Notizie tratte da: Renzo Paris # La banda Apollinaire # Hacca 2011 # pp. 262, 14 euro., 7 marzo 2012
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Notizie tratte da: Renzo Paris, La banda Apollinaire, Hacca 2011, pp. 262, 14 euro.Guglielmo Vladimiro Alessandro Apollinaire de Kostrowitzky nacque a Roma, in via Milano 19, il 25 agosto 1880, alle cinque del mattino, da Angelina o Angeliska, Alexandrina o Angelica, Olga de Kostrowitzky, a seconda di come si faceva chiamare nelle varie fasi della sua vita, e da padre ignoto
Notizie tratte da: Renzo Paris, La banda Apollinaire, Hacca 2011, pp. 262, 14 euro.
Guglielmo Vladimiro Alessandro Apollinaire de Kostrowitzky nacque a Roma, in via Milano 19, il 25 agosto 1880, alle cinque del mattino, da Angelina o Angeliska, Alexandrina o Angelica, Olga de Kostrowitzky, a seconda di come si faceva chiamare nelle varie fasi della sua vita, e da padre ignoto. Nell’atto di nascita, Wilhelm era classificato come “figlio n.n”, con la firma della nutrice, signora Molinari in Baldo. Il cognome Dulcigni, presente nell’atto di nascita, sembra sia dovuto a chi registrava i “figli n.n”, preso a caso da una lista di cognomi a disposizione.
“Pupone dalla faccia vispa, con i capelli color della cenere e due occhioni molto scuri”, fu battezzato nella basilica di Santa Maria Maggiore, il 29 settembre. ’Tutto fasciato da strisce di tela grezza e chiara, come si usava allora… Immagino il pupo con il capo scoperto che riceve l’acqua benedetta. Dalla paura, dirà la madre, bagnò i pannolini’.
La madre.
’Angelica aveva un volto volitivo e due occhi rapaci. Sempre elegantissima, con cappelli da sciantosa, frequentava alto borghesi, persino prelati, e di tanto in tanto, secondo i suoi bisogni economici, i bordelli di via dei Capocci. Non a caso era andata ad abitare accanto alla dimora del ministro dell’Interno’, Agostino Depretis.
A parte il nome, che figura nell’atto battesimale di Wilhelm, Angelina ebbe origini e vita controverse. Era nata a Helsinki, nell’allora Finlandia russa, dal capitano Apollinaire de Kostrowitzky che, in seguito al fallimento dell’insurrezione polacca contro la Russia, era emigrato a Roma con la figlioletta e la moglie, Giulia Floriani, di padre italiano e madre anglosassone. Il capitano ottenne da papa Pio IX un posto di “cameriere di Spada e di Cappa” presso la Santa Sede. Morì l’anno stesso della nascita di Guillaume. La Corte papale mise poi in discussione l’origine nobile di Angelina, ritenendola una usurpatrice del casato polacco.
Giulia, in seguito ai violenti litigi con il marito, emigrò in America lasciando Angelica in un convento di suore francesi, dal quale, a 16 anni, fu espulsa per cattiva condotta. La sua vita da allora fu molto movimentata. La polizia l’aveva catalogata come “entreneuse” e frequentatrice delle bische più pericolose della città.
Due anni dopo Guillaume, Angelica partorì Albert, anch’egli di padre ignoto.
In una lettera all’amata Madeleine, quando Apollinaire era al fronte, parla così di sua madre: “Amo molto mia madre e anche lei mi ama, ma ha un carattere slavo così accentuato che sarà sempre gelosa di chiunque il figlio possa amare... Mia madre non ha nulla in comune con la mia vita e lo sa... noi due ci rassomigliamo molto soprattutto per l’orgoglio, ma lei è indomabile come lo sono soltanto le donne slave e io non posso essere me stesso se non lontano da lei, quando le sto vicino mi tratta sempre come se avessi dieci anni e mi schiaffeggerebbe all’occasione, cosa che accetterei completamente perché per nulla al mondo vorrei contrariarla, ma io sono indipendente quanto lei, così non potrei viverle accanto. Mi ama troppo e io amo l’amo altrettanto, il carattere più austero di mio fratello gli consente di vivere con lei, per altro siccome non è un letterato lei ne ha grande rispetto. Ma senza sospettarlo mia madre è poeta come me, e molte cose che ho scritto mi vengono da lei, da quello che dice, anche da quello che pensa”.
Il padre.
L’identificazione è sempre stata controversa e lo stesso Apollinaire contribuì a fare confusione, fingendo di essere il figlio di un alto prelato del Vaticano, se non addirittura del Papa. Non a caso Picasso intitolò il ritratto più famoso del poeta, ‘Le pape’, giocando anche sul suo desiderio di essere considerato il papa di tutte le avanguardie primonovecentesche. Guillaume, nel racconto ‘L’aiglon’, aveva poi immaginato di essere il pronipote del re di Roma, di quel figlio di Napoleone che avrebbe trafficato sentimentalmente con una Melanie de Kostrowitzky. Nel capitolo ’Giovanni Moroni’ in ’Le Poète assassiné’ , identificandosi col protagonista, immaginò di essere il figlio di un giocattolaio di piazza Navona e di una donna mora di nome Attilia.
Fu la scoperta di una foto, conservata gelosamente dalla madre del poeta e da lui riconosciuta come l’effigie paterna, a chiarire qualcosa di più: si trattava di Francesco Camillo Flugi d’Aspromonte, ufficiale borbonico di sangue siciliano, dalla vita molto libertina, di 20 anni più grande di Angelica.
Ma la foto ’ci mostra il volto di un bravo e viziato ragazzone, una faccia per nulla libertina. I baffi gli coprivano parte del volto, gli occhi, sia pure visti di profilo, si indovinano sereni; il naso alla greca e i capelli imbrillantinati, il collo taurino, danno l’idea di un uomo robusto, senza eccessive preoccupazioni, il personaggio di una novella di Maupassant’. Nonostante i due figli, Angelica non riuscì a sposarlo, come forse avrebbe voluto.
Ma anche questa attribuzione sollevò dubbi, derivando solo dal ritrovamento di una foto. Il presunto padre di Guillame sparì molto presto, emigrato in Sicilia e poi in America.
Roma
Apollinaire visse a Roma fino al 1887. Il piccolo Guillame parlava polacco e russo, le lingue della madre, il francese che aveva imparato in collegio, l’italiano e il dialetto romanesco, ’in un frullato coloratissimo’. Angelica mise subito a balia il figlio, con il fratello, per girare in Europa alla ricerca di casinò compiacenti. La nutrice di Trastevere le svezzava i piccoli , ’ma la signorina polacca, alta e avvenente, deve averli spupazzati anche lei di tanto in tanto per il rione Monti, come ricorderà il nostro poeta da grande... Li portava in chiesa..., li conduceva alle feste religiose, al Carnevale, ai divertimenti di via del Corso, dove sfilavano le carrozze dei signori più ricchi di Roma’.
I ricordi più antichi quando aveva tre anni: una pigna che brucia nel caminetto, i dolci farciti di scorza d’arancia, i pasticcini all’anice. Più nitida l’immagine del ’supplizio degli scarafaggi’, che si ripeteva ogni mese: “Mia madre li raccoglieva, non so come, in un vecchio barile, dopo di che ero ammesso ad assistere alla loro morte. Lei versava dell’acqua bollente sulle infelici creature e io assistevo rapito ai loro contorcimenti, alle loro corse, ai loro salti disordinati prima della morte”.
Altri ricordi romani: le caldarroste d’inverno e le angurie ghiacciate d’estate, gli spasimanti occasionali della madre, la gelosia del padre che picchiava Angelica scaraventandola a terra : “Il corsetto si lacerava e cedeva e i seni ne sorgevano martoriati dal tacco chiodato”.
Il frate indovino con la casa piena di libri, che accolse Angelica e Guillaume con la tonaca aperta, un abito “imbrattato di vino e di sugna, sporco di piccole lordure secche e consistenti”... “Mentre parlava la guardava con ardore e gli occhi gli brillavano di desiderio”. Immagine poco lusinghiera della madre, superstiziosa e in balìa di uomini diversi, ma quella stessa madre era dipinta nei suoi versi come una donna devota, innamorata dei suoi due figli educati al culto della Madonna.
Ancora in ’Le Poète assassiné’: l’Epifania a piazza Navona, tra le bancarelle: “Cavalli, pulcinella, sciabole, birilli, burattini, soldati, carriole, tutti di legno”. Lo attraggono anche le pompe della Chiesa, la teatralità della Messa.
Una domenica in via Ripetta, il piccolo Guillaume viene scelto per estrarre i numeri del gioco del lotto, accompagnato dalla madre. Vide un signore che, avendo perso tutto, si sparò in bocca: “Spaventato, indugiai un istante nel vedere portare via il cadavere; cercai mia madre, senza trovarla, poi tornai da solo a casa, dove, lei, quella notte, non tornò”. Le assenze improvvise della madre lo gettavano nel panico.
