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 2012  marzo 05 Lunedì calendario

Junkbonds, la seconda ondata sul mercato torna la voglia di rischio – Da quando la grande mela luminosa, simbolo dell’anno nuovo, è calata su Times square tra le urla festose di un milione di turisti e newyorkesi, i fondi di investimento americani specializzati in junk bonds, le obbligazioni ad alto rischio e alto reddito, hanno fatto faville attirando capitali per 11,8 miliardi di dollari: più della raccolta dei fondi azionari e di quelli specializzati in emissioni più solide

Junkbonds, la seconda ondata sul mercato torna la voglia di rischio – Da quando la grande mela luminosa, simbolo dell’anno nuovo, è calata su Times square tra le urla festose di un milione di turisti e newyorkesi, i fondi di investimento americani specializzati in junk bonds, le obbligazioni ad alto rischio e alto reddito, hanno fatto faville attirando capitali per 11,8 miliardi di dollari: più della raccolta dei fondi azionari e di quelli specializzati in emissioni più solide. In Europa, secondo l’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg, la Deutsche Bank, la Morgan Stanley e l’immancabile Goldman Sachs stanno vendendo prodotti derivati di recente creazione e "personalizzati" per i clienti più facoltosi. Quanto a John Paulson, il mago degli hedge fund che nel 2007 guadagnò 15 miliardi di dollari speculando sul tracollo dei mutui subprime, compra a man bassa, a prezzi di saldo, titoli legati al mercato immobiliare. segue alle pagine 4 e 5 con un servizio di Eugenio Occorsio Perché junk bond e derivati, considerati i maggiori colpevoli della crisi finanziaria e finiti alla gogna negli ultimi quattro anni, sono di nuovo in auge? «La propensione al rischio sembra in crescita ovunque, persino in Europa», risponde Frank Frecentese, responsabile degli hedge fund di Citigroup. «L’assunzione di rischi è tornata di moda», gli fa eco Thomas Montag, numero due di Bank of America, ipotizzando una "crescita geometrica" del fondo di 30 miliardi di dollari per investimenti alternativi gestito dalla consociata Merrill Lynch. La propensione al rischio finanziario che a Wall Street viene chiamata con metafora alimentare "risk appetite" è la somma algebrica di due fattori: i potenziali benefici di un investimento e i pericoli ad esso legati. Fu il premio Nobel per l’economia Harry Markowitz ad avviare le ricerche in questo campo con la pubblicazione nel 1952 del saggio Portfolio selection. Più di recente un team di scienziati dell’università di Kyoto ha individuato nella "noradrenalina", l’agente chimico endogeno che spiegherebbe la propensione al rischio nei singoli individui. Chi ne ha più, e chi ne ha meno. Ma al di là delle interpretazioni economiche o neurologiche, resta il dato empirico: più gli investimenti sono rischiosi, più rendono e viceversa. Allo scoppio della crisi nel 2008, quando i tracolli di Bear Stearns (in aprile) e Lehman Brothers (in settembre), colsero di sorpresa il mondo della finanza, l’appetito per il rischio si trasformò in avversione. Ingenti capitali si spostarono da impieghi divenuti traballanti verso titoli di stato, beni rifugio, depositi bancari. Risultato: negli Stati Uniti, 400 miliardi di dollari sono fuoriusciti dai fondi azionari solo negli ultimi quattro anni, contribuendo alla lunga stasi dei mercati. Ma adesso si intravede un cambiamento di direzione, confermato dal recupero dei due maggiori indici di Wall Street, Dow Jones e S&P. Il Dow Jones è tornato sopra quota 13mila: è ancora lontano dal record di 14.164 dell’ottobre 2007, ma ha infranto un’importante barriera psicologica. L’indice Standard & Poor’s 500, considerato dagli analisti il più rappresentativo del mercato azionario d’oltreoceano, ha toccato quota 1372, il livello massimo dal giugno 2008, quasi a voler segnare la chiusura di un capitolo doloroso della recente storia finanziaria. Miliardi di dollari escono dai titoli di stato per dirigersi verso fondi azionari e commodity. Va ricordato che già l’anno scorso di questi tempi, e anche brevemente all’inizio del 2010, i mercati cercarono di riprendersi dalla stagnazione: ma si è rivelata una doppia falsa partenza che costò cara ai più temerari. Ma adesso è diverso, perché l’economia mondiale, e in particolare nei due paesi leader, Cina e Usa, mostra un miglioramento reale e perché il quadro finanziario sembra più sereno, specie dopo la maxiimmissione di liquidità da parte della Bce di Mario Draghi. «Il rally è sostenibile», assicura