Jon Lee Anderson, Internazionale 2/8 marzo 2012, 7 marzo 2012
L’implosione della Siria – Damasco è una delle città più antiche del mondo, un luogo in cui il passato è insolitamente tenace
L’implosione della Siria – Damasco è una delle città più antiche del mondo, un luogo in cui il passato è insolitamente tenace. Negli ultimi anni alcune capitali mediorientali come Beirut e Amman si sono modernizzate, ma Damasco conserva i suoi edifici bassi di pietra e cemento. Non ci sono negozi Walmart o Starbucks, e i grattacieli con le pareti ricoperte da vetrate sono una rarità. La città sembra ancora quella dei tempi della guerra fredda, quando Mosca protegge va e finanziava il regime. I poliziotti siriani portano berretti in stile sovietico e grandi spalline. La facciata del palazzo dell’Unione nazionale degli studenti siriani si ispira al realismo socialista. Il tempo sembra essersi fermato al 1982, l’anno in cui il presidente Hafez al Assad represse la rivolta dei Fratelli musulmani nella città di Hama, uccidendo ventimila persone. Hama diventò cosi il simbolo della crudeltà del regime e un duro ammonimento per i potenziali oppositori. A quell’epoca c’erano ritratti di Hafez in tutto il paese. Oggi sono stati sostituiti da quelli di suo figlio Bashar, 42 anni, l’attuale presidente. Inizialmente Bashar non doveva seguire le orme del padre perché il successore designato era suo fratello maggiore Basil. Ma nel 1994, quando Basil morì in un incidente d’auto, Bashar fu richiamato in patria da Londra, dove studiava da oculista, per prepararsi a diventare il successore di Hafez. Fu mandato all’accademia militare di Homs e diventò colonnello, ma rimase nell’ombra fino al 2000, quando mori suo padre. In brevissimo tempo Bashar fu nominato capo delle forze armate e del partito Baath, al potere. A 34 anni fu eletto presidente. Nel 2007 è stato confermato come capo dello stato con il 98 per cento dei voti. Appena entrato in carica, Bashar si presentava come un tranquillo padre di famiglia, sostenitore della trasparenza, della democrazia, e nemico della corruzione. Dal 2000 ha consentito un accesso limitato a internet, ma non ha mai introdotto cambiamenti radicali. Ha messo in prigione i dissidenti, i giornalisti e gli attivisti per i diritti umani, mentre la sua polizia segreta ha fatto impunemente ricorso alla tortura. Nel 2005 ha annunciato "piena libertà per i partiti politici", ma lui e la sua famiglia continuano a governare il paese. Il partito Baath mantiene il potere dal 1963 grazie a una stretta sorveglianza sul paese. All’hotel Sheraton di Damasco si vedono spesso degli uomini dall’aria cupa, vestiti con lunghi cappotti di finta pelle. Sempre in coppia, siedono silenziosi nelle auto parcheggiate o sui divani della hall, fissando impassibili gli stranieri. Sono gli uomini della Mukhabarat, l’apparato delle agenzie di intelligence striane. La Siria è uno dei più pericolosi stati di polizia al mondo, simile all’ex Germania Est per la sua ampia rete di informatori. Nel marzo del 2011, sulla scia delle rivolte arabe, i siriani hanno rotto un lungo silenzio per chiedere delle riforme politiche. Assad ha promesso una serie di graduali concessioni che sarebbero culminate in una nuova costituzione. Nel frattempo, però, le forze di sicurezza hanno ucciso, arrestato e torturato centinaia di manifestanti disarmati. Molte persone sono fuggite in Libano e in Turchia. Nel corso dell’estate gruppi di disertori hanno dato vita a una ribellione armata, attaccando le forze del regime dalle loro basi all’estero. Mentre la protesta pacifica si trasformava in una rivolta violenta, i siriani hanno cominciato a temere la guerra civile, una prospettiva allarmante per un paese così diviso. Bashar al Assad è a capo di un regime laico dominato dagli alawiti, una corrente minoritaria dell’islam sciita. I cristiani, la seconda minoranza più importante del paese, sono schierati con loro e insieme rappresentano un quinto dei 22 milioni di abitanti della Siria. La maggioranza è formata da musulmani sunniti, mentre tutti gli altri sono una complicata mescolanza di rifugiati palestinesi, drusi, beduini, curdi, armeni, circassi, turchi e poche decine di ebrei. Un professore di relazioni internazionali di Damasco mi ha detto: "In Siria ci sono 47 