Paolo Griseri, la Repubblica Affari e Finanza 5/3/2012, 5 marzo 2012
Fiat, la scelta di Marchionne addio Mirafiori e Pomigliano – Quali sono gli stabilimenti Fiat dal futuro più incerto in Italia? Dopo l’intervista di Sergio Marchionne (senza il mercato americano "dovremmo ritirarci da due siti su cinque") la radiografia delle fabbriche dell’auto al di qua delle Alpi si impone
Fiat, la scelta di Marchionne addio Mirafiori e Pomigliano – Quali sono gli stabilimenti Fiat dal futuro più incerto in Italia? Dopo l’intervista di Sergio Marchionne (senza il mercato americano "dovremmo ritirarci da due siti su cinque") la radiografia delle fabbriche dell’auto al di qua delle Alpi si impone. Negli ultimi giorni, a proposito dell’intervista, Marchionne ha precisato: "Era un’ipotesi, lavoreremo per garantire l’attività di tutti". Ma siccome la battuta sui due siti in eccesso non si può considerare una voce dal sen fuggita, vale la pena verificare. Dei cinque stabilimenti di cui parla l’ad del Lingotto, uno è fuori gioco. E’ quello della Sevel di Atessa, in Val di Sangro, che produce furgoni e veicoli commerciali in joint venture con Psa. E’ una delle poche fabbriche italiane della Fiat che lavora a pieno ritmo nonostante la crisi. Al punto che nelle scorse settimane per non aver firmato un accordo sui recuperi produttivi, la stessa Fim ha rischiato di incappare nelle sanzioni disciplinari previste dal nuovo contratto del gruppo entrato in vigore il 1 gennaio. Insomma alla Sevel si lavora a pieno ritmo. L’unica incognita sul futuro della fabbrica riguarda le conseguenze del recente accordo tra i francesi di Psa e gli americani di Gm. Se il nuovo socio statunitense chiedesse a Peugeot e Citroen nuove sinergie nel settore dei veicoli commerciali, è evidente che rischierebbe di saltare la decennale joint venture tra Torino e Parigi. In quel caso le conseguenze toccherebbero inevitabilmente la fabbrica di Val di Sangro. Ma è comunque uno scenario di fine decennio perché fino al 2017 l’alleanza industriale tra i due costruttori è garantita da un accordo. Rimangono dunque sul tavolo i quattro stabilimenti dell’auto. Il quinto, Termini Imerese, ha cessato la produzione automobilistica il 31 dicembre scorso come ampiamente preannunciato, con trenta mesi di anticipo, dall’ad di Torino. Marchionne ipotizza che due di queste fabbriche siano a rischio chiusura nel caso in cui non riescano a sfruttare l’opportunità offerta dall’eccesso di domanda del mercato Usa. Naturalmente Sergio Marchionne precisa che in realtà ci sono tutte le condizioni perché gli stabilimenti italiani ce la facciano a cogliere quell’opportunità. Ed è immaginabile che la sua frase serva nella continua battaglia di pressioni nei confronti del sindacato per ottenere condizioni di lavoro sempre più favorevoli all’azienda. Inoltre la Fiat sarà prossimamente sul banco degli imputati nei processi aperti dalla Fiom per comportamento antisindacale. I metalmeccanici della Cgil accusano Marchionne di aver violato il diritto dei lavoratori ad essere rappresentati in fabbrica dai sindacati che preferiscono. Battaglia complessa perché aperta in ogni città in cui la Fiat ha stabilimenti. Decine di tribunali dovranno esprimersi e può convenire a Marchionne far sapere che ci sono stabilimenti a rischio di chiusura se l’azienda si troverà ad operare in un ambiente ostile. Al di là delle convenienze tattiche dell’ad, è evidente che non tutti i quattro stabilimenti di produzione automobilistica del gruppo si trovano nelle stesse condizioni. Rischia poco o nulla, ad esempio, la fabbrica di Melfi. E’ il principale stabilimento italiano della Fiat, oggi sforna 250 mila Punto ed è il perno della produzione delle utilitarie. In futuro i programmi dicono che potrebbe arrivare a produrre quasi 400 mila vetture. E’ stata la prima fabbrica ad essere organizzata secondo i criteri produttivi che ora Marchionne ha deciso di esportare in tutto il gruppo. Infine Melfi non potrebbe ragionevolmente vivere sull’esportazione in America. Prima di riuscire a vendere la Grande Punto a Chicago deve passare molto tempo. Non è dunque Melfi uno dei due stabilimenti in bilico di cui parla Marchionne nell’intervista. Molto a rischio è invece lo stabilimento torinese di Mirafiori. Non nella sua parte direzionale, i 5.000 impiegati della palazzina dove si governano tutte le attività di Fiat Auto nel mondo. Ma nella sua parte produttiva, sulle linee di montaggio delle Carrozzerie dove sono impiegati altri 5.000 lavoratori. Meglio sarebbe dire che sono in organico perché ormai da un anno le linee di Mirafiori sono quasi totalmente ferme. Il prodotto principale è stata la cassa integrazione alla quale l’azienda ha fatto ricorso in modo massiccio per sopperire alla mancanza di modelli. Fino a tre anni fa si realizzavano a Torino Alfa 166, Thesis, Idea, Musa, Multipla e Mito. Oggi di quei modelli resta solo la Mito. Idea e Musa vengono ancora prodotte in quantità limitata in attesa di essere soppiantate dai due piccoli monovolume