Laura Cavestri, Il Sole 24 Ore 7/3/2012, 7 marzo 2012
MULTINAZIONALI IN FUGA DALL’ITALIA
Esasperati da attese estenuanti e da una burocrazia incomprensibile, da comportamenti in linea con l’ordinamento ma illeciti per il Fisco e da una giustizia che distilla un procedimento in dieci anni.
Italia addio. La crisi ha solo accelerato un fenomeno partito al rallenty qualche anno fa. Crescono, infatti, le multinazionali che fanno le valigie per produrre o fare ricerca altrove. Non solo e non sempre in Cina e India, dove la manodopera costa meno, ma in altri Paesi europei o negli Usa, con forza lavoro qualificata, infrastrutture e incentivi. Non c’è solo Ikea che minaccia di gettare la spugna per un nuovo ipercentro a Pisa da 100 milioni di euro, in risposta alla paralisi dei veti burocratici, poi sbloccato. Dalle telecomunicazioni alla farmaceutica, si moltiplicano chiusure, ristrutturazioni e posti di lavoro qualificati che evaporano. E non c’è da stupirsi se anche nel 2012, la classifica Doing Business della Banca mondiale ci colloca a un poco invidiabile 87° posto (-4 posizioni rispetto al 2011): dietro di noi, solo la Grecia. Nel solo 2011, secondo il comitato investitori esteri di Confindustria, gli investimenti diretti esteri entrati in Italia sono dimezzati, - 53 per cento e il rapporto medio tra investimenti in entrata e Pil nell’ultimo decennio si attesta all’1,2%, a distanza dal 4% del Regno Unito ma anche dal 9,9% dell’Estonia, e dal 2,4% del Portogallo.
Telecomunicazioni
Ultima in ordine di tempo è Alcatel, che ha annunciato quasi 700 esuberi in provincia di Milano. Complici i ritardi sulla banda larga, a Concorezzo, provincia di Milano, Linkra, multinazionale americana che produce ponti radio, ha formalizzato il disimpegno in Italia mettendo in cassa integrazione 200 dei 400 dipendenti. Stessa cosa per la Jabil (ex Nokia) , di nuovo hinterland milanese, multinazionale Usa dei circuiti elettrici, che ha licenziato i suoi 325 dipendenti. Anche la Nokia, gigante finlandese dei telefonini, ha deciso di trasferire il suo centro di ricerca da Cinisello Balsamo (sempre Milano) a Dallas, in Texas. Mentre ha lasciato Torino l’americana Motorola.
Farmaceutica
L’elenco delle grandi multinazionali del farmaco che hanno abbandonato l’Italia è lungo. Si va dalla Merck di Pomezia, nei cui laboratori è stato scoperto l’Isentress, considerato decisivo nella lotta contro l’aids, alla Wyth di Catania, fino alla Pzifer, che un paio di anni fa annunciò la chiusura dei centri italiano di Nerviano (Milano), di Stoccolma e di Boston (tornando indietro solo sulle ultime due sedi). L’ultimo caso è quello della francese Sanofi Aventis, che ha chiuso il sito della Genzyme Italia a Modena e i suoi centri di ricerca a Milano, dove anche la svizzera Novartis si è sbarazzata, vendendolo, di uno stabilimento in cui lavoravano un centinaio di persone. Così come hanno fatto gli inglesi della GlaxoSmithkline che hanno ceduto la loro fabbrica di Baranzate, e i londinesi di Astrazeneca, volati via dal sito produttivo di Caponago.
Meccanica e acciaio
Non solo Milano perde pezzi. La Spx, multinazionale americana che dal suo polo produttivo di Parma sfornava apparecchi per la diagnostica automobilistica, invece di trasferire la produzione in Paesi a basso costo, è emigrata in Germania, dove il prezzo del lavoro è più alto ma avevano clienti importanti come la Bmw. Non sono serviti scioperi e presidi a fermare il trasferimento in Cina della produzione della Jacob Muller di Lainate (Milano), azienda svizzera di macchine tessili. Così come neppure l’appello a Valentino Rossi, ha impedito di spostare la produzione della Yamaha da Lesmo alla Spagna, con biglietto di sola andata. Per ora, tiene la Whirpool, tra prepensionamenti, mobilità volontaria, incentivata e contratti di solidarietà. Mentre ci hanno ripensato i russi della Severstal che avevano rilevato le acciaierie (ex Lucchini) di Piombino e ora puntano a una rapida dismissione. Infine, c’è la General Electric Italia, che non ha lasciato il Paese, ma ha trasferito un progetto di sviluppo da 15 milioni di euro da Catania a Sesto Fiorentino, esasperata dalle firme mancanti per ottenere 3 milioni di fondi Fas, favorendo una piccolo "esodo di cervelli" siciliani in Toscana nel frattempo assunti sotto l’Etna.