gruppi etnici e religiosi. Non è possibile dividere il paese, è come un bicchiere d’acqua. Se cade, non esiste più". Sulla via dei contrabbandieri Nel resto della regione i governi si sono schierati con il regime o con i ribelli in base alla loro religione. I governi sciiti dell’Iraq e dell’Iran appoggiano Assad, mentre i sunniti dell’Arabia Saudita, del Qatar e della Turchia chiedono le sue dimissioni. Secondo molti, è in corso un conflitto per procura. La minoranza sunnita irachena, che qualche anno fa ricevette aiuti dalla Siria per ribellarsi all’occupazione statunitense, ha raccolto denaro e armi da mandare agli insorti siriani. La Lega araba, temendo che il conflitto si espanda, ha sospeso la Siria e ha chiesto ad Assad di dimettersi. Invece Assad ha intensificato gli attacchi. Il 3 febbraio l’esercito siriano ha lanciato un fuoco di fila di razzi, bombe e colpi di mortaio contro un quartiere ribelle di Homs, uccidendo centinaia di uomini, donne e bambini. A quasi un anno dall’inizio della rivolta, le prospettive sono inquietanti. Oltre a Homs, che per più di un terzo è nelle mani dei ribelli, ci sono combattimenti in varie città e villaggi, soprattutto lungo il confine con la Turchia e il Libano. Le vittime stimate sono più di seimila (alcuni parlano di 7.600 morti), decine di migliaia di persone sono state arrestate, compresi dei ragazzini, e quasi centomila siriani sono fuggiti all’estero. Nonostante il bilancio delle vittime, Assad non da segni di cedimento. "Per Bashar o la va o la spacca", ha commentato un diplomatico occidentale che vive a Damasco. "È una questione di sopravvivenza. Finché i servizi di sicurezza saranno forti e uniti, non si dimetterà perché sa che questo segnerebbe la sua fine". La città di Zabadani sorge tra i monti una trentina di chilometri a nordest di Damasco, vicino – come dicono le leggende locali – al luogo dove Caino uccise Abele. Questa graziosa enclave di quarantamila abitanti sul confine libanese è un luogo di villeggiatura per i ricchi di Damasco e per gli arabi del golfo Persico. Ma si trova anche su una vecchia via usata dai contrabbandieri, che sembra sia servita a far arrivare dal Libano le armi per i ribelli. Dalla primavera del 2011 l’esercito siriano l’ha attaccata varie volte, uccidendo decine di insorti, mentre gli abitanti della città sono scappati tra le montagne per mettersi al riparo. L’unità locale dell’Esercito siriano libero (Esl) è riuscita a resistere agli attacchi e ha raggiunto una tregua con la quarta divisione dell’esercito, che opera nella zona. L’amministrazione locale baathista ha ridotto la sua presenza in città e l’Esl ha dichiarato Zabadani "zona liberata". Per la prima volta a memoria d’uomo, il governo siriano ha ceduto pacificamente il controllo di una parte di territorio nazionale. Nessuno sa bene come interpretare la decisione. Alla fine di dicembre del 2011 il governo siriano ha permesso alla Lega araba di mandare un piccolo gruppo di osservatori in Siria. Il 21 gennaio mi sono unito alla delegazione in visita a Zabadani. Ci siamo fermati davanti a un edificio pubblico protetto da una barriera di sacchi di sabbia e da alcuni uomini armati. I soldati hanno fatto entrare in fretta gli osservatori, una decina di diplomatici algerini, sudanesi e marocchini. C’era qualche negozio aperto ma i commercianti e i passanti ci guardavano in silenzio senza lasciar capire da che parte stavano. Il palazzo, la sede locale del partito Baath, era occupato da un contingente dell’esercito siriano, l’ultima rappresentanza del regime a Zabadani. Sotto un enorme ritratto di Assad, il comandante ci ha spiegato la situazione in tono piatto e diplomatico: "In città c’erano forti contrasti tra le due parti, perciò nell’interesse del paese è stato raggiunto questo accordo". A poche centinaia di metri c’era la Siria "liberata". Quando siamo arrivati alcuni giovani sono usciti per strada gridando. Dicevano che una settimana prima le truppe governative erano state lì e per tre giorni avevano attaccato la città con carri armati, razzi e mitragliatrici pesanti. Un contadino ha indicato gli orti distrutti: "Dovreste vedere cos’hanno fatto ai meli". Un altro ha detto: "I carri armati sono alle porte della città. Appena ve ne andrete, entreranno". Gli abitanti di