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 2012  marzo 06 Martedì calendario

Chi ha ancora paura di Céline? - Forse non ce ne siamo nemmeno resi conto, ma il 2011 è stato un anno anniversario importante, per Céline, ed è quasi passato sotto silenzio

Chi ha ancora paura di Céline? - Forse non ce ne siamo nemmeno resi conto, ma il 2011 è stato un anno anniversario importante, per Céline, ed è quasi passato sotto silenzio. Cinquant’anni dalla sua morte d’artista, scandaloso e maledetto. Pochissimo, sul fronte delle iniziative. Uno spettacolino di Elio Germano, che legge per una ventina di minuti, gracchiando alla Carmelo il Voyage au bout de la nuit e via con un buon riempitivo musical-elettronico. Qualcosina di editoriale, ma briciole, bagatelle. L’altr’anno, da Rosellina Archinto, sempre attenta a epistolari insoliti e avendo già pubblicato tre dei suoi Balletti senza musica, senza gente, senza nulla , le lettere alla segretaria di tutta una vita, Marie Cannavaggio. E dunque un fiume, anzi, una cascata di confidenze, pettegolezzi, improperi, lamentele e invettive. Quest’anno, poi, una raccolta, abbastanza scottante e indigeribile, di lettere alla stampa collaborazionista francese, cameratescamente intitolato Céline ci scrive . Edizione «Il Settimo sigillo», a cura di Andrea Lombardi, prefazione di Stenio Solinas. Ma in Francia l’ostracismo editoriale, chiamiamolo così, è ancora più rumoroso, e «motivato». In un articolo su Le Point l’avvocato-biografo-curatore testamentario François Gibault (una vera «cintura Gibaud» di contenzione intorno al ventre molle dell’opera proibita del maledetto Destouches, sorta di ventriloquo della vedova Lucette Almanzor, ancora incredibilmente viva) ha pubblicamente ringraziato, e non ironicamente, il ministro della Cultura Mitterrand d’aver ufficialmente ignorato l’evento anniversario. Con una sorta di foderato sprezzo antidemocratico, nel fondo molto céliniano. «Gli ho detto che aveva fatto bene a ritirare il nome di Céline dalle commemorazioni, perché Céline non ha nessun bisogno di esser celebrato dallo Stato. I suoi lettori sono sufficienti». Piccato? O è un’arte, abbastanza scoperta, di render ancor più piccante ed economicamente appetibile quella zona proibita e maggiormente avvincente la probabile futura pubblicazione di quei testi censurati, in sostanza i tre maledetti pamphlet antisemiti (Bagatelle per un massacro , La bella rogna , La scuola dei cadaveri ) non contemplati nella celebrazione monumentale della Pléiade: «buco nero» e sordido di tanta urticante pubblicistica? Di questo soprattutto tratta un vivace saggio uscito per Medusa, che si chiama appunto Céline e il caso delle «Bagatelle» , scritto da Riccardo De Benedetti, filosofo vicino alla rivista Aut-Aut di Enzo Paci, e dunque politicamente insospettabile, non ebreo (nonostante il cognome e le recenti polemiche sui blog), anzi, lavora all’ Avvenire . (Se langue l’editoria, i blog céliniani sobbollono). Un saggio composito, che parrebbe anch’esso un pamphlet peroratorio, per auspicare una nuova edizione italiana delle Bagatelle per un massacro (e non certo con motivazioni assolutorie). Ma in realtà è anche molte altre cose insieme. Una disamina generale sul delicato rapporto tra scrittura e ideologia. Una meditazione sui rischi della censura alle opere d’arte per motivi ideologici (senza nascondersi il problema che anche dei «bei» libri possono essere cattivi maestri). Un’interrogazione sul perché certi libri dannati (come il Mein Kampf hitleriano, per esempio, o testi politici di Gobineau e scientifici di Buffon, o al limite perfino l’antisemitissimo e struggente Mercante di Venezia di Shakespeare), abbiano una loro dignitosa collocazione culturale, mentre i visionari «balletti» grotteschi di Céline restino tabù. Ma sono ancora davvero così pericolosi, sia pure dopo il trauma della Shoah? E se invece, letti davvero, risultassero inequivocabilmente così deliranti e