Khiem Do, stratega del Baring asset management di Hong Kong, che gestisce 46 miliardi di dollari. Intendiamoci: restano ancora molte incertezze, legate ad esempio alla possibilità di un’azione militare contro i programmi atomici iraniani, che porterebbe ancor più in alto il prezzo del petrolio, o alla situazione in Europa, dove i problemi di debito pubblico, recessione e default della Grecia sono stati per il momento tamponati ma non ancora risolti. A dispetto di queste incognite, un numero crescente di economisti ed esperti ipotizza traguardi record per l’anno in corso, non solo in Asia e nei paesi emergenti, dove le Borse sembrano aver dimenticato il periodo buio, ma anche negli Stati Uniti. Jeremy Siegel, professore alla Wharton business school e punto di riferimento di un paio di generazioni di top manager e finanzieri di successo, prevede che il Dow Jones possa toccare il massimo storico entro il 2012. Il suo ragionamento è semplice. Negli ultimi cinque anni il mercato azionario americano è cresciuto in media dello 0,8%, molto meno dell’aumento medio del 9,5% registrato dal 1926 in poi. E la storia di Wall Street dimostra, secondo Siegel, che ogni flessione del genere viene seguita da una impennata del 12,5% all’anno per un decennio. Anche Laszlo Birinyi, un analista molto ascoltato, arriva alle stesse conclusioni mettendo in relazione la caduta in atto dei rendimenti del reddito fisso (come accadde nel 1995) con la forte ripresa azionaria. A suo avviso l’indice S&P 500, che ha già guadagnato il 9% dall’inizio del 2012, potrebbe entro dieci mesi toccare quota 1700 e raggiungere così un record. Del resto Warren Buffet, l’investitore più famoso del mondo, ha detto agli azionisti della sua holding Berkshire Hathaway che gli impieghi più redditizi vanno ricercati nelle azioni e persino nell’immobiliare, che comincia a dare dei primi, timidi segni di vita. Non c’è dubbio che il mercato azionario, così come quello dei junk bond, delle commodity e dei derivati, offra in questo contesto rendimenti più alti, specie rispetto ai tassi decrescenti dei titoli di Stato (quelli decennali americani sono al 2%) e soprattutto rispetto all’oro, ai dipinti d’epoca, ai vini da collezione, alle proprietà nella campagna inglese e ad altri eccentrici beni rifugio. Ma la propensione al rischio è legata alla percezione dei pericoli all’orizzonte. Fino a qualche mese fa erano proprio questi a frenare l’inversione di tendenza. La frantumazione dell’euro e il quasi default dei Piigs, l’indebitamento Usa, le preoccupazioni su un hard landing cinese, erano altrettanti spauracchi per gli investitori. Ora invece il clima mondiale si è rasserenato con effetti positivi sul dinamismo dei mercati. E’ stato il presidente della Fed, Ben Bernanke, a confermare la settimana scorsa l’andamento incoraggiante persino più delle aspettative dei tecnici della più grande economia del mondo. Il Pil è salito del 3% nell’ultimo trimestre 2011. A gennaio il tasso di disoccupazione è sceso negli Stati Uniti all’8,3%, restituendo a Obama ottime chance di una riconferma. Gli utili societari sono in ottima salute. Detroit è in pieno boom: le vendite della Gm sono cresciute a gennaio dell’1,1%, quelle della Ford del 14, quelle della Crhsyler di Sergio Marchionne addirittura del 40. L’indice della fiducia dei consumatori è balzato a 70,8. Anche le altre economie procedono abbastanza speditamente. Pechino ha rivisto le norme sulle riserve bancarie, introdotte per raffreddare la crescita ed evitare spinte inflazionistiche, eliminando così molti timori. La borsa giapponese è in pieno rally. Molti paesi dell’America latina, a cominciare dalla Colombia e dal Brasile, devono intervenire sui mercati dei cambi per frenare l’apprezzamento delle loro valute sul dollaro. L’Europa come si è visto la settimana scorsa, prima con l’intervento della Bce, poi con il patto di bilancio siglato a Bruxelles da 25 leader della Ue comincia a uscire dall’incubo di un collasso del suo sistema finanziario e ha già visto la moneta unica riprende quota. Il quadro globale si è rasserenato di colpo, favorendo investimenti più rischiosi. La speranza, ovviamente, è che non si torni ai mercaticasinò di prima della tempesta. Anche per questo è necessario come ha scritto il ministro Geithner sul Wall Street Journal che si respingano gli attacchi alle nuove norme finanziarie da parte delle banche di Wall Street. Ma è indubbio che, dopo quattro anni di pessimismo, il ritorno della propensione al rischio rappresenti una prima svolta.