Una volta, dopo aver ricevuto una lettera, la madre la fece leggere al padre scoppiando a piangere e pianse anche lui: “Nel vederli in lacrime – scrive Apollinaire – presi anch’io a singhiozzare più forte di loro... quando ebbi esaurito le mie lacrime, mi addormentai per risvegliarmi su un treno in corsa”. Era abbracciato al suo giocattolo preferito chiamato Maldino, vestito dei colori rosso, giallo e blu. Altre lacrime a Torino, allo spettacolo di marionette, quando si accorge che la madre non lo aveva seguito.
Angelica allora era in giro per i casinò di mezza Europa, qualche volta si portava i figlioletti. Del viaggio a Parigi (Guillaume aveva 3 anni) Apollinaire non parla, di quello a Bologna resta una foto: ’Wilhelm ha grandi occhi scuri, malinconici, un viso allungato, incorniciato da lunghi capelli cinerini che gli coprono le orecchie e una elegante frangetta sulla fronte… il capo è leggermente appoggiato a quello del fratello, più basso di lui. Mentre Wilhelm somiglia alla madre, Albert no. Una scritta della stessa madre ricorda chi è l’uno e chi l’altro. Spiega che Wilhelm ha uno pseudonimo letterario: “En littérature: Guillaume Appolinaire”, con due ‘p’ e una ‘elle’ sola, La calligrafia è di una donna adulta, ma illetterata.
Lasciata Roma, a 7 anni, Apollinaire non vi tornò più.
Monaco.
Il 4 marzo del 1887, a 7 anni, Apollinaire si trasferì a Monaco. La madre dichiarò di essere una “rentère” russa proveniente da Roma e, per farsi dare il permesso di soggiorno, si dichiarò figlia di un colonnello deceduto dell’Armata russa e pensionata dallo Zar. Abitarono vicino al celebre Casinò, teatro dei traffici di Angelica, che fu registrata dalla polizia come “femme galante, soupeuse, entraineuse”.
Dopo un anno Wilhelm fu sistemato al collegio Saint-Charles, istituito per i figli dei frequentatori del Casinò, che si era affollato da quando, nella vicina Germania, il gioco d’azzardo era stato proibito. In collegio Wilhelm faceva una vita ordinata e ci teneva a compiacere la madre. Il nome del poeta figura nell’albo d’onore del Saint Charles con attestati di eccellenza in francese, tedesco, matematica. Divenne amico di René Dalize, che stava in classe del fratello. A lui Apollinaire dedicò l’intera raccolta dei ’Calligrammes’. Wilhelm amava stupirli raccontando le sue avventure con le ragazze di Monaco, soprattutto di una a cui aveva tolto la verginità, la cui madre si era fortemente risentita. Rifaceva poi il verso ai poeti che amava, immaginando di essere un manierista, fino a quando un suo professore omosessuale non apprezzò i suoi versi e non lo incoraggiò. In quel periodo aveva letto Virgilio e traduceva Teocrito. Il professore gli insegnava il latino, l’italiano (lesse le ’Rime’ di Petrarca) e l’inglese rendendogli familiare Shakespeare. Tra i poeti il giovane Apollinaire preferiva i francesi, Villon, Ronsard, Racine e La Fontaine. Lesse anche Cervantes e Goethe, divorò i romanzi cavallereschi. Nel periodo di Monaco Apollinaire aveva letto tutti i poeti simbolisti e, insieme a Touissant Luca avevano il culto di Viélé-Griffin e Jean Moréas. Wilhelm tentò anche di tradurre la ’Fiammetta’ di Boccaccio e iniziò un romanzo di cui è rimasto solo il titolo napoletano, ’Orindoculo’. Fu l’amico Touissant Luca a pubblicare, dopo la sua morte, le prime poesie di Guillaume diciassettenne che, allora, si firmava Macabre: ’Mort de Pan’ è la prima, dove Pan va a braccetto di Cristo e di Orfeo , rappresentando così la mitologia vecchia e nuova. Le sue prime prove poetiche sono mosse anche dal punto di vista metrico, mescolando la metrica classica al verso libero.
Sport praticati: scherma ed equitazione. ’A 15 anni Wilhelm era decisissimo a diventare un cavaliere errante e già sognava di possedere la sua bella. Era un bell’adolescente, esile e slanciato … Le donne per lui dovevano essere schiave d’amore, pronte al comando dell’uomo, indiscusso padrone... Condannava la masturbazione come inutile spreco di energie...’.
1895: il collegio chiude per ordine del principe, Wilhelm va al collegio Stanislas di Cannes a mezza pensione, dove fu espulso per aver introdotto in classe, al liceo di Nizza, le ’Centoventi giornate di Sodoma” di De Sade. Fu il marchese libertino la bandiera della protesta del giovane Apollinaire contro un sapere scolastico inutilmente legato alla tradizione greco-latina.
’Il bravo ragazzo era scomparso. Ormai recitava la parte dell’adolescente perverso’. Non volle prendere la maturità, così nel 1897 lascia la scuola. E’ questa la fase del suo anarchismo e l’inizio della sua formazione culturale vera e propria. In estate Guillaume e Albert erano ospiti nella villa in Costa Azzurra dell’amico James Onimus, padre medico e vita agiata.
Secondo Barrés (uno dei capifila della destra francese), a Monaco Apollinaire “avrebbe succhiato il latte del cinismo e della pornografia” e lo definì “l’autore di romanzetti pornografici, un meteco, un bastardo monegasco e romano insieme”.
Di Monaco Apollinaire scrisse su un taccuino che chiamò “Documents”, che va dal 1897 al 1918 e che fu stampato nel 1991 con il titolo “Journal intime”.
Problemi col nome che, in francese suonava “Vilain”. Così, per evitare le malizie dei compagni si fece chiamare Guillaume, scontentando la madre che continuò a chiamarlo per tutta la vita Wilhelm. Lei, invece, aveva già cambiato nome, facendosi chiamare Olga. Ai tempi ’sperava solo in Albert e quel fannullone di Wilhelm che voleva fare il poeta leggendo i suoi versi al professore omosessuale proprio non lo sopportava’. E lui cominciò a pensare al giornalismo, per rendersi autonomo dalla madre, ma anche per la sua poetica: ’Voleva raccontare il mondo come lo vedeva e in seguito a quell’emozione alzare il tiro verso la forma del racconto e della poesia’.
Con il suo amico Toussaint Luca, di origine corsa, progettò un giornale e inutilmente chiese al quotidiano ’La Volonté’ di assumerlo come corrispondente monegasco.
Parigi
‘Attratto da una vita libera, come uno squatter di oggi, come un punk ante litteram, con una famiglia scombinata alle spalle, Guillaume sognava la Ville Lumière, il crocevia mondiale dell’arte e della poesia’.
Si trasferì a Parigi con la madre nel 1899, ma ci era già stato due volte. L’estate precedente aveva vissuto a Stavelot, nelle Ardenne, con il fratello e lo ’zio’ Jules che si fa registrare come ufficiale in congedo in attesa dell’arrivo dei suoi due ’nipoti’. E’ il giovane ebreo Jules Weil, conosciuto a Monaco da Angelica, figlio di un banchiere ebreo e che i fratelli chiamano ormai zio. I fratelli trascorrono lì vacanze piacevoli, scoprono la regione, si divertono a fingere uno status che non hanno. Lì Guillaume aveva perfezionato il gioco del mentire, di travestirsi, ubbidendo a quello che la madre e lo zio gli avevano insegnato: “Avremmo potuto mangiare mattoni”, scrisse in una lettera rievocando quel periodo. I tre erano disposti a tutto meno che a rubare. Il gioco della madre prevedeva il raggiro, sfoderando tutte le arti della simulazione ma restava pur sempre a un certo livello, mai abbassandosi alla rapina vera e propria.
Da Stavelot i due ragazzi fuggono nottetempo lasciando il conto da pagare e raggiungendo la madre a Parigi. La polizia li cercava e interrogò la madre che diede generalità false, dichiarandosi Olga Karpoff e promise di pagare il conto della pensione.
Il primo indirizzo a Parigi è quello di un albergo di rue Mac Mahon. La madre vive in compagnia di Jules. A Parigi Guillaume frequenta biblioteche e marciapiedi, completando la già robusta formazione acquisita a Monaco. La rivoluzione del verso libero era alle spalle, ora cercava di coniugarlo a forme metriche legate al ritmo delle canzonette che cantava per strada.
La sua fu una formazione culturale di massa ed elitaria insieme, ’molto simile a quella dei giovani di oggi, che mescolano fumetti, videogiochi e immagini televisive alla lettura dei classici, quando la differenza tra la letteratura alta e bassa è scomparsa... Nella folla di Parigi non amava fare il dandy alla Baudelaire, vestire abiti di stupore, si mescolava ad essa senza volersi distinguere se non per la natura delle sue parole, che riteneva magiche’.
Il primo lavoro a Parigi lo trovò come ’nègre’ di un autore di feuilleton a corto di ispirazione, ’Esnard’, pseudonimo dell’avvocato Desnard che gli commissionò il romanzo ’Que faire?’, alcuni brani del quale uscirono su ’Le Matin’. Fra l’altro si parla di Parigi come di una città di atei pieni di curiosità per i maghi e si racconta la storia del reverendo Joe Cutler, esoterista dei due mondi che aveva fondato un’associazione con milioni di adepti.