che saranno realizzati nello stabilimento serbo di Kragujevac a partire dai prossimi mesi. Mirafiori sopravviverà dunque con la sola Mito fino al dicembre 2013 quando dovrebbe iniziare la produzione di un minisuv con il marchio Fiat seguito a metà 2014 da un altro piccolo suv con il marchio Jeep. Secondo i piani dell’azienda queste due automobili dovrebbero essere prodotte in 250 mila pezzi all’anno e saranno destinate al mercato mondiale, Usa compresi. "Stiamo procedendo alla velocità della luce, l’investimento di Mirafiori è confermato", ha risposto nei giorni scorsi Marchionne alle preoccupazioni di chi aveva letto nelle sue parole una dichiarazione di morte per lo stabilimento torinese. Ma è un fatto che la partenza della produzione dei due minisuv era prevista per fine 2012 ed è stata posticipata di un anno. E’ un altro fatto che nel corso del tempo l’identità dei modelli su cui dovrà vivere la fabbrica di Torino è cambiata diverse volte: nel 2010 erano berline del gruppo Chrysler, poi sono diventati monovolume (quelli successivamente finiti in Serbia), poi suv medi del segmento C, infine piccoli suv realizzati sul pianale delle utilitarie. Tutta questa incertezza non fa che abbassare il rating di Mirafiori nel borsino degli stabilimenti. Ad aumentare i timori c’è la stessa metafora scelta dell’amministratore delegato del Lingotto per spiegare in quale dilemma si troverebbe dovendo tagliare capacità produttiva. "Ricorda La scelta di Sophie?", chiede Marchionne a Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera. E prosegue: "Nel film, alla fermata del treno il nazista chiede a Sophie uno dei suoi due figli. In caso contrario li avrebbe ammazzati tutti e due". Qual è lo stabilimento italiano della Fiat che ha un valore simbolico paragonabile a quello di un figlio? Anche ammettendo che, sempre nell’ipotesi di una crisi drammatica, Marchionne fosse costretto a sacrificare la fabbrica di Mirafiori, rimarrebbe ancora un sito da chiudere. Uno tra Cassino e Pomigliano. Nella fabbrica vicino a Napoli il Lingotto ha investito 700 milioni negli ultimi anni per trasformarla nel polo produttivo della Nuova Panda. Un investimento "non totalmente razionale, fatto anche per senso di responsabilità verso l’Italia", ha aggiunto recentemente il manager di Torino. Il punto di forza di Pomigliano sta proprio nel fatto che la chiusura significherebbe annunciare al mondo di aver perso una scommessa anche un po’ temeraria. Il punto debole è nella vasta scelta di stabilimenti alternativi a disposizione di Marchionne. La Nuova Panda potrebbe essere prodotta di nuovo in Polonia, da dove è stata trasferita, o nel nuovo stabilimento serbo, a poche centinaia di chilometri dall’Italia, principale mercato dell’utilitaria. Infine c’è la fabbrica di Piedimonte San Germano, vicino a Cassino. E’ l’unico polo italiano di produzione delle auto di segmento C, quello delle medie, dove il Lingotto ha sempre avuto difficoltà a sfondare. Cassino produce una ‘media’ per marchio: la Brava per la Fiat, la Delta per la Lancia ed la Giulietta per l’Alfa. Difficile pensare che Marchionne voglia chiudere questa fabbrica. Potrebbe semmai rispolverare un vecchio progetto pubblicato come indiscrezione dalla stampa tedesca ai tempi del tentativo, fallito, di acquisto della Opel da parte di Torino. All’epoca, era l’estate 2009, era circolata l’ipotesi dell’accorpamento in un unico polo delle attività produttive di Cassino e Pomigliano, due fabbriche anche geograficamente non distanti, meno di cento chilometri di autostrada. Ipotesi comunque abbastanza azzardata che la Fiat non ha mai confermato. Questo è il quadro. In caso di pericolo lo stabilimento più a rischio appare oggi Mirafiori, quello più sicuro Melfi. Ma sono scenari che possono cambiare in fretta, con la modifica delle missioni produttive dei diversi siti. Preoccupa comunque i sindacati l’idea che una parte della produzione italiana sia così strettamente legata all’andamento del mercato statunitense. Che oggi va a gonfie vele e nel 2011 ha superato la soglia dei 15 milioni di auto vendute. Ma che domani potrebbe tornare in crisi creando problemi al pieno utilizzo degli impianti nella Penisola. Inoltre Marchionne ha messo esplicitamente in concorrenza, per soddisfare l’eccesso di domanda del mercato statunitense, gli stabilimenti italiani, messicani e canadesi. Una battaglia difficile da vincere sul terreno dei costi, anche solo per ragioni logistiche. L’alterativa sarebbe quella di rendere gli stabilimenti italiani più orientati al mercato europeo con nuovi prodotti in grado di sfondare anche oltralpe dove invece il gruppo Fiat continua a incontrare difficoltà. Anzi, nel mese di febbraio i problemi hanno cominciato ad esse evidenti anche sul mercato domestico. In Italia la Fiat si allontana sempre di più dalla soglia del 30 per cento, cedendo altro terreno alla concorrenza straniera. Nei prossimi mesi si vedrà quale effetto riequilibratore potrà avere la Nuova Panda per aumentare le vendite europee del Lingotto.