Felisa Rogers, Internazionale 2/8 marzo 2012, 7 marzo 2012
Sugli afrodisiaci
Cibo piccante – Dal giardino dell’Eden alle oyster cellar dei bordelli della vecchia New York, cibo e sesso sono intrecciati da sempre. Anche se ogni genere alimentare sulla faccia della Terra in un certo periodo della storia è stato considerato un afrodisiaco, l’essere umano tende a eccitarsi soprattutto di fronte a tre tipologie di cibi: quelli molto costosi, quelli difficili da trovare e quelli che ricordano la forma degli organi genitali. I cibi rari ed esotici occupano un posto speciale nel canone degli afrodisiaci culinari. Pensiamo al tartufo, ai piranha o alla fatica che ci vuole per mettere insieme un piatto di lingue di passero. I cibi provenienti da terre lontane hanno il profumo speziato dell’avventura e del pericolo, e niente come il mistero stimola la fantasia. Le concubine azteche, per esempio, insegnarono ai conquistadores a bere la cioccolata calda, e quando gli spagnoli caricarono quella sostanza esotica sulle navi dirette in Europa portarono con sé la credenza che fosse un afrodisiaco. Durante il regno di Carlo I, quando nel vecchio continente il riso era ancora un lusso, i nobili dongiovanni confidavano nelle improbabili virtù afrodisiache del riso bollito nel latte e cannella. Quando un ingrediente diventa comune, e quindi a buon mercato, perde la sua magia. Un caso per tutti: la patata. Oggi è difficile che qualcuno possa trovare sessualmente stimolante il purè, eppure le patate, specialmente quelle dolci, erano considerate degli afrodisiaci quando furono introdotte in Europa. Nelle Allegre comari di Windsor, di William Shakespeare, Falstaff snocciola un elenco di afrodisiaci dell’epoca: confetti profumati, mandragore candite e, appunto, patate. Ingredienti un tempo rari come cannella, chiodi di garofano, marmellata di agrumi, riso e pepe hanno perso per lo stesso motivo il loro fascino erotico. La seconda grande famiglia di afrodisiaci culinari risponde alla rozza logica che se qualcosa somiglia alle nostre parti intime sicuramente metterà il potenziale partner nell’umore giusto. Seduttori e tentatrici senza scrupoli si sono perciò affidati per secoli all’offerta erotica di fiori e radici commestibili. In Gran Bretagna il gigaro scuro (Arum maculatum) era noto come addensante per il pudding e come amido per le gorgiere elisabettiane, ma soprattutto per il suo fiore di forma fallica, che gli regalò la fama di afrodisiaco e ispirò più di venti nomignoli allusivi, tra cui "Adamo ed Eva", "signori e signore", "diavoli e angeli", "stalloni e giumente" e "cazzo di cane". Analogamente, la parola orchidea deriva dal termine che indicava il testicolo in greco antico. Plinio il Vecchio consigliava il tubero bulboso dell’orchidea come afrodisiaco, e i romani chiamavano le orchidee satyrion, poiché la leggenda narrava che le sue radici falliche nascessero dal seme versato da un satiro. Le tribù del Messico, invece, alla radice preferivano il fiore. Gli indiani totonoc ritenevano che l’orchidea Vanilla planifolia, oggi nota come vaniglia, nascesse dal sangue di una dea; gli aztechi la chiamavano tlilxochiti, o fiore nero. La Vanilla planifolia è una pianta intrinsecamente romantica: i suoi piccoli fiori si schiudono al mattino e sono impollinati esclusivamente dai colibrì e dalle api melipone. I maliziosi conquistadores notarono la somiglianza tra il baccello e l’organo genitale femminile e diedero alla pianta il nome di vainilla, derivato dal termine latino vagina per guaina. La fama della vaniglia come afrodisiaco si diffuse immediatamente in Europa: circolavano voci fantasiose che la pianta riuscisse a trasformare un uomo comune in un amatore incredibile. Si dice che Elisabetta I fosse una grande amante del pudding alla vaniglia. Le ostriche e le cozze hanno una reputazione lasciva fin dall’alba dei tempi. Il poeta romano Giovenale, misogino incallito, cita le ostriche nel racconto di una notte di baldoria: "Una donna che in piena notte morde ostriche giganti, mentre gli aromi versati schiumano in Falerno puro, e quando beve dall’anfora vede il tetto che si muove e le candele doppie sui tavoli, non distingue più tra testa e cazzo". L’accostamento tra ostriche e prostitute avrebbe resistito nei secoli: come sottolinea Rebecca Stott nel suo libro Oyster, "per tutto il diciassettesimo e il diciottesimo secolo la venditrice di ostriche fu usata in poesia come metafora del gioco erotico, un po’ come l’ostrica stessa: qualcosa da consumare, un sensuale frutto della strada per il voyeur di città". Nell’America dell’ottocento in alcuni saloon gli ospiti sfogavano gli istinti più bassi divorando ostriche e spassandosela con ragazze allegre e prostitute. Qualche decina di anni dopo, e alcune centinaia di chilometri più a sud, delle signore discinte si esibivano in un popolare numero di spogliarello