Zabadani, in maggioranza sunniti, si erano radunati in piazza e gridavano : "Dio è più grande dell’ingiustizia". Dicevano anche: "Vogliamo che la crisi diventi internazionale", una frase che un uomo barbuto dall’aria stanca ha interpretato come la richiesta di un intervento esterno, una no-flyzone dell’Onu simile a quella imposta in Libia. Quelle persone chiedevano protezione: i ribelli sostengono di avere quarantamila combattenti in tutto il paese, ma l’esercito ne ha mezzo milione, se si contano anche i riservisti e le milizie. Nell’estate del 2011, mentre la rivolta prendeva forza, Assad ha fatto un discorso in tv: "I cospiratori sono come una malattia, i cui germi si riproducono e si diffondono continuamente. È impossibile distruggerli tutti. Ma dobbiamo rafforzare le nostre difese immunitarie" (in risposta i manifestanti cantavano in coro: "I germi vogliono la caduta del regime"). "Quello che succede in Siria non ha niente a che vedere con lo sviluppo o le riforme. È solo sabotaggio", ha aggiunto Assad. Alla fine di gennaio il ministero dell’informazione siriano ha organizzato la visita di un gruppo di giornalisti nella città assediata di Homs. Nel cortile dell’ospedale militare, una banda di ottoni aspettava il nostro arrivo in autobus vicino a un gruppo di ufficiali con in mano delle corone funebri. A terra c’erano tre bare coperte dalle bandiere siriane. Erano tre soldati uccisi vicino a Homs, due dei quali caduti in un’imboscata il giorno prima. I medici e le infermiere cantavano: "O Bashar, daremo il sangue e l’anima per te". Poi, tra i lamenti delle donne, alcuni soldati hanno sollevato le bare e hanno cominciato a camminare lentamente, mentre la banda intonava la marcia funebre. Le persone presenti li hanno seguiti e le donne ripetevano: "Evviva l’esercito. Dio, la patria e Bashar sono tutto quello che ci serve". Dietro l’angolo c’era un furgone bianco con il portellone aperto, che è partito non appena hanno caricato le bare. Il funerale era finito. Tornati sull’autobus, gli uomini della scorta ci hanno detto che saremmo andati nel quartiere di Hamidiya, dove potevamo scendere per parlare con la gente, ma senza allontanarci. Uno di loro ci ha spiegato nervosamente che i ribelli occupano "molte zone di Homs" dove l’esercito non entra. A mezzogiorno le strade erano deserte e l’aria densa di nebbia. L’autobus è andato a zigzag attraverso barricate formate da pietre e bidoni, e si è fermato a un incrocio dove alcuni soldati si erano rannicchiati dietro un muro di sacchi di sabbia. Il proprietario di un negozietto, un uomo di mezz’età dall’aria simpatica, ci ha spiegato che la situazione a Homs "non era tanto buona" e ha indicato Khalidiya, un quartiere sunnita controllato dai ribelli a qualche isolato di distanza. "Attaccano e se ne vanno. Sono invisibili", ha detto. C’erano stati sequestri e uccisioni di alawiti e cristiani. Mi sono accorto che il negozio vendeva vino. Il proprietario mi ha spiegato che era cristiano, come la maggior parte degli abitanti di quel quartiere. I cristiani, circa il 10 per cento della popolazione, sono per lo più dei sostenitori del governo e temono quello che potrebbe succedere se i sunniti andassero al potere. Sulla strada si erano raccolte un po’ di persone. Tra loro c’era un uomo muscoloso che mi ha detto di chiamarsi Maher. Anche lui cristiano, come il negoziante. Ha lavorato per anni sulle piattaforme petrolifere di un’azienda statunitense, ma ha deciso di tornare a Homs per proteggere la sua famiglia. I ribelli, mi ha spiegato, stanno occupando le case per usarle come basi da cui attaccare le forze governative. Qualche giorno prima l’esercito aveva ripreso il controllo di alcune strade e qualche negozio aveva riaperto. Si poteva andare a lavorare e i bambini erano tornati a scuola. Abbiamo sentito dei colpi provenire dalla direzione di Khalidiya e Maher ha guardato su e giù per la strada. "Non sono un sostenitore del presidente e non sono iscritto al partito", ha detto. "Ma ho capito come stanno le cose". Ripetendo le parole della propaganda governativa, ha detto che i ribelli sono trafficanti di droga, criminali e terroristi di Al Qaeda. Una volta, mi ha raccontato, a un posto di blocco i ribelli hanno fermato una coppia di anziani e gli hanno sparato perché