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 2012  marzo 07 Mercoledì calendario

Si scopre oggi che i grandi mandarini alla guida della Cina si sono spaventati per la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 molto più di quello che hanno mostrato in pubblico

Si scopre oggi che i grandi mandarini alla guida della Cina si sono spaventati per la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 molto più di quello che hanno mostrato in pubblico. A quella data avevano più di 1.800 miliardi di dollari di riserve in valuta estera e di questi il 68% erano titoli denominati in dollari. Comprese obbligazioni disastrate come quelle emesse da Fannie Mae e Freddie Mac, direttamente legate ai mutui per le case americane e al centro dello scoppio della bolla dei subprime. DOPPIO CHOC Per Pechino, dunque, i giorni seguenti alla crisi della banca Lehman furono uno choc doppio. Da una parte, i dirigenti del Paese criticarono apertamente la gestione finanziaria di Washington e si convinsero che il capitalismo americano aveva problemi seri. Dall’altra parte si resero conto che era arrivato il momento di far salire la questione valutaria nella lista delle priorità. Oggi la stanno affrontando in due modi. DOLLARO YUANDOLLARO YUAN Secondo dati resi noti nei giorni scorsi dal Tesoro americano, Pechino ha rallentato in modo drammatico gli acquisti di dollari. Le riserve sono salite - a metà 2011 - a 3.200 miliardi ma di queste solo il 54% è ormai denominato nella valuta americana. Le autorità cinesi hanno cioè diversificato radicalmente il loro portafoglio di acquisti verso altre valute, compreso l’euro (probabilmente titoli tedeschi) nonostante la crisi del debito in Europa: nel 2011, solo il 15% dell’incremento delle riserve è andato ad acquisti in dollari, dato che si confronta con il 63% medio nei cinque anni precedenti. Nella seconda metà del 2011, addirittura, le riserve cinesi in dollari si sarebbero ridotte di 156 miliardi. Per dare il senso del cambiamento: nel 2002, il 75% delle riserve valutarie cinesi era in dollari, oggi siamo attorno al 50% e in calo. I NUOVI OBIETTIVI La sfiducia di Pechino nella finanza centrata sul dollaro è però andata oltre. Da tempo la leadership cinese si interroga sulla necessità di fare diventare la propria moneta una valuta di riserva come il dollaro. Il peso economico sempre maggiore dell’Impero di Mezzo, e soprattutto il suo ruolo di Paese numero uno nei commerci internazionali, rendono quasi inevitabile questo passaggio: che senso ha, infatti, che il primo Paese al mondo in fatto di scambi continui a non usare la propria valuta ma debba continuamente affidarsi ad altre, dollaro in testa? L’ostacolo, finora, è stato politico. Barack ObamaBarack Obama MOLTI PASSI DA FARE Per rendere il renminbi una valuta di uso internazionale, infatti, la Cina deve prima di tutto aprire il proprio sistema bancario, renderlo trasparente e credibile, liberalizzare la fissazione dei tassi d’interesse, oggi stabiliti con criteri politici a danno dei depositanti. Poi, dovrà liberalizzare le transazioni con l’estero. Un processo che è molto delicato da gestire perché ogni errore, anche solo nella tempistica, potrebbe innescare un’uscita di risparmio dal Paese, alla ricerca di rendimenti più alti. E un processo che, soprattutto, è fortemente osteggiato all’interno del Paese da quei settori conservatori - soprattutto le imprese di Stato - che godono dei privilegi legati al controllo statale sul credito e sui movimenti di capitale. Nonostante gli ostacoli, Pechino ha iniziato a muoversi sulla strada che dovrebbe portare, tra un po’ di anni, il renminbi a competere testa a testa con il dollaro per l’egemonia anche in fatto di valute. Più di un osservatore ritiene che questo processo sarà una delle maggiori sfide che dovrà affrontare il nuovo leader in pectore del partito e del Paese, Xi Jingping. Il piano quinquennale approvato di recente parla di internazionalizzazione della valuta e, in effetti, le autorità hanno già mosso i primi passi. In modo discreto ma risoluto. XI JINPINGXI JINPING Le trattative tra Pechino e Londra affinché la City diventi una piazza sulla quale tutti possono comprare renminbi - in aggiunta a Hong Kong e Shangai - sono in fase avanzata: un primo passo significativo, un test. In parallelo, nel 2009 Pechino ha permesso a cinque regioni pilota di condurre commerci con Hong Kong in renminbi. Nel 2010 ha esteso la possibilità a 20 regioni. E l’anno scorso a tutto il Paese. Senza troppa fanfara, il governo centrale consente che sempre più commerci internazionali siano denominati in valuta cinese: nel 2010, primo anno di apertura significativa, gli scambi con l’estero in renminbi sono ammontati all’equivalente di 78 miliardi di dollari; nel 2011 si calcola siano cresciuti del 200%, al 7% del valore del commercio estero. Per la pima volta, inoltre, la banca centrale di un Paese, la Nigeria, si è impegnata a accumular nelle proprie riserve una quota di renminbi, tra il 5 e il 10% di quelle totali. La strada, insomma, è imboccata. E, con essa, la sfida al dollaro. WEN JiabaoWEN Jiabao Non sarà senza ostacoli, sia per ragioni tecniche sia per motivi di potere: liberalizzare è sempre difficile, ancora di più in un Paese totalitario. E non sarà nemmeno un viaggio breve. Economisti cinesi hanno studiato piani che prevedono fasi successive di liberalizzazione e immaginano la completa internazionalizzazione della valuta in una decina d’anni. Se però l’operazione avrà successo, e se l’economia cinese continuerà a crescere sena incidenti gravi, nei primi Anni Venti il renminbi avrà tutte le possibilità i contendere al dollaro la corona di valuta regina, sia negli scambi globali che nelle riserve internazionali. Un nuovo mondo.