chiamato "ballo dell’ostrica". Negli anni quaranta Kitty West (cugina di Elvis Presley) ballava a Bourbon Street sotto lo pseudonimo di Evangeline the Oyster Girl e all’inizio del suo numero usciva da una conchiglia gigante. Ma anche nella cultura più "rispettabile" cibo e sesso sono collegati. In fondo, il cibo è alla base di tutti i riti umani. Come osserva Lionel Tiger in La ricerca del piacere (Lyra 1993), "in termini evolutivi l’unico processo più importante della condivisione del cibo tra le famiglie era lo scambio di partner. Ma le due cose erano anche strettamente legate: la cena di nozze serviva a creare una serie di implicazioni e significati". Gli indiani tzteltal del Chiapas, in Messico, portano questo concetto all’estremo: nelle famiglie tradizionali le giovani coppie sposate vanno a vivere con i genitori della sposa. Per i primi quindici giorni di matrimonio i due sposi non si parlano e non dormono insieme. Il loro unico mezzo di comunicazione è il cibo. Ogni sera la moglie cucina un pasto per il marito. Se tutto va bene il quindicesimo giorno i due possono dormire insieme. Evidentemente prendono molto sul serio i preliminari. Eva e la mela I maestri della letteratura sono tra i maggiori responsabili dell’accostamento tra cibo e sesso. Quella di Eva che schiude le labbra al frutto della conoscenza è forse la più celebre metafora culinarie-sessuale, ma non è certo un caso isolato nella Bibbia. Metà della bellezza lirica del Cantico dei cantici nasce da metafore sul cibo: "Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato"; "I tuoi germogli sono un giardino di melograni e con i frutti più squisiti". Alcune frasi sottolineano la correlazione diretta tra mangiare e amare: il cibo è un regalo per l’amato, e il luogo in cui gli amanti si incontrano è reso più bello dalle spezie e dai frutti. Certi passaggi sembrano suggerire che il cibo sia parte del cammino verso l’alcova: "Le mandragore mandano prorumo; alle nostre porte c’è ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi, mio diletto li ho serbati per te". Il Cantico dei cantici cita molti altri gustosi afrodisiaci del tempo: cannella, zafferano, fichi. Gli studiosi di cucina e gli scienziati tendono a ignorare o a ridicolizzare l’idea che un particolare ingrediente possa avere l’effetto del Viagra. Gli afrodisiaci gastronomici più famosi in occidente, il cioccolato e le ostriche, producono effettivamente una scarica ormonale, ma solo se presi in grandi quantità. Come spiega la critica gastronomica Amy Reiley, "per sentire l’effetto afrodisiaco del cioccolato bisogna mangiarne talmente tanto che è più facile andare in coma diabetico". L’autorevole storico culinario Alan Davidson sintetizza alla perfezione il concetto in The Oxford companion to food: "In breve, l’idea che esista un cibo davvero afrodisiaco fa il paio con quella della pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno". Come si spiegano allora le offerte di carote e di lingue di passero? Forse con il fatto che la nostra accoppiata, cibo e sesso, è in realtà un triangolo: cibo, sesso e superstizione. La libido umana è allo stesso tempo eccitabile e fragile: è facile solleticarla ma è altrettanto facile spegnerla. Spesso la sessualità dipende dai capricci della natura e dagli umori del partner, perciò non c’è da stupirsi che gli esseri umani abbiano cercato di controllarla con l’aiuto di stregoni, radici velenose, improbabili elisir e la risorsa più antica, il cibo, che ognuno di noi visceralmente riconosce come la linfa della vita. O forse ci ostiniamo a credere che dei particolari cibi possano portare al sesso perché in fondo c’è qualcosa di vero. Secondo l’antropologo Robin Fox, il cibo è legato al sesso perché la capacità del maschio di procurare il sostentamento risponde al bisogno femminile di riprodursi con un compagno che sia in grado di provvedere ai suoi figli. Sarà vero, ma forse è meglio una spiegazione meno clinica: l’atto stesso di procurare o preparare un piatto speciale può essere sexy di per sé. Il cibo è associato al benessere, e cucinare è un atto d’amore. Quando prepariamo o compriamo qualcosa di speciale per il palato di un potenziale amante creiamo quanto meno l’illusione dell’amore e della sicurezza, che di solito sono propedeutici al se sso. Nel suo libro Calore (Fandango 2007), Bill Buford descrive in maniera molto convincente il concetto del cucinare con amore: cucinare è un atto d’amore straordinariamente intimo che ognuno di noi fa per gli amici, i familiari e le persone amate. Ma cucinare serve anche a farsi amare: "La premessa di ogni pasto romantico è che stimolando e soddisfacendo un appetito se ne stimola per analogia anche un altro". Se vi siete fatte conquistare almeno una volta dalla scelta di un ristorante o dalla bravura in cucina di qualcuno, allora avete sperimentato le proprietà afrodisiache del cibo.