erano alawiti. "Il governo dovrebbe essere più duro", ha detto Maher. "Non mi importa se devo stare chiuso in casa per tre giorni mentre loro svuotano le altre case ". Il regime non riesce a controllare tutto quello che noi giornalisti possiamo vedere. La piazza dell’Orologio, nel centro di Homs, è il posto dove sono state represse nel sangue le prime proteste. Nell’aprile del 2011, durante un sit-in, l’esercito ha attaccato i manifestanti uccidendo decine di persone. Quando siamo arrivati, la piazza era praticamente deserta. L’autobus ci ha fatto scendere tre isolati prima, davanti a un vecchio caffè. Avevamo percorso un solo isolato quando i nostri accompagnatori ci hanno chiesto nervosamente di tornare indietro. Un uomo alto e massiccio con la barba grigia stava gridando in inglese: "Perché siete qui? Non è qui che dovete venire". E indicando i quartieri dei ribelli, ha aggiunto: "Andate a Baba Amr. Andate a Khalidiya, è lì che dovreste andare". I nostri accompagnatori hanno cercato di farci tornare sull’autobus ma eravamo impegnati a sentire quello che diceva l’uomo con la barba che, come abbiamo scoperto dopo, è un noto avvocato. Gridava che in città succedevano cose terribili. Quando qualcuno gli ha chiesto chi erano i responsabili, ha lasciato capire che il regime manda i suoi scagnozzi a intimidire la gente. "Non so se sono dell’esercito o della sicurezza", urlava. "Portano scarpe da ginnastica. Avete mai visto un militare con le scarpe da ginnastica?". Ai margini della folla sono apparsi degli uomini con la giacca di pelle nera: erano probabilmente degli shabiha, i teppisti al servizio del regime, o agenti dell’intelligence. Erano in gruppo e bisbigliavano, poi qualcuno si è avvicinato all’uomo con la barba. Alcuni anziani sono usciti dal caffè e hanno cercato di portarlo dentro, ma lui li ha allontanati. Un giornalista gli ha chiesto: "Com’è la vita qui?". "La vita?", ha gridato l’uomo agitando le braccia. "Non c’è vita in Siria". Alcuni uomini gli si sono raccolti intorno, urlando per coprire le sue parole. Uno di loro si è rivolto a noi dicendo: "Potete andare dove volete a Homs! Va tutto bene". Un altro gli ha chiesto in tono di sfida: "Vuole che la Nato intervenga anche in Siria? È questo che vuole?". Tutti gridavano e spingevano, la polizia segreta era dappertutto. L’uomo con la barba ci ha gridato: "Scrivete il mio nome! Domani lo troverete nella lista dei morti". Poi è scoppiato il caos e la folla l’ha trascinato via. Quando ho incontrato Bassam Abu Abdullah, un esponente del partito Baath, ho notato che indossava un orologio dal quadrante decorato con l’immagine di Bashar al Assad. Abdullah, un uomo sulla quarantina quasi calvo e con i baffi, insegna affari internazionali all’università di Damasco ed è un sostenitore del governo. Mentre prendevamo un caffè ha affermato che, nonostante gli errori, le intenzioni del regime sono buone e le riforme annunciate non sono solo concessioni strategiche. "La Siria cambierà", mi ha assicurato. "Ma l’importante è sapere come sarà gestito il cambiamento. Abbiamo visto quello che è successo in Iraq, in Libia e nello Yemen, e non ci è piaciuto". In effetti il governo ha introdotto alcune riforme, ma soprattutto in materia di economia e a favore dei ricchi. "Si è dimenticato del popolo", ha detto Abdullah. "In Siria la popolazione non sta bene come in occidente, e si rivolge ancora allo stato come a una madre". In mancanza di opportunità economiche, i sentimenti religiosi si sono accentuati, soprattutto tra i poveri. Il governo, ha detto, avrebbe dovuto garantire una maggiore apertura politica e consentire una maggiore libertà di espressione. Ma tutti questi problemi, ha continuato, sarebbero stati risolti con la nuova costituzione (che è stata approvata il 26 febbraio 2012 con un referendum popolare). Secondo Abdullah, le violenze sono orchestrate dall’esterno, dai servizi segreti giordani, dai trafficanti di droga e dagli islamisti. I manifestanti sono degli "ignoranti" che qualcuno sta strumentalizzando. "Alcuni pensano di volere la libertà, ma non sanno niente della libertà. Pensano che equivalga al disordine". Lo scetticismo nei confronti dei ribelli è molto diffuso tra i sostenitori di Assad. Un influente uomo d’affari, Nabil Toumeh, mi ha detto