Nei primi mesi a Parigi Guillaume si abbassò a frequentare dei veri delinquenti e per poche lire accettò, a suo dire, lavori illegali, ma non ci è pervenuto nulla di certo. Cominciò a fumare la pipa di cui parla in una delle sue prime opere di prosa, ’Le table’. La madre, Olga, lo attaccava insultandolo e trattandolo da fannullone, invitandolo a trascurare le lettere e fare come il fratello Albert, che aveva trovato un lavoro in banca.
Guillaume vive sulle due rive della Senna, rientrava quando era affamato e all’alba, dopo incontri e bevute. Frequentava anche le biblioteche, rincontrò gli amici del collegio e, grazie alla poesia, non divenne un ragazzo di strada. Molti amici erano ebrei, immigrati, per i quali aveva particolare simpatia, condividendone il destino di senza patria.
Dai suoi appunti di quegli anni si evince che Guillaume sbarcava il lunario scroccando pranzi e cene ai suoi numerosi amici, ma anche facendosi pagare per le letture di versi nei chiassosi dopocena delle dimore borghesi. E non si trattava di servili poesie d’occasione, ma di componimenti autonomi.
Fino all’ultimo Guillaume scrisse della sua Parigi.
Donne. Su ‘Le droits de la femme’ Apollinaire è presentato come noto scrittore antifemminista: aveva scritto di letteratura femminile, travestendosi da donna e firmandosi con lo pseudonimo di Louise Lalanne. Già dalle prime poesie si dice che le donne devono condannare la sterilità e l’aborto.
Feroce ironia sulle donne tedesche, che “non valgono niente”, anche se i francesi se le immaginano belle, dolce e sognatrici. Invece sono ipocritamente traditrici. Non hanno delle francesi…
Guillaume non amava il maschio patriarcale, voleva che in amore la sottomissione fosse un fatto della natura. Come nel regno animale la femmina soggiace al maschio...
Marie Dubois. Conosciuta a tempi di Stavelot, quando andava a trovare la madre a Spa. Lei lo tradì subito fuggendo nel villaggio vicino con un altro. Apollinaire le dedica alcuni versi. Quelli che rivelano il tradimento terminano con “Le donne mentono mentono”.
Linda de Molina, sorella dell’ amico ebreo Ferdinand Molina de Silva, conosciuta a Parigi, sorpresa in camera da letto a specchiarsi, cui dedicò “La ’farsa’ – poi, in una seconda versione ’forza’- dello specchio” . Nel 1901 Guillame non ha più lavoro e lei lo lascia. Seguono lettere risentite perché lei lo chiama “il piccolo Gui”, illuso poeta spiantato, con una madre così chiacchierata..
Annie Playden. ‘Volto tondeggiante, due occhioni vigili, una bocca dalle labbra sensuali, capelli biondi trattenuti a crocchia e un filo di perle che le ornava il bel collo. Le lunghe sopracciglia incorniciavano lo sguardo non proprio vispo, ma sereno’. Era la governante inglese della viscontessa de Milhau, che chiamò Apollinaire come precettore della figlia di 9 anni. Con loro si trasferì per l’estate del 1901 nei possedimenti renani.
Dietro il rifiuto di Annie, Guillaume scrive le sue poesie più belle, fra cui ‘La chanson du mal-aimé’ del gruppo delle ‘renane’ e le ‘poesie dell’ombra’. Infastidita da tutte quelle parole e dalla gelosia folle del poeta, lei si rifugiò a Londra. Lui la raggiunse riproponendole il matrimonio a cui rispose con un secco rifiuto. Annie partì poi per l’America e non la vide più. Quando, in vecchiaia, fu raggiunta per esprimere un giudizio su Apollinaire, lei rispose di conservare un ricordo ossessivo di quegli anni, di quel poeta che le sembrava un narciso, dei cui versi non capiva un accidente.
Stressato dal rifiuto, Apollinaire visitò le città più belle della Germania, appuntando riflessioni e, prima di tornare a Parigi, lasciò i suoi versi a diverse riviste. Qualcosa fu pubblicato.
Yvonne. Vicina di casa, spesso si dava a pagamento. Guillaume l’aveva vista dalla finestra un venerdì santo e lei gli sorrise. “I miei poveri occhi sono pieni di voi/come uno stagno al chiaro di luna/E vi prego in ginocchio/O bionda che sembrate bruna”.
Marie Laurencin. Nella sua foto più famosa, ‘espone un vistoso petto abbellito da una collana col crocifisso. Presenta un volto lungo di ragazzina smaliziata, gli occhi orientali. I capelli li tiene nascosti da un cappello a falde larghe e la bocca è sensuale, forse troppo larga’. Apollinaire la conobbe al Bateau Lavoir, era una vecchia fiamma di Picasso, ’una piccola borghese che si dava arie da gran pittrice, una freddona dal corpo maschile che intrigò subito Guillaume, che voleva dimenticare Annie e il suo vecchio rifiuto’. Si era scelto una donna mascolina spingendola ad assomigliare a un travestito, dandole persino lezioni di portamento. Lei raccontava che si annoiava a morte durante le loro copule, alzando gli occhi al soffitto. Confessò ad un’amica che quando facevano l’amore lei giocava con il bottone del suo colletto e Guillaume la intratteneva parlando dei suoi stati d’animo. Con lei Apollinaire lasciò finalmente Vesinet e la casa materna per il suo primo alloggio privato, nel quartiere Auteuil, in rue Gros 15. Quando Marie lo lasciò, lui si lagnò soprattutto della scelta del rivale. Si era messa con un tedesco, il massimo dell’affronto!
Guillaume la inserì tra i pittori cubisti, parlando molto bene dei suoi quadri, unica pittrice in quell’accolita di maschi. In ‘Le peintre cubiste’, pubblicato nel 1913, dove raccoglie i suoi articoli di critico d’arte, le attribuisce la nascita di una visione nuova, femminile, nelle arti primonovecentesche e la inserisce tra Picasso e il ‘doganiere’ Rousseau, e, per farla contenta, scriveva che, con i suoi arabeschi, era alla stessa stregua dei due pittori che lui amava di più.
Guillaume cercava il corpo, mentre lei era attratta dalla sua mente. Dopo Annie, un rapporto alla pari, ma ‘il poeta credeva che le donne intellettuali fossero buone per gli omosessuali, che la donna doveva essere dominata dal maschio e senza alcuna ribellione, quasi per una questione di principio, mentre Marie apparteneva alla genia delle gatte morte, pronte a tradire e ad assoggettare gli uomini usando il loro corpo. L’aveva soprannominata all’inizio “fauvette”, dal movimento “Fauve”, poi “Tristouse ballerinette”. La parte di lei che più gli piaceva del suo corpo era il sedere, di cui Apollinaire aveva una vera passione e se le donne glielo concedevano, voleva dire che le aveva sottomesse. Tuttavia, dopo averla voluta libertina, la trattava da mogliettina, perché il suo ideale era comunque la famiglia tradizionale, anzi patriarcale. I tradimenti di lei furono clamorosi: fra gli altri Henri Pierre Roché, l’autore di Jules e Jim e, in ultimo il pittore tedesco per il quale Marie abbandonò Guillaume, il quale, vestendo i panni del voyeur, si appostava sotto casa di lei e la seguiva. La madre di Marie detestava quel poeta spiantato e ordinò alla figlia di lasciarlo quando Apollinaire entrò in carcere accusato falsamente del ratto della Gioconda, convinta che presto sarebbe stato espulso dalla Francia per indegnità.
Per lei Guillaume scrisse diverse poesie, la più famosa ‘Le Pont Mirabeau’, e usò gli stessi accorgimenti di sempre: mai descriverne il volto o dare elementi di riconoscimento, come se il destino del poeta fosse quello di essere abbandonato dall’amore più che da questa o quella donna. Altre poesie per lei: ‘Il viaggiatore’, ‘Marie’, ’Il ricciolo ritrovato’: “Ti bacio dovunque e penso a te senza sosta/Sei tu il mio ricordo e tu la mia ricchezza/i tuoi capelli sono la mia vigna e i tuoi piedi la mia stazione/il mio ultimo respiro solo tu ancora l’avrai…Maria io t’adoro”.
E ancora sei anni dopo la fine di quell’amore: “Io annegavo nello sguardo tuo… Oh giovinezza mia abbandonata/Come una ghirlanda appassita/Ecco che avanza la stagione/Dei rimpianti e della ragione”.
Lou (la contessa Louise de Coligny-Chatillon detta Loulou). Donna libertina, emancipata, fu per lui l’incontro più passionale. Apollinaire la conobbe nel settembre del 1914, nell’ appartamento di uno scrittore oppiomane. Lei aveva 33 anni, divorziata da un algerino. Sotto l’effetto dell’oppio restava incantata dalle parole di Guillaume, ma poi si negava facendo soffrire il poeta (parla di un mese di ’bric-a brac’).