maniacali, da scoprirli meno efficaci e dolosi di quanto non si sospetta? Un’attenuante che, invece di assolverli con ipocrisia, li disinnesca e annacqua, ideologicamente, neutralizzandoli nel paradosso? Oppure è necessario non abbassare comunque (il problema è reale) la guardia d’un’eccessiva tolleranza, nei confronti di un pregiudizio così aberrante e intollerabile, anche se gonfiato, sino a risultare iperbolico, tra delirante e patologico? Certo, nessuno vuole minimizzare le enormità disgustose che questo sgangherato balletto di voci e fantasmi (affascinante proprio perché sgangherato) trascina con sé, ma se non si conosce il contenuto, e si continua a parlare per sentito dire, il rischio è di protrarre un pregiudizio altrettanto condannabile. L’ exergue di Tertulliano, scelto da De Benedetti per aprire il suo libro è illuminante: «Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano, anche se è meritevole di odio?». Non si può rispondere alla dotta ignoranza di Céline con una ignoranza ancor più volgare. Ci si chieda come mai per esempio, nel capillare e severo processo di condanna di collaborazionismo d’un Céline in contumacia, fuggito in Danimarca, col suo pittoresco carretto di miserie, il gatto Bébert e la moglie ex ballerina, uno spago a far da cintura ai pantaloni da clochard, questo volume (scritto beninteso nel 1938) non ha pesato contro di lui, giudiziariamente. Forse perché non ha senso ritenerlo un credibile, profetico invito al massacro degli ebrei, che poi il nazismo avrebbe perpetrato, ma solo un testo paradossalmente pacifista? Tradotto in Italia nel pieno del fascismo, e pesantemente censurato, per via dei tanti insulti che coinvolgevano Mussolini come Marx e per le continue invettive anti-cristiche, il pervasivo linguaggio iper-sboccato, l’ecolalia persecutoria-escrementizia. Infatti nella sua furia scatologica e apocalittica, contro il mondo intiero, compreso il Papa (considerato più ebreo degli ebrei), Hitler che gli entra in camera contro un intruso, con i suoi baffetti da divo di Hollywood e Hollywood bollata come una sentina di giudei-dittatori, l’iperbole via via più esplosiva e inattendibile diventa la chiave rablesiana e grottesca del balletto alla Salò . E allora ci si chiede se sia possibile tollerare ancora questa schizofrenia, molto cara ai céliniani, che adorano le intemperie stilistiche del loro dio-sperimentale, però non condividono, anzi, detestano le sue idee. Legittimo tranello? Il rischio concreto è che questo volume-tabù continui a girare comunque, e senza prese di distanza critico-storiche, su siti neo-nazisti o islamici, qui davvero ottenendo un risultato distorto, perverso. Del resto, inutili ipocrisie: il testo, ormai introvabile, era già uscito da Guanda nel 1981, caldeggiato da Giovanni Raboni (che stava traducendo Proust e che delegò alla bisogna un ottimo giovane apprendista-traduttore quale Giancarlo Paolini) e poi subito ritirato, per volontà della vedova e per azione legale, guarda caso, di Gibault. Recensito allora con entusiasmo (l’ortodosso marxista einaudiano Cases lo riteneva il volume più interessante, dopo Il viaggio al termine della notte : «dal fondo dell’immondizia ha capito l’essenziale»; l’ebreo Moravia come sempre punto dalla curiosità; Filippini lo trovava un po’ noioso, Natalia Ginzburg scritto male), è rimasto un libro-ectoplasma del nostro inconscio politico. A sorpresa, anche chi scrive si trova citato nel volume di De Benedetti, avendo proposto al tempo, su Panorama , un articolo, completamente rimosso dalla sua memoria, in cui si ascoltavano elevati pareri, confrontabili con un oggi ben più confuso. Perché allora nessuno gridava allo scandalo, al rogo. Giorni fa, invece, alla presentazione del libro alla Sormani di Milano, è vero, nessuna vera protesta dal vivo o equivoco. Ma l’assessore Boeri è stato richiesto di togliere il patrocinio del Comune, quasi si trattasse d’un insostenibile raduno di congrega antisemita.