che la situazione siriana è il risultato di un piano, escogitato qualche anno fa dallo stratega americano Zbigniew Brzezinski e appoggiato da Israele, per aiutare i Fratelli musulmani a estendere il loro dominio in tutto il Medio Oriente. Ma a Zabadani un manifestante sunnita mi ha detto: "Qui non ci sono i Fratelli musulmani. Certo, la popolazione è musulmana, ma i Fratelli musulmani non c’entrano nulla. Vogliamo solo la libertà, vogliamo manifestare in pace senza che ci sparino addosso". Si sa ben poco dei ribelli. Come mi ha detto Salim Kheirbek, uno dei primi dissidenti, "quelli che partecipano alla resistenza non sono più del 30 per cento della popolazione. Il resto dei siriani è dalla parte del regime o tace perché non è convinto, soprattutto dopo quello che è successo in Iraq e in Libia. La popolazione vuole le riforme, ma non a ogni costo". Secondo una persona molto vicina ad Assad, l’Esercito siriano libero è composto da un migliaio di disertori, mentre tutti gli altri sono dei fanatici. Un imprenditore di Homs stima che due terzi dei combattenti dell’Esl siano ex soldati: i combattenti dell’opposizione che ho conosciuto dicono di essere stati costretti dai loro superiori a sparare sui civili e di aver avuto una crisi di coscienza che li ha spinti a unirsi a chi la pensava come loro. Questa versione dei fatti è convincente. Molti affermano di voler solo proteggere i civili e sostengono che smetteranno di combattere appena Assad e i suoi collaboratori si dimetteranno. Dicono di non avere pregiudizi verso le altre religioni – e di essere contro gli alawiti solo perché governano il paese – pur ammettendo che la spaccatura con il regime è di tipo settario. La maggior parte dei soldati semplici è sunnita, mentre gli ufficiali sono quasi tutti alawiti. Anche se i ribelli ora sostengono di non avere pregiudizi, di certo gli estremisti islamici cercheranno di far sentire la loro voce all’intemo dell’opposizione. Poco tempo fa il leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, ha lanciato un appello al jihad in Siria, mentre a Damasco e ad Aleppo ci sono stati attentati suicidi che ricordano molto quelli organizzati da Al Qaeda. Ma, più in generale, l’opposizione siriana sembra riflettere le richieste di quella parte della cittadinanza che dopo quarantadue anni non sopporta più di vivere in uno stato di polizia. Alcuni hanno subito violenze da parte della polizia segreta e cercano vendetta, altri sono ispirati dall’odio religioso, altri ancora si sentono dei veri patrioti, che rifiutano di servire un regime repressivo. Non è possibile prevedere quale tra queste fazioni prenderà il sopravvento, ma è probabile che sia quella disposta a usare i metodi più violenti. La Siria è in guerra con se stessa e, inevitabilmente, tutti dipingono come vogliono i loro nemici e tengono nascosti i loro piani. Perfino l’Esl non ha saputo ancora darsi un profilo preciso. I primi ribelli che ho incontrato a Damasco, la mattina del 25 gennaio, erano tesi e sospettosi. Eravamo nel quartiere di Saqba, noto per la produzione di mobili, e a un grande incrocio alcuni guerriglieri con il volto coperto dalle kefiah e armati di kalashnikov fermavano gli automobilisti per controllare i documenti. Ero con il mio interprete siriano, Abdullah. I ribelli ci hanno fatto scendere dalla macchina chiedendoci i documenti. Dall’altra parte della strada c’erano altri uomini armati e uno si è avvicinato con un lanciagranate in spalla. Dopo aver studiato attentamente la carta d’identità di Abdullah ed essersi assicurati che non fosse un agente del regime, i ribelli hanno accettato di parlare con noi in un garage lì vicino. Quando ho chiesto perché combattevano, uno di loro ha risposto: "Vogliamo che smettano di uccidere i bambini e violentare le donne". Un altro ha aggiunto: "Vogliamo un paese libero, senza razzismo, in cui tutti abbiano le stesse opportunità". Diversi di loro hanno tirato fuori un tesserino di plastica azzurro per indicare che erano disertori dell’esercito. Erano tutti sui vent’anni. Uno ci ha detto che aveva prestato servizio a Daraa, dov’è cominciata la rivolta. Un altro era della provincia settentrionale di Idlib, un terzo di Homs. "Siamo soldati e ci hanno ordinato di uccidere dei civili", ha detto un ragazzo. "Io