Lui poi si arruolò e finì a Nimes. A dicembre lo raggiunge la contessa e si chiusero in albergo per nove notti di amore. Lei ha un amante in carica, Toutou, non temuto da Guillaume, forte della magia della parola poetica. Inizia una furiosa corrispondenza (’Lettres a Lou’, scritte dal 1914 al 1916 , che uscirono postume). Lou vive nella casa di Parigi di Apollinaire dove vede altri svariati amanti. Alla fine si promisero di restare buoni amici. Quello di Apollinaire era un libertinaggio cerebrale di tipo epistolare che raggiungeva l’ossessione di una donna che, dopo essersi data tutta si era dileguata. Il suo fantasma imperversa durante le notti di guerra, vissuta con emozioni contrastanti, a seconda dell’andamento dell’amore di Lou. Anche quest’amore affoga nel rimpianto e nella nostalgia, ma le lettere continuano, disperate e anche hard. In diverse di queste Guillaume stigmatizza l’uso della masturbazione della sua amata mentre legge le sue lettere d’amore, perché quell’esercizio può procurarle la nevrastenia. La chiama ’la cattiva’ e le chiede dei suoi amanti e delle sue prestazioni sessuali. Lei, probabilmente incapace di orgasmi se non clitoridei, continua a informarlo delle sue masturbazioni feroci e lui ’ruggisce’ di desiderio, le racconta dei dispetti cruenti dei soldati che si masturbano in pubblico o all’unisono sotto le coperte. Anche lui tenta inutilmente di masturbarsi su una foto che Lou gli ha spedito, dallo sguardo “si cochon et si joli”. Poi le scrive “Mia piccola schiava dal grande culo... ti lecco dovunque, ti bevo..” e così via, con toni sempre più hard. Lou ha raccontato del modo di fare l’amore di Guillaume all’amante Toutou e sembra che abbiano riso della sua goffaggine di amante parolaio, delle sue eiaculazioni precoci, della sua ingenuità di amante nel meravigliarsi dell’esigenza di Lou di masturbarsi. In queste lettere notiamo un Guillaume che non pensa più al matrimonio, come era accaduto per le altre due donne importanti, ma qui è il lettore di de Sade che parla. Senza queste lettere non avremmo mai conosciuto la profonda castità del poeta, devoto anche con il suo corpo alla poesia, la sua vera padrona. Nella raccolta ci sono anche poesie sublimi, con un tono erotico da ’Cantico dei Cantici’: “I miei sensi sono i tuoi cavalli il tuo ricordo è la mia erba/La tua bocca è la ferita ardente della baldanza”.
Madeleine Pagès. Ventidue anni, professoressa algerina. Guillaume la incontra sul treno Nizza-Marsiglia, dove fu accompagnato da Lou dopo le notti di fuoco. Quando restano soli, cominciano a conversare: “I suoi occhi - scriverà lei di lui - sono castani come i capelli, i lineamenti magnifici”. Madeleine è subito attratta dal poeta ma si sente inadeguata, forse troppo provinciale per un poeta di Parigi già famoso. Questa indecisione, tra entusiasmo e sentimento di inadeguatezza, segnerà tutto il loro rapporto. Anche con lei inizia una fitta corrispondenza dal fronte (’Tendre comme le souvenir’ raccoglie le lettere che le inviò il poeta dal 16 aprile 1915 al 16 settembre 1916), dai toni ben diversi rispetto alla passionalità e scurrilità delle lettere a Lou. Lui chiama Madeleine “la mia piccola viaggiatrice loquace dalle lunghe ciglia” o “la piccola apparizione affascinante” o “piccola fata”. Le parla della vita della sua fanteria, della paura di morire, le chiede di spedirgli foto. Lei gli parla del suo amore per i serpenti e i rettili. Lui già si vede sposo felice di una donna vergine e interamente dedita ai suoi piaceri mentre lei recalcitra: “Si lasci andare – le scrive- dica la verità qualunque essa sia, che nasca ciò che sarà … Suvvia Madeleine, si metta nuda, anima, corpo e cuore”. Recita la parte del libertino gentiluomo, con l’aria di voler contribuire alla educazione sessuale della sua donna. Poi, approfittando di un permesso, va a trovarla ad Oristano, ma la trova fredda, alle prese con una folla di fratellini da accudire. Oltre a baci ed abbracci, lei non concede altro. Guillaume torna al fronte deluso. Pur continuando a parlare di matrimonio abbrevia le sue lettere e quando riceve la ferita alla testa, smette la corrispondenza bruscamente. Al solito, l’immaginazione di Apo rulla al punto che dinanzi alla realtà naufraga. Ha tanto sognato di Madeleine che quando la vede nella sua realtà la perde. In un’altra lettera: “Tu che unisci la sensualità di una baccante all’intellettualità di Vittoria Colonna al mistico ardore di una Santa Teresa” e accompagna la lettera con la poesia delle “Nove porte” (quelle del corpo femminile), la stessa che aveva spedito a Lou. Il delirio amoroso che lo aveva accompagnato durante la guerra si era sfaccettato in due diverse immagini, la libertina e la vergine, entrambe riassuntive dell’eterno femminino. Ma entrambe lo rifiutano e ’dobbiamo a questo doppio rifiuto tutto il delirio poetico del Nostro. Poesie semplicemente erotiche queste? Chi l’ha scritto non conosce il profondo lirismo di Guillaume, la fonte stessa della sua poesia’.
Jacqueline Kolb, l’unica moglie. Si chiamava Emma Amelia, detta Ruby per i suoi capelli rossi. Nata nel 1891, faceva la pittrice e l’infermiera di guerra. Apollinaire la conobbe a Parigi a casa del poeta Jules-Gérard Jordain con il quale lei viveva prima della guerra. Jordain fu ucciso nel 1916 e lei si sentì libera di frequentare Guillaume quando lo reincontrò davanti ai grandi magazzini Printemps. Non lo lasciò più. Fumava anche lei pipa e sigari. Si sposarono il 2 maggio 1918 nella Chiesa di San Tommaso d’Aquino. Testimoni di lui: Picasso e Lucien Descaves. Di lei: Ambroise Vollard e Gabrielle Picabia nata Buffet. “Abbiamo pranzato tutti insieme. La sera Picasso ha cenato da noi”, racconta Apollinaire nei suoi taccuini.
Jacqueline aveva un carattere campagnolo, testarda, non diceva mai né un sì né un no deciso ed era gelosissima di Lou, tanto che impedì dopo la morte del poeta la stampa delle lettere e delle poesie per la nobildonna libertina. L’amico Rouveyre scrisse che Guillaume aveva sempre sognato una moglie serena che cucinasse pasti regolari. Aveva bisogno, date le sue cattive condizioni di salute (stette all’ospedale Villa Molière tre mesi per una congestione polmonare, da gennaio a marzo 1918, e lei lo andava a trovare tutti i giorni), di una badante, un’infermiera, più che una moglie e Jacqueline fece del suo meglio. Angelica la detestava e per questo non fu invitata alle nozze e le fu comunicata la morte del figlio un giorno dopo.
Puttane. Per fare soldi, Apollinaire pubblicò il suo primo romanzo proibito,’Mirely ou le petit trou pas cher’ per un libraio della rue Saint-Roch, ispirandosi alle puttane a poco prezzo conosciute a MontMartre. ’Il mercato del sesso, allora, non suscitava l’attenzione morbosa di oggi. Apparteneva alla formazione sessuale di un giovane frequentare bordelli e prostitute di strada, con il solo pericolo di contrarre la lue, allora incurabile. In quegli anni parigini, Guillaume appuntava tutto, anche i diversi spostamenti in città. Una sera del 1903 si parla di una cena da Raymond, amico di Linda dove incontra lo scultore Josè de Charmoy, che si vantava di essere il più grande dopo Michelangelo: “Vorrebbe scopare Sarah Bernhardt che si dà per 1500 franchi a serata- appunta Guillaume- Fotte vecchie signore, quando si coricano la testa sparisce dietro al ventre, Dorme con le puttane più volgari almeno due volte al mese…”.
La notte, rientrando a casa, dopo aver declamato i suoi versi nei salotti borghesi si ferma con le ebree polacche che “scopano come dannate”: Lea, che ama anche le donne, Jeanne, che “ha fatto la lesbica a Calcutta dove curano i malati e finiscono a scopare fra di loro, attaccandosi le loro malattie, sifilide compresa”.
Giornalismo.
Fin dal liceo di Nizza, Apollinaire manifesta passione per il giornalismo. Prova a collaborare in molte riviste, inviando poesie, appunti e diari di viaggio. Fra gli altri, collabora a ‘L’Europée’, luogo di incontri, relazioni, amicizie, dove scriveva articoli sull’Europa orientale di cui si diceva esperto. Poi c’è ‘Tabarin’, giornale satirico fondato nel 1900 da Eugène Gaillet, dove Guillaume partecipò a una campagna in favore dell’inventore del pedale della bicicletta. Nel 1903, a 23 anni, Apollinaire diventa il direttore del ‘Tabarin’. Collabora anche con ‘La revue d’art dramatique et musical’ diretta da Roman Rolland che lo stimava molto. Divenne così noto nel giornalismo francese, sia politico che letterario. Scrisse anche su ‘La démocratie sociale’ di stampo radicale, ma giocava sul pensiero politico, come era accaduto nella fase anarchica. Seguì la fase patriottica scrivendo articoli di fuoco in difesa della Francia contro l’America, luogo di selvaggi che si permettevano di criticare la nazione più civile del mondo.
