regno Unito e i 56 del Giappone. Ma è un male antico: anche nella fascia di popolazione tra 55 e 64 anni hanno una laurea 10 italiani su 100 cento, metà della media dei Paesi Ocse. È molto consistente, inoltre, il numero di lavoratori adulti laureati tra i 35 e i 54 anni, che avrebbe bisogno di aggiornare le proprie conoscenze: ben 2,6 milioni di persone. E l’eventuale ritorno allo studio per questa fetta di popolazione costituirebbe una importante occasione di crescita del sistema produttivo. La laurea, poi, offre sempre meno la certezza di un posto di lavoro. Certamente va tenuto conto del fatto che siamo in un periodo di prolungata crisi economica. Ma in un anno, dal 2009 al 2010, il tasso di disoccupazione tra i circa 400mila laureati presi in esame da Almalaurea è aumentato. Tra i laureati triennali è passato dal 16 al 19 per cento; tra quelli specialistici dal 18 al 20 per cento. E il rapporto informa anche che il lavoro nero riguarda il 6 per cento dei primi e il 7 dei secondi e addirittura l’11 per cento dei laureati a ciclo unico. Il focus rivela anche cifre sconfortanti sulle retribuzioni. A dieci anni dalla laurea lo stipendio medio è di 1.600, cifra che scende a 1.400 euro nel caso di una specializzazione in Architettura o Psicologia e a 1.300 euro al mese per chi ha concluso un corso universitario in Lettere. Un anno dopo la laurea, invece, la busta paga di un laureato di primo livello è di 1.105 euro al mese, 1.050 per gli specialistici a ciclo unico e 1.080 per gli specialistici. D’altra parte è vero, come testimoniano i numeri forniti da Excelsior-Unioncamere, che la quota di laureati richiesti nel mondo del lavoro è basso, in Italia. La domanda 2011, ferma a 74mila laureati, il 12,5 per cento di tutte le assunzioni stimate, conferma che nel nostro paese le aziende puntano poco su chi ha un titolo universitario. Il fabbisogno negli Stati Uniti di giovani con una laurea è oltre il doppio, nelle proiezioni 2008-2018, il 31 per cento del complesso dei nuovi assunti. Lo scarto dipende ovviamente dalla fisionomia del nostro sistema produttivo, in gran parte familiare e manifatturiero. E la domanda di laureati, ça va sans dire, cresce in misura in cui aumenta il contenuto tecnologico delle produzioni. Altro dato interessante: nelle aziende guidate da laureati il numero di impiegati con titolo di studio universitario è il triplo rispetto alla norma. Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, sostiene che «sarebbe un errore imperdonabile sottovalutare o tardare ad affrontare in modo deciso le questioni della condizione giovanile e della valorizzazione del capitale umano, non facendosi carico di quanti, anche al termine di lunghi, faticosi e costosi processi formativi, affrontano crescenti difficoltà ad affacciarsisul mercato del lavoro, a conquistare la propria autonomia, a progettare il proprio futuro». Per Cammellisiamo dinanzi «si tratta di un fenomeno preoccupante, ma del resto - osserva - basta dare un’occhiata agli investimenti fatti in questo periodo dal nostro Paese nel settore. Francia, Germania, tutti i Paesi europei hanno investito di più nelle professioni qualificate per uscire dalla crisi, l’Italia è l’unica in controtendenza».