ero a un posto di blocco. E se non avessi sparato, avrebbero sparato a me". Marcia indietro a Rankus Abbiamo attraversato il territorio controllato dai ribelli per un paio di chilometri, passando davanti a uomini armati accanto alle barricate, altri di pattuglia nelle macchine e adolescenti in abiti civili che facevano da sentinelle. L’atmosfera era carica di tensione. Quasi tutti i negozi erano chiusi, ma un salone di mobili era aperto e il proprietario ci ha invitato a sedere nel suo ufficio. C’era un caminetto acceso. Un commesso ci ha portato il tè. La situazione, ci ha detto il negoziante, era "spiacevole". Non immaginava che avrebbe visto i ribelli nel suo quartiere. L’esercito striano non entrava a Saqba da un mese, da quando erano arrivati gli osservatori della Lega araba. "II governo cerca di evitare guai", ci ha spiegato. Ma il tutto era cominciato proprio a causa "delle violenze compiute dalle forze di sicurezza". Poi ha fatto una pausa: "Non si può andare avanti così. Il governo dovrebbe tenere conto dei diversi punti di vista. Ci sono persone favorevoli al regime e persone contrarie. Devono imparare ad ascoltarsi a vicenda. Io non sto con nessuno. Quello che voglio veramente è che il governo acceleri le riforme. Sappiamo che l’esercito può venire qui, distruggere tutto e imporre il suo ordine, ma che senso avrebbe? Non sarebbe meglio mettersi d’accordo?". La mattina del 28 gennaio ho seguito gli osservatori della Lega araba a Rankus, una cittadina di montagna controllata dai ribelli una trentina di chilometri a nord di Damasco. Su un altopiano coperto di neve, vicino all’antica città cristiana di Sednaya, c’era una postazione dell’esercito governativo. Da lì la strada si addentra in una gola. Gli osservatori sono scesi dalle macchine e hanno fatto due passi per respirare l’aria di montagna. Dopo qualche minuto sono tornati nelle loro auto. Avevano deciso di non andare a Rankus. Il capo della delegazione mi ha riferito che il comandante della postazione gli aveva detto che a Rankus c’erano molti cecchini e che avrebbero potuto attaccarci. Gli ho fatto notare che se gli osservatori potevano andare solo dove voleva il regime, tanto valeva che tornassero a casa. Il diplomatico ha annuito. Se le cose fossero andate avanti così, la missione sarebbe stata sospesa. Io e altri giornalisti abbiamo deciso di proseguire e, dietro una curva, abbiamo incontrato un nuovo posto di blocco. I soldati sono corsi fuori e ci hanno chiesto dove stavamo andando. Abbiamo indicato Rankus. "È pericoloso", ci hanno detto, ma ci hanno lasciato passare. Dopo qualche chilometro abbiamo incrociato quattro furgoni che trasportavano delle famiglie. Si sono fermati a parlare con noi, spiegandoci che erano fuggiti dopo una notte di bombardamenti dell’esercito appostato sulle colline. Uno degli uomini ci ha indicato i solchi dei cingolati nel fango che andavano verso i campi coperti di neve e sparivano oltre una cresta. Su ventimila abitanti, ha detto, erano rimaste solo una cinquantina di famiglie. All’ingresso di Rankus c’era una barricata, un mucchio di terra, pietre e barili vuoti. Su uno c’era scritto con la vernice spray nera: "Jaysh al hurr", esercito libero. Ci siamo fermati in una piazzetta ed è arrivata una camionetta carica di guerriglieri per guidarci attraverso le strade deserte fino a una casa vicino a una moschea. Al suo interno, in una stanza al piano superiore riscaldata da una vecchia stufa a legna, un giovane dai capelli corti in uniforme ci ha invitato calorosamente ad accomodarci. Era Abu Khaled, 33 anni, il comandante del contingente dell’Esercito striano libero a Rankus. Fino a pochi mesi prima era un ufficiale dell’esercito governativo, assegnato a un posto di blocco in uno dei quartieri più caldi di Homs. C’erano state molte violenze, ha detto. A un certo punto un suo collega aveva sparato a una donna e a un bambino senza alcun motivo, solo per dare "una lezione" agli abitanti del quartiere. Alla fine Abu Khaled aveva disertato insieme a trenta dei suoi uomini. Sono originari di varie zone della Siria ma hanno accettato di andare con lui a difendere la città dov’è cresciuto. L’Esl controllava Rankus da diverse settimane, mi ha detto, e negli ultimi cinque giorni l’esercito aveva circondato la città. L’aveva