’La sua attenzione al dettaglio nasce dal suo lavoro di giornalista occasionale che è obbligato dalla direzione a scrivere su tutti gli argomenti del giorno. Diventò a poco a poco un giornalista ubiquo …
Era un maestro nel ritagliare e incollare suoi articoli e anche quelli degli amici che lo avevano colpito. Era, la sua, la tecnica del collage. Da una lettera, un aneddoto, un articolo, nascevano un racconto, una poesia. L’arte sofisticata del reimpiego delle cose già scritte, prevedeva l’emozione di un fatto che lo aveva colpito, che non restava mai fine a se stesso. In vita non raccolse interamente i suoi articoli, come hanno fatto i curatori della ‘Pleiade’. Li ritagliava, poi li incollava e poi li riscriveva…’
Nei suoi articoli c’è anche parte della sua biografia, una specie di autofiction. Le sue ‘croniques’ assomigliano ai blog, privi però del suo stile leggero.
Dopo la congestione polmonare e i tre mesi in ospedale, nel 1918 Apollinaire collabora alla rivista ’L’Europe nouvelle’ con lo pseudonimo ’L’Ecolatre’. I suoi ultimi articoli sono pieni di coccodrilli scritti per poeti e artisti che cadevano come mosche in guerra, accanto a lui. Per tutti, anche gli sconosciuti, aveva parole di elogio.
Peti. Fra i taccuini, un “elenco davvero divertente di peti chiari, mollati dalle signorine, mentre quelli aspirati riguarderebbero le fornaie, ed infine i peti medi sono da attribuire ai ragazzi vergini o alle mogli dei borgomastri. Segue il nome latino della scuola di Salerno delle ‘loffe secche o merdose’”.
Salmon racconta dei vagabondaggi nel Quartiere latino con Apollinaire, “della sua socievolezza, della sua allegrezza, che spesso dimostrava alzando una gamba e mollando dei peti rumorosissimi, soprattutto nelle vicinanze delle pasticcerie che mostravano in bella vista dei dolci di cui era golosissimo, privo del denaro per acquistarli”.
Café du depart. Si chiamava du Soleil d’Or quando Verlaine leggeva i suoi versi. Apollinaire vi esordì come poeta nel 1903, fu la sua prima consacrazione. Qui cominciò anche la sua amicizia con André Salmon (“Ci siamo incontrati in un caveau maudit/Al tempo della nostra giovinezza e malvestiti attendendo l’alba...”) sulla quale scrisse alcune poesie epistolari. Nelle ’Memorie senza fine’ Salmon racconta di aver visto “un Guillaume cupo, la pipa in bocca, baffi rossastri, capelli biondo cenere, appoggiato al pianoforte del sotterraneo, declamare poesie del gruppo delle renane ispirate da Annie. Alto, appesantito dall’alcool, vestito elegantemente, tutto il contrario del poeta romantico e maledetto che era nella tradizione dei quel caveau, i pantaloni stirati da Angelica in una nuvola di fumo, terminata la prima lettura, con studiata lentezza, tirò fuori una seconda poesia e poi un’altra ancora”.
Bateau-Lavoir. Dal 1904 al 1909 Apollinaire fu assiduo frequentatore dell’atelier di Picasso, in rue Ravignan, denominato bateau-lavoir dal poeta Max Jacob, assiduo frequentatore. Così Jacob descrisse Apollinaire al suo primo incontro : “Un minuscolo toupet di capelli. Lo si credeva ricco perché sua madre lo vestiva da capo a piedi, con un costume chiaro e un cappello piccolissimo sulla sommità del cranio, con quegli occhi nocciola, terribili e brillanti”.
Fu Picasso ad invitare Guillaume nel suo atelier, quando lo conobbe, in un bar vicino alla stazione Saint-Lazare. Quello studio (descritto accuratamente da Apollinaire) era formato da un tavolo bianco, una stufa, una bacinella e un secchio per la toilette, una sedia di paglia e un baule di legno come poltrona. Dietro una tenda la camera da letto. L’atelier era ghiacciato d’inverno e bollente d’estate, la luce proveniva dalla lampada a petrolio e ci si riscaldava con una stufa a carbone. L’insieme aveva un odore irrespirabile e un giorno Apo tentò di passare l’acqua di colonia su quei pavimenti. Qui si conobbero anche Jacob e Salmon, omosessuali entrambi che ebbero una lunga relazione.
’In quell’atelier circolava ogni tipo di droga e di alcool. Quegli squatters ante litteram facevano l’alba da veri punkabbestia, discutendo di tutto, strafatti. Avevano vent’anni e volevano cambiare l’arte mondiale’.
Sesso. Contò moltissimo nella vita di Apollinaire, sessualmente incerta. Secondo l’amico e poeta omosessuale Jacob, Guillaume voleva apparire come un androgino e i suoi romanzi proibiti erano zeppi di culi maschili e femminili, quasi che tutta la sua sessualità fosse anale. Insomma, quel tipo almeno sessualmente era una frittata, un po’ omo un po’ etero, quasi sempre un impotente. Jacob ricordò nella sua vecchiaia di aver spesso sorpreso Picasso nudo con Guillaume e iniziò a ingelosirsi, rivaleggiando con Apollinaire per ricevere l’attenzione di Picasso.
Guillaume confessò e scatenò le sue fantasie erotiche nel romanzo ’Le undicimila verghe’, scritto nel 1905, romanzo generazionale, il cui estremismo sessuale ’si pone come esempio di molta narrativa erotica del 900’ Il protagonista, Vibescu (alias Picasso), ’annoiato dei festini del viceconsole a base di deretani di donne lesbiche, stufo di essere inculato, si trasferisce a Parigi dove le ragazze sono di coscia facile. Predilige i culi, maschili e femminili, provando gusto a una sfrenata bisessualità. Conosce Culculina che lo inizia a coiti sempre più sofisticati, mescolandoli al sangue e alla merda. Lui le garantisce di scatenarle venti orgasmi consecutivi, si fa defecare in una mano. Quello stronzo, “uno degli stronzi più belli che l’intestino abbia mai prodotto”, si arrotolava come “una gomena di nave”. Naturalmente Vibescu usò quella crema per spalmarsela in tutto il corpo’. E via con questo tenore, sempre più hard. ’Le undicimila verghe è il manifesto di una banda i cui affiliati collezionavano tutti, fin da ragazzi, i libri erotici proibiti dai benpensanti’.
Droghe. Gli artisti in canna camminavano molto a piedi in quel periodo. A volte prendevano l’hascisc in pillole, l’oppio, la morfina, non disdegnando la pericolosa mascalina. In uno di quei festini a base di oppio morì un pittore che abitava nello stesso squat e così Picasso smise di drogarsi.
Cibo e alcool. Due passioni di Guillaume. A volte, per salire di stima agli occhi della madre, portava i suoi amici a pranzo da lei che, però, li disprezzava, ’non capiva quella loro stravaganza nel vestire e nel parlare, credendoli dei cattivi soggetti che avrebbero trasportato quel figlio credulone nelle più spericolate avventure’. Ma quei pranzi erano molto graditi: pasta e ravioli erano i piatti forti. Guillaume amava anche il risotto e rimproverava Marie di non saper fare quello alla bolognese e di non intendersi di cucina. Quando invitavano gli amici a cena, litigavano sulle portate, lei voleva iniziare dal dessert e non sopportava quell’aria da chef che Guillaume aveva in cucina. Lui non ammetteva critiche e, invitato da amici, andava sempre ai fornelli per sorvegliare le cuoche. Aveva inventato con Vlaminck e Derain la gara a chi riusciva a mangiare un pranzo intero e a ricominciare finché uno di loro non si stancava e andava a pagare il conto. ’Più mangiava più esprimeva una gaiezza fisica debordante e ci fu chi scrisse che “avrebbero potuto mangiare mattoni”.
Portava gli amici nei ristoranti greci, italiani, cinesi, turchi, africani, chiedendo alle cuoche le ricette più sfiziose, senza mai pagare il conto. Guillaume aveva una vera passione per i frutti di mare, e i ristorantini di Montparnasse furono il suo regno dopo quelli di Montmartre. Era bravissimo nell’arte della “capnomancie”, cioè indovinare quali cucine fossero più attraenti dal fumo uscito dai comignoli. Possedeva anche vari libri di antiche ricette acquistati dai buchinisti. In tutte le sue opere troviamo l’attenzione al mangiare. In ’Le Poète assassiné’ c’è un capitolo (’L’amico Meritarte’) dove il protagonista “che vedeva nell’uomo un artistico animale, si sforzava di dar vita a un’arte culinaria che non soltanto soddisfacesse l’appetito, ma si rivolgesse all’intelletto, come fanno le altre arti... noi assaporammo in quattro il commovente spettacolo del primo dramma commestibile dove gli antipasti, compost di salsicce di Vire e filetti d’aringa affumicata avevano un’aria sinistra e l’insalata Rachel era lugubre”. ’Meritarte sa organizzare anche banchetti comici con zuppe madrilene gelate e testine di vitello e cosciotto al sangue per riderci sopra. Eccola la cucina lirica quando Meritarte servì a tavola una minestra di vermicelli, delle uova alla coque, un’insalata di lattuga con fiori di cappuccina e un formaggio burroso con uno stufato d’agnello. Seguirono banchetti con portate filosofiche a base di ossa di bue e teste di coniglio finché non giunse un pasto drammatico: zuppa funebre, carni al sangue, funghi che misero in subbuglio lo stomaco dei commensali. Il poeta Meritarte aveva ucciso con quell’ultimo banchetto i suoi commensali’.