attaccata con i carri armati e la contraerea, e dall’alto c’erano i cecchini che sparavano. Gli uomini di Abu Khaled avevano solo un mortaio, un fucile di precisione e i kalashnikov che avevano portato con loro. Abu Khaled mi ha passato il suo cellulare per farmi vedere un breve filmato. Mostrava un giovane in uniforme tra le braccia di qualcuno che lo confortava mentre stava morendo. Abu Khaled si è messo una mano sul cuore. Era uno dei suoi uomini, e quelle che lo tenevano erano le sue braccia. Abbiamo sentito dei colpi e qualcosa è passato sibilando sopra la casa. Abu Khaled ha dato l’ordine di scappare e, mentre i suoi uomini si affrettavano a uscire, ci ha chiesto di spegnere i cellulari e di togliere le sim per evitare che ci rintracciassero. Sulla porta uno degli uomini, Abdui Karim, mi si è messo davanti e mi ha chiesto di abbracciarlo: mi avrebbe fatto da scudo mentre scendevamo le scale. In una casa vicina siamo stati accompagnati in una stanza sul retro, dove ci ha accolto una giovane coppia con un neonato e una donna più anziana. Ci hanno fatto sedere e portato del tè, mentre fuori si continuava a sparare. La donna anziana ha tagliato piangendo alcune mele e ha insistito perché le mangiassimo. Le ho chiesto perché non era fuggita. Mi ha risposto che la sua famiglia era povera e non aveva parenti da cui andare. Abu Khaled ha detto con voce calma: "Siamo pronti a morire per difendere queste persone". Lui e i suoi compagni non erano spinti dall’odio per gli alawiti. La questione era delicata e lui all’inizio li ha definiti semplicemente "quelli di una certa setta". A Homs l’odio religioso è stato alimentato dal regime. C’erano quarantasei posti di blocco dell’esercito dentro e intorno alla città, ha detto, e in ognuno c’era un agente della Mukhabarat. "Hanno convinto i giovani che questo è un complotto israeliano, o che stanno combattendo contro Al Qaeda". La giovane donna, che ci stava ascoltando, è intervenuta dicendo: "Homs è una città sunnita. È per questo che ci sparano". Alla fine del pomeriggio la casa accanto è stata colpita e uno dei ribelli è stato ferito a una gamba. Fuori continuavano a sparare e non era possibile andarsene. I soldati sapevano che eravamo lì eppure avevano cominciato ad attaccare la città. Ho chiamato il funzionario siriano più importante che conoscevo, il portavoce del ministro degli esteri Jihad Makdissi, e gli ho chiesto di fermare l’attacco per permetterci di andar via. Per un attimo mi ha fatto la predica: perché eravamo andati a Rankus senza permesso? Ma poi ha accettato di intercedere per noi. Alla fine è arrivata una telefonata in cui ci comunicavano di lasciare immediatamente la città. Fuori non stavano più sparando. Un giovane combattente ci ha fatto strada con la macchina fino alla piazza e poi ci ha lasciato attraversare lo spazio aperto. Al posto di blocco dell’esercito, i soldati ci aspettavano con le armi puntate. Uno di loro, un adolescente, ci ha girato intorno fissandoci attentamente con il dito sul grilletto. Un ufficiale ci ha chiesto urlando in tono rabbioso se avevamo visto dei ribelli in città. Abbiamo ammesso che ce n’erano alcuni ma che e’erano anche dei civili. Ci ha lanciato uno sguardo cupo dicendoci che i suoi soldati erano stati attaccati dai terroristi, qualcuno era rimasto ferito e altri erano morti. Quando finalmente ci ha lasciato andare era già sera e l’aria era gelida. Mentre scendeva la notte abbiamo attraversato la pianura innevata in direzione di Damasco. C’erano carri armati dovunque, nei campi lungo la strada e agli incroci. Sembrava che stesse per cominciare una grande offensiva. Quella notte l’esercito ha ricominciato a bombardare Rankus e il giorno dopo ha lanciato vari attacchi. Gli uomini di Abu Khaled hanno opposto resistenza, uccidendo alcuni soldati. La missione della Lega araba è stata ufficialmente sospesa. Il giorno dopo ancora, l’esercito ha mandato le sue truppe alla periferia di Damasco, poi a Zabadani e a Homs. È stata un’offensiva a tappeto, anche se non formalmente dichiarata. Poco dopo è arrivata la notizia che Abu Khaled e suo figlio erano stati uccisi. Come l’Iraq? Il 30 gennaio sono andato all’ospedale militare di Tishreen, a Damasco, per parlare con i soldati feriti. Nei tre giorni precedenti ne