La Parigi della Belle Epoque era attraversata da una vera frenesia del mangiare e bere. Abbondavano caffè, birrerie, bar e botteghe dove si vendeva vino sfuso di varie qualità. C’era poi l’assenzio, che fu proibito nel 1915. Nella banda Picasso erano bevitori incalliti, frequentavano il Café de Versailles, il ristorante popolare Azon, vicino a rue Ravignan, dove si accettava il credito; il Café Vachette nel quartiere latino. Amavano frequentare anche le pasticcerie. Le serate terminavano spesso al Lapin agile, il cabaret preferito dalla bohème di Montmartre. Poi giravano per le strade notturne, cantando, ubriachi e pieni di hascisc.
Apollinaire amava la birra Pilsen e Burton. Il suo vino preferito era un vino del Reno, lo ’schorlemorle’, poi il vino Mariani, una specie di coca cola alcolica. Gli piaceva anche la ratafia. A forza di bere era ingrossato e gli era venuta la pancia. Sfidò a duello un giornalista che aveva scritto di bere un acqua minerale che si chiamava ’Apollinaris’. In una lettera parla di un “cocktail carabiné”, un insieme di porto, grog, assenzio e succo di limone.
Anche al fronte non ci fu sua corrispondente che non gli inviò cioccolate fondenti, bombons, frutta esotica e ’confitures’, di cui andava ghiotto. Il banchetto continuava anche durante la guerra, con i pacchi della madre.
Max Jacob. Poeta omosessuale, legato ad André Salmon conosciuto al Bateau Lavoir. Amico-nemico di Apollinaire che ne scriveva, invece, in maniera entusiasta. Ma, secondo Jacob, quell’immigrato polacco ascoltava attentamente le poche parole che diceva e poi, senza citarlo se ne impossessava. In una malevola recensione al primo libro di poesie ’Alcool’, Jacob attribuì ad Apollinaire un atteggiamento da ’rigattiere’: un poeta non poteva scrivere di tutto sui giornali e riviste, con la scusa di non avere che mangiare. Figurarsi poi scrivere romanzi pornografici, come ’Le undicimila verghe’ che, invece, Picasso considerava il capolavoro di Apollinaire. Secondo Jacob, Guillaume non era un poeta d’avanguardia, nonostante i suoi sforzi, ma un poeta malinconico post-simbolista il cui maestro era Paul Verlaine. Tuttavia Jacob, finché era in vita, lo difese dai velenosi attacchi, anche se poi cambiò idea quando si accorse che il più grande poeta del novecento era diventato proprio quel Guillaume che riteneva un mero giornalista della poesia.
Apollinaire scrisse nel 1919: “Max Jacob possiede maniere eleganti e veste in modo desueto. Dall’astrologia ha derivato la poesia e la metafisica. Basta che gli dite la vostra data di nascita e subito vi indovinerà il destino, accostandolo ai grandi nati dello stesso giorno: ama la buona cucina, la Bretagna e i cappelli a tubo. Non azzardatevi a paragonarlo a qualcuno, altrimenti diventerà furioso”. Aggiunse che Jacob scriveva una poesia al giorno, il pomeriggio dipingeva per riposarsi e la sera la consacarava ai suoi amici, ai suoi cugini e alle grazie.
De Chirico scrisse: “Questo Jacob, in fatto di arte vale meno di zero; un parassita della letteratura che tira avanti rubando a destra e a sinistra senza nemmeno capire ciò che ruba... per di più è uno che per la sua ignoranza e la sua imbecillità non capisce nulla della grande arte italiana moderna e quando ne può dir male, nelle combriccole ove vive, lo fa con tutta la stizza schifosa di una femminuccia isterica...” .
Carcere. Nel 1906 Apollinaire fu rinchiuso alla Santé per cinque giorni perché gli fu attribuito il furto della Gioconda (rubata, come noto, da un manovale italiano per ordine di Gabriele D’Annunzio). Lo liberarono quando fu preso l’operaio Vincenzo Peruggia, mentre stava vendendo il celebre dipinto di Leonardo a un antiquario di Firenze. In questura Apollinaire aveva fatto il nome di Picasso che, però finse di non riconoscerlo e, nel 1959, confessò di avere rimpianti per quel disconoscimento.
In realtà quelli della banda Picasso erano noti come una vera banda di ladri di opere d’arte, si divertivano a trafugare statuette al Louvre per poi restituirle, per il puro piacere di tenerle qualche giorno nell’atelier e ammirarle, dipingerle. Apollinaire divenne anche una sorta di involontario ricettatore di opere d’arte, trafugate da un suo segretario belga, uno dei loschi personaggi che frequentò.
Nel 1911 su ’Paris Journal’ apparve l’articolo ’Mes prisons’ dove il poeta raccontava dettagliatamente le paure che aveva sofferto in prigione, quell’andare verso la cella come verso la morte, quel non riconoscersi affatto come un immigrato ladro e baro.
Nel 1912 Apollinaire lascia Auteil per stabilirsi in rue Saint-Germain, al 202, dove resterà fino alla morte.
Opere. Nel 1906 nacque il primo progetto di ’Bestiaire’ nell’atelier di Picasso che, a quell’epoca dipingeva sul legno una serie di animali. E, qualche mese prima del carcere, uscì ’Bestiaire ou le cortège d’Orphée’, poesie nate dai bestiari medievali dove Apollinaire si identifica con un polipo, un vampiro e il pavone che fa la ruota ma inevitabilmente mostra il sedere. Poi si augura di avere una donna che somigli a un gatto che passeggi tra i libri.
Nel 1909 il suo primo libro serio, ’L’Enchanteur pourissant’, che segue ’Le undicimila verghe’ , ma non ha niente a che vedere, se non nel rivelare la misoginia dell’autore. Voleva sembrare scrittore erudito. Da libertino aperto a tutte le specialità sessuali a incantatore, mago di tutte le magie meno quelle d’amore. Il libro narra del mago Merlino che viene rinchiuso dalla sua amata Viviana dentro un pozzo. Il suo corpo è morto, ma l’anima è viva. Uscì in edizione numerata presso un piccolissimo editore, illustrato dal pittore Derain, circolò solo fra le mani degli amici. In Viviana c’era Annie e il libro rappresentò un manifesto della crudeltà femminile.
Nel 1910 esce ’L’Hérésiarque et Cie’, che raccoglie i racconti scritti dal 1889 al 1910. ’Al solito fantasia ed erudizione vanno a braccetto e la sua biografia anche qui è setacciata. Sono i suoi amici pittori a ispirare questi racconti’. L’ ’incantatore’ si è trasformato in ’eresiarca’ che si muove dentro la favola reale della religione, non più mito, leggenda e magia, ma pura superstizione. Il risentimento anticlericale attraversa tutto il libro. Nel racconto che dà il titolo, l’eresiarca è Benedetto Orfei secondo il quale era dallo stupro di una vergine dormiente che era nato Gesù. ’La Chiesa è come la merda – diceva Orfei – Più la si rimuove e più puzza’. In un altro racconto si parla di ebrei, di cui Apollinaire era innamorato. In altri, i personaggi, dopo aver perduto la fede, si abbandonano a dissolutezze di ogni tipo, data la loro incertezza sessuale. Guillaume mescola finzione e realtà, erudizione e leggende, autobiografia e sogno.
Si parla anche di cinema, di cui Apollinaire era curioso e finirà anche con lo scrivere un soggetto cinematografico, ’La Bréhatine’ che firmerà con l’amico André Billy.
Scrisse: “Ogni invenzione trova in me un chiaro ammiratore, almeno entusiasta. D’altronde, le lettere e le arti sono la mia consolazione e soddisfano il mio amore per il bello e il sensato. Dopo aver detto questo non c’è nulla di strano che io sia interessato al fonografo e al cinematografo. Soddisfano allo stesso tempo il mio amore per la scienza, la mia passione per le lettere e il mio gusto artistico”.
1911. Apollinaire comincia sul ’Mercure’ la rubrica ’La vie anecdotique’, una specie di diario in pubblico che seguirà per tutta la vita. Gli aneddoti, spassosi, riguardano non solo amici artisti ma anche uomini comuni e personaggi storici, come Aretino che descrive come fosse se stesso, soffermandosi sul padre di origine plebea e sulla madre prostituta. Il polemista italiano mistificò le sue origini, come Guillaume. Aveva amici pittori e la sua stessa risata scrosciante. Gioviale, generoso, innamorato delle donne, non disdegnò i piaceri omosessuali. E ancora indentificandosi: era miscredente ma rispettava la religione, poligrafo, ma di genio. Non era l’Aretino soltanto un prosatore, ma anche un poeta di prim’ordine. Tutta la curiosità aneddotica di Apollinaire è poi rivolta agli autori censurati, come De Sade, e ai plagiari. Gli interessava la letteratura frivola, oscena, disgustosa, proibita, libertina.
’Les peintres cubistes’. Esce nel 1913 e raccoglie i suoi articoli di critico d’arte. Nel 1909 era uscito il Manifesto dei futuristi. Un anno dopo i futuristi fecero irruzione nell’atelier Picasso e incontrarono Guillaume che recensì la prima mostra parigina di Severini e Boccioni. Temeva che il nuovo movimento volesse scoronare il Cubismo e, pur essendo colpito dalle parole in libertà e dalla novità soprattutto degli artisti fiorentini, considerava i pittori e poeti futuristi dei provinciali. Ma nel 1913 fu costretto a firmare, insieme a Marinetti, il Manifesto dell’antitradizione futurista e questo gli costò l’antipatia di molti dei suoi amici. Lo firmò come un plenipotenziario della poesia francese che si rivolgeva tatticamente a un satrapo italiano e riuscì a inserire i nomi di quasi tutti i suoi amici. Guillaume rimprovera ai pittori italiani di servirsi del soggetto e, in generale, di rifarsi agli artisti francesi: “Si dichiarano assolutamente opposti all’arte delle scuole francesi e ne sono soltanto imitatori”. L’Italia dal punto di vista artistico, per Apollinaire, segue buon ultima Francia, Spagna, Belgio e Inghilterra; non siamo più ai tempi di Michelangelo – sostiene- in cui si credeva che i grandi pittori potessero nascere solo nel bel Paese.
In ’Sur la peinture’, primo saggio della raccolta ’Le peintre cubiste’, Apollinaire analizza il cubismo come arte concettuale, dividendolo in quattro tendenze: quello scientifico (capofila Picasso), quello fisico, quello orfico e quello istintivo. Sostiene che la fiamma è il simbolo della pittura e che i pittori sono uomini che vogliono diventare inumani, cercando tracce che non troveranno nella natura e nel realismo. Il compito di ogni artista è quello di fare della pittura pura. Picasso studia un oggetto come un chirurgo dissecca un cadavere. Non sarà più l’uomo l’icona della nuova pittura, come era stato per i Greci, ma l’universo infinito. Secondo Apollinare l’arte moderna discende tutta da due pittori: Matisse e Picasso.
’Alcool’. Esce ad aprile 1913, il suo capolavoro poetico, che raccoglie poesie scritte dai 18 ai 32 anni e che, in bozze, privò della punteggiatura. Il volume inizia con le poesie che nascono dagli amori finiti. Poi ce ne sono altre dedicate agli amici, come Max Jacob, forse per tenerselo buono. In ’Cortége’ dedicata a Léon Bailby, Guillaume parla di sé in un modo che la dice lunga: “Un giorno attendevo me stesso/Mi dicevo Guillaume è tempo che tu venga/Perché io sappia alfine quello che io sono/Io che conosco gli altri...”. Poi guarda la folla del corteo senza individuare il suo corpo: “Tutti quelli che sopravvenivano e non erano me stesso/Portavano uno a uno i pezzi di me stesso/Mi hanno costruito poco a poco come si alza una torre/La folla si assiepa e io appaio me stesso/Come hanno forma tutti i corpi e le cose umane”. In ’Vendémiaire’ invita gli uomini dell’avvenire a ricordarsi di lui. Confessa alla fine di essere ebbro per aver bevuto l’universo intero e per aver composto canti di ubriachezza universale quando il giorno comincia a nascere. Con queste parole termina ’Alcools’. La raccolta fu recensita freddamente; Georges Duhamel etichettò Apollinaire come un “brocanteur”, un rigattiere della poesia, uno che rivendeva cose di altri. Era come se la critica, fatta perlopiù dai poeti rivali, volesse togliergli ogni impronta di novità: la mancanza di punteggiatura, dovuta all’attenzione al ritmo, al fiato stesso del poeta, fu vista come sottratta a Cendras. Insomma lo relegarono tra i manieristi più che tra gli innovatori.
’Le Poète assassiné’. Apollinaire lo fece pubblicare a Parigi nel 1916, in un breve permesso dal fronte. Lavoro in prosa dove sono rimescolati brani antichi e recenti, sul filo di una autobiografia sentimentale, che aveva iniziato a Monaco con lo pseudonimo ’Nyctor’. Pensato nel suo anno più prolifico, il 1913, e abbandonato per la improvvisa mobilitazione generale, il libro, che si può leggere anche come l’assassinio della poesia, ebbe molto successo e significò il rientro di Apollinaire alla grande sulla scena parigina.
’Calligrammes’. Raccolta che contiene le poesie più belle scritte per Lou e quelle di guerra. L’autore stesso lo definisce “livre de guerre” e lo dedica alla memoria dell’amico René Dalize, morto al fronte il 7 maggio 1917. Il sottotitolo è ’Poèmes de la paix et de la guerre’. Esce il 15 aprile 1918 e Apolllinaire vi appone la data 1913-1918 per sottolineare la continuità con ’Alcool’, ma questo libro è molto più sperimentale: vi compaiono i calligrammi disegnati con le gocce delle lettere. Le critiche furono tiepide, come quella di André Billy cui Guillaume risponde risentito: “ Anche se è un libro di guerra c’è la vita e certamente toccherà più di ’Alcools’”. Ma la critica attribuì all’erudizione del poeta più che alla sua creatività artistica le novità tipografiche del volume. Lui rifiutò in blocco l’accusa di essere un distruttore: “Il verso classico era già stato battuto prima di me e io ho ridato nuova vita ai versi di otto piedi... Non ho combattuto né il simbolismo né l’espressionismo...”. Queste poesie erano state composte tra la fine del 1912 e il 1917 e montate secondo un ordine approssimativamente cronologico. All’inizio i calligrammi vennero chiamati “ideogrammi lirici”. Il titolo primitivo del libro era ’Et moi aussì je suis peintre!’ che la dice lunga sull’invidia verso Picasso e i pittori in genere, che gli sembravano i veri innovatori del secolo nascente.
Nella prima poesia, ’Liens’, il poeta dichiara: “Scrivo soltanto per esaltarvi/O sensi o sensi cari/Nemici del ricordo/Nemici del desiderio/Nemici del rimpianto/Nemici delle lacrime/Nemici di tutto ciò che amo ancora”.
Nella poesia ’A l’Italie’ Apollinaire esprime tutto il suo amore per un paese che è madre e figlia insieme, a cui è legato per la sua nascita ma anche per i suoi artisti.
L’ultima poesia è dedicata a Jacqueline Kolb e si intitola ’La Jolie Rousse’, in cui Guillaume racconta che, dopo una vita intensa e avventurosa, è giunto il tempo della “ragione ardente”, che ha il fascinoso aspetto di una graziosa rossa. E finisce con “ridete ridete di me... abbiate pietà di me”.
La femme assise. Il romanzo che fu ritrovato sulla scrivania il giorno della sua morte. Era stato iniziato dal 1912. Nel romanzo si ritrova il periodo d’oro del Bateau-Lavoir, che è sempre stato il nocciolo duro di tutta l’opera di Apollinaire. La vita da squatter artistico lo aveva segnato a fuoco. Riempie il romanzo la parte sui Mormoni, la ripopolazione e la poligamia. C’è anche Jacqueline Kolb e il progetto di cantare Parigi confrontando quella prima della guerra e quella dopo.
Teatro. Nel 1903 concepisce il dramma teatrale ’Thérèse’, messo in scena dopo la guerra. La protagonista diventa uomo e suo marito diventa donna e fa perfino un figlio.
Durante una vacanza estiva prima di morire Apollinaire scrisse il dramma ’Couleur du temps’ dove tre personaggi, tra cui il poeta Nyctor, il primo dei suoi pseudonimi, uno scienziato e un finanziere partono in aereo per fuggire dalla guerra, alla ricerca dell’isola della pace. Il gruppo raggiunge l’Equatore spingendosi verso i ghiacci del Polo. Guillaume si era ispirato al Decameron di Boccaccio (qui si parte per fuggire la peste).
’Casanova’. Sottotitolata ’Commedia parodica’, è un’ operetta giocosa, protagonista il giovane Bellino che aveva amoreggiato con tutte le dame della città, alcune delle quali si erano pure suicidate per lui. Dalla sessualità ambigua, Bellino appare anche come un’attrice. E’ Carnevale- e Guillaume qui ricorda la follia ridente del Carnevale italiano – Bellino, che soggiorna in una locanda conosce Casanova mascherato. Lui ama con leggerezza, rappresentando il piacere puro, senza noia mentre, a suo dire, il Don Giovanni era un personaggio tragico e triste. Si ride di tutto e l’autore qui sembra voler dimenticare per sempre la guerra e tornare alla sua Belle Epoque.
In entrambe le opere teatrali si torna a parlare dell’amore e della bellezza, in una sottolineandone l’aspetto pubblico, nell’altra il privato.