erano arrivati una cinquantina al giorno, dentro e fuori la città. Lungo la strada abbiamo incrociato dei camion carichi di uomini in tenuta da combattimento e a Saqba i soldati stavano bloccando le strade di accesso. Dai luoghi degli scontri salivano colonne di fumo nero. Il mio accompagnatore mi ha chiesto preoccupato: "La Siria farà la fine dell’Iraq?". Fino a quel momento non aveva capito quanto fosse grave la situazione. "Ci stiamo rifiutando di vedere la realtà?", mi ha chiesto. Quello stesso giorno il diplomatico occidentale che avevo incontrato a Damasco mi ha detto che ormai era troppo tardi per impedire alla Siria di precipitare nella guerra civile. Aveva sperato in un accordo negoziato, simile a quello stipulato nello Yemen, un "atterraggio morbido grazie al quale gli Assad sarebbero saliti su un aereo con tutti i loro giocattoli per andare a Dubai o da qualche altra parte". Ma la Russia si è opposta. Nessuno sapeva come negoziare con i ribelli e, fino a quando l’opposizione non ha convinto gli alawiti che non erano loro il bersaglio della rivolta, una tregua con l’esercito sembrava impossibile. Il regime non può resistere in eterno. Mentre i disordini si allargano a tutto il paese, l’esercito è allo stremo e sulla linea del fronte il cibo e il carburante stanno finendo. I soldati sono stanchi e demoralizzati. Anche se il regime ha tagliato l’elettricità, e non fa arrivare rifornimenti e medicine ai ribelli, l’opposizione si sente sempre più sicura. Un altro diplomatico in servizio a Damasco mi ha detto: "La popolazione non ha più paura. Ormai è scesa in strada e ci rimarrà. Non ho mai avuto dubbi sulla violenza del regime, ma non mi ero reso conto di quanto fossero stupidi i suoi leader. Li abbiamo avvertiti che se cominciavano a sparare alle persone, prima o poi la gente avrebbe cominciato a sparare a loro. Anche se ora volessero avviare le riforme, non basterebbe a sistemare le cose. Sono costretti a continuare la repressione". Secondo il direttore di un giornale filogovernativo della capitale, il paese faticherà a liberarsi di Assad. "Il crollo del regime provocherà una scia di sangue, le varie comunità si scateneranno le une contro le altre come in Ruanda", ha detto. "Lo stato deve continuare a funzionare, altrimenti scoppieranno conflitti tra fazioni come a Homs. Assad non si dimetterà, perché lui è l’esercito. L’unico modo per salvare il paese è appoggiare il regime e sperare che cambi. Tutte le altre soluzioni porterebbero alla guerra civile e al crollo dello stato". A Damasco ho incontrato Aimad al Khatib, un imprenditore sunnita sulla cinquantina che incarna la confusa interazione tra le varie fazioni siriane. Qualche tempo fa, a Homs, mentre era in macchina è stato fermato da tre uomini armati di pistola. Dopo essersi fatti consegnare tutti i soldi che aveva, la carta d’identità e il cellulare, hanno preso l’auto e se ne sono andati. Khatib è andato alla sede locale dei ribelli e un’ora dopo hanno trovato i colpevoli. "Mi hanno restituito le chiavi dell’auto, i soldi e il resto, tranne il cellulare, ma me lo hanno rimborsato", ha detto Khatib. "Mi hanno fatto vedere gli uomini che avevano preso e, quando li ho identificati, hanno cominciato a picchiarli davanti a me. Quelli che mi hanno derubato sono gli stessi che uccidono gli alawiti per strada". Khatib è il capo del Partito di solidarietà nazionale, uno dei quattro partiti che sono stati riconosciuti legalmente lo scorso dicembre. Ha partecipato a un tentativo di mediazione tra il governo e l’opposizione, ma ha rinunciato quando ha capito che il regime avrebbe continuato a usare la forza. La sua sembra cinica rassegnazione. I russi appoggiano Assad per mantenere il loro prestigio internazionale, l’Arabia Saudita lo attacca per indebolire l’Iran, la Turchia vorrebbe portare al potere i Fratelli musulmani. Khatib spera in "un vero governo di unità nazionale che comprenda anche gli alawiti ". Ma con la violenza sempre più diffusa, sembra sia troppo tardi per questo. "Cosa succederà?", gli chiedo. "La guerra civile". "Quando comincerà?". "È già cominciata". Poche persone in Siria lo dicono così chiaramente, e ho chiesto a Khatib se era preoccupato. "Se Dio vuole prendersi la mia anima, faccia pure", ha risposto con un debole sorriso.