La guerra. La banda Apollinaire, presa dalle diatribe artistiche non capì la portata degli eventi che condussero alla prima guerra mondiale. Non erano intellettuali pensosi delle sorti dell’umanità e non era stata messa in conto la distruzione dell’umanità. Apollinaire fu accusato di non aver condannato la guerra, ma tutta la sua generazione di cubisti, simbolisti, orfisti e quant’altro si ritrovò a vestire i panni del soldato, a combattere e morire, senza discutere, senza dissertare. La politica interveniva solo come metafora nelle questioni di poetica. Fu facile contestare per chi venne dopo, ma comunismo e nazismo avevano politicizzato l’arte, sfigurandola, assoggettandola a compiti che non si era prefissa.
Scoppiata la guerra, l’estate 1914 Parigi si svuota. Picasso è ad Avignone, Marie Laurencin in Spagna col marito, Apollinaire tenta di rifugiarsi in Svizzera. Derain, Braque, Salmon e Léger sono al fronte. Poi torna a Parigi dove firma una domanda di arruolamento che gli verrà rifiutata. Allora decise di raggiungere Nizza dove conosce la contessa Louise de Coligny-Chatillo, detta Loulou. Lei non sembrava corrispondergli e lui firmò una nuova domanda di arruolamento. Questa volta gliela accettarono e raggiunse il trentottesimo reggimento di artiglieria a Nimes. La guerra entusiasmò e avvilì nello stesso tempo Apollinaire, non faceva che stupirlo, come fosse un’opera d’arte collettiva scritta dall’umanità intera. Scrisse ’Merveille de la guerre’ (in ’Calligrammes’) che raccontava la bellezza dei fuochi che illuminavano la notte e che gli sembrarono dame che danzavano. ’Anche sul set della guerra è uno spettatore a volte euforico a volte distrutto dalla fatica e dalle continue cadute da cavallo. Accosta gli strumenti di morte alla natura, ai fiori e la guerra diventa per lui un enorme spettacolo pirotecnico, non “la sola igiene del mondo” marinettiana, ma una grande opera poetica dove gli uomini esercitano un’arte millenaria. Contribuire con il proprio corpo a quell’opera gli sembra entusiasmante. Anche al fronte quindi scrisse senza sosta, oltre alle lettere e poesie a Lou, scritti sulla guerra, lettere anche a Madeleine in cui si lagna del lavoro in prima linea, del gas e dei pidocchi e poi le scrive: “Se muoio ti lascio tutto quello che possiedo”. E il 18 marzo 1916 le racconta del ferimento: “Amore mio. Sono stato ferito ieri alla testa da una scheggia di obice da 150 che ha perforato l’elmetto ed è penetrata. L’elmetto in questo caso mi ha salvato la vita. Sono straordinariamente ben curato e sembra che non sia grave. Scriverò appena possibile, tuo Gui”.
Immaginò se stesso come un patriota pluridecorato e anche i temi delle sue opere mutarono con al centro argomenti generali come la ripopolazione dell’Europa, la ricostruzione, la sociologia politica, i concetti di Patria e Nazione; temi che sconvolsero anche l’arte apollinairiana. ’Quella guerra aveva sfigurato la vecchia Europa ma anche la sua intelligenza. In una delle ultime frasi dei ’Documents’, Apollinaire diceva: “Con la guerra l’intelligenza è calata talmente che tutti sono diventati intelligenti”’.
Malattia e morte. Dopo il ferimento in guerra e la congestione polmonare con i tre mesi in ospedale nell’autunno 1918, Apollinaire si ammalò di nuovo e il 9 novembre 1918 venne colpito a morte dalla ’spagnola’, che fece strage in Europa. La mattina Picasso e Jacob corsero da Cocteau per cercare un dottore perché Guillaume agonizzava, ma quando arrivarono a casa sua era già morto. Severini: “Nella grande stanza rosa dove lavorava e dove tante volte eravamo stati assieme, egli giaceva sereno, tenendo tra le dita il crocifisso che gli aveva messo Madame Faure-Favier. Appeso al muro, al suo capezzale, era uno dei più recenti quadri di Picasso e dei più belli. In quella stanza era molta gente, ma non mi ricordo di nessuno. Credo che me ne andai come inebetito, mentre mi sentivo lentamente e sempre più profondamente scavare dal dolore...”.
Tre giorni dopo, la pesante bara che conteneva il suo corpo fu trasportata dai suoi amici rimasti, dalla casa di boulevard Saint Germain 202 dove viveva con la moglie al cimitero di Père-Lachaise, dove fu sepolto. Apriva il corteo la madre Angelica, vestita in modo carnevalesco, che si fece beffe di ogni ipocrisia borghese anche in quella occasione. Diceva: “Un poeta mio figlio? Scherziamo... piuttosto un fannullone”. Fra gli amici: De Chirico, Savinio, Severini, Ungaretti, Max Jacob, Salmon e l’immancabile Picasso. Jacob all’orecchio di Salmon: “E adesso chi è il migliore?”, intendendo che finalmente era lui il più grande poeta di Francia. Parigi era in festa per la fine della guerra (il giorno prima, l’11, ci fu l’armistizio) e la moglie Jacqueline non aveva più occhi per piangere un poeta così tanto amato e poco goduto. Dovette anche subire Angelica che la fulminava con lo sguardo. Il fratello Albert non era potuto venire dal Messico. Lui e la madre morirono un anno dopo.
Commenti. I giornali che riportarono la notizia della morte di Apollinaire parlavano della scomparsa di un narratore. L’’Excelsior’, dove lui aveva collaborato fino al giorno prima di morire, scrisse che era deceduto un eccellente prosatore, un romanziere originale che possedeva il dono della poesia: “Dolce, ironico, ben voluto da tutti, aveva appena legato la sua sorte a una sposa affascinante”. Savinio e suo fratello De Chirico rettificarono il tiro dicendo che fosse morto un classico della poesia lirica mondiale, ma non il padre delle avanguardie come Guillaume voleva apparire.
Jean Cocteau: “Era grasso senza essere grosso, la faccia pallida e romana, piccoli baffi su una bocca che scandiva le parole con una voce corta e aggraziata... Gli occhi ridevano della gravità del viso”. La sua risata non usciva dalla bocca ma veniva dai quattro angoli del suo organismo.
André Billy: “Quando lasciavo Guillaume era come se il calore e la luce del giorno si fossero abbassati. Quando correvo verso di lui era più forte di me io correvo, ridevo. All’improvviso la vita era bella... Si considerava della razza invulnerabile degli indovini e degli incantatori. Credeva alla sua propria leggenda. E la viveva con tutta la buona fede e con la bella ingenuità di un poeta bambino”. Per Billy, Apollinaire era sempre ispirato, era sempre in uno stato di meraviglia, di stupore dinanzi al mondo.
Fernand Fleuret. Per lui Apollinaire cercava soprattutto di sedurre. Si identificava con il suo interlocutore al punto che ogni ritratto che si faceva di lui era irrimediabilmente diverso. Per piacere al suo interlocutore assorbiva il suo modo di parlare, di camminare... A Fleuret capitava spesso di indovinare dalla sua voce, dal suo modo di gesticolare se aveva appena lasciato Picasso, Jarry, Jacob o altri. Era mimetico, anche se poi riversava tutto in un canto personale.
André Rouveyre. Per lui Apollinaire aveva incarnato, nella sua vita, volta a volta, tutti i personaggi della commedia all’italiana. Ne era il maestro e il principale protagonista. Le donne non erano fuori da quel teatrino di pupazzi.
André Breton. Lo vide in ospedale e poi lo frequentò quasi tutti i giorni: “Era un grandissimo personaggio, come non ne ho mai visti in seguito... Il lirismo in persona. Trascinava sui suoi passi il corteo di Orfeo”. Per Breton Apollinaire aveva scelto come divisa la meraviglia, come un poeta del Seicento italiano, il Marino (“E’ del poeta il fin la meraviglia”). Era contagioso, non aveva bisogno di spiegarsi... Era triste ma mai disperato Aveva il senso della novità. Non si dichiarava tuttavia mai rivoluzionario e chiamava “sorpresa” lo “scandalo”.
Ungaretti. Mentre i surrealisti condannarono il lirismo di Apollinaire, Ungaretti lo considerava il suo grande maestro: “Ho vissuto con lui per molto tempo... Credo di non aver più incontrato un uomo così straordinario... Passare un pomeriggio con lui voleva dire conquistare una fetta nuova e inesplorata di mondo. Di mondo esterno e di mondo interiore... Apollinaire è stato come Socrate e come il filosofo greco dava insegnamenti al di fuori di ogni scuola, per la strada, camminando lungo i boulevards, o in uno studio di pittore, o, più spesso, ai tavolini di un caffè, del Coupole soprattutto. Lui parlava e noi ascoltavamo. Quando s’accorgeva che l’atmosfera si faceva troppo seria rompeva tutto dicendo: ’Vado a mangiarmi un piatto di lumache’. Gli piacevano moltissimo i vecchi clisteri, quelli delle commedie di Molière e a casa ne aveva diversi, lì, tra un quadro di Picasso e una maschera africana. La sua casa era come un santuario. Era piena degli oggetti del suo culto”.
Renzo Paris conclude dicendosi affetto dal “Mal di Apollinaire”. Lo considera il più grande lirico del Novecento.