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 2012  marzo 06 Martedì calendario

PAROLE RISCHIOSE, NIENTE PIU’ INDULGENZA

Non è un caso umano, è un caso politico. Non è patetico Umberto Bossi che si lascia andare a minacce mortali nei confronti del Premier: è pericoloso. Non è il solito Bossi che le spara grosse. È un irresponsabile che mette in circolo in Italia i veleni di una violenza verbale inaudita. Dice che Monti deve stare attento a quando mette piede nel Nord. Chi parla così usa gli stilemi dell’avvertimento mafioso.
Associa la parola «morte» al nome di un avversario politico. Chi propone un accostamento così estremo è un piromane politico che delegittima la stessa Lega di cui è capo sempre meno indiscusso, per fortuna dell’Italia. È vero, oramai il linguaggio politico di Bossi era diventato un concerto di pernacchie, insulti, gestacci. Il passaggio all’opposizione ha poi sprigionato tutto l’oltranzismo compresso negli anni del governo, ha sgretolato i freni inibitori. Le stesse condizioni fisiche di Bossi, reduce da una drammatica e commovente lotta per la sopravvivenza che ebbe il suo culmine nel 2004, avevano creato attorno al lessico bossiano una cortina di indulgenza, di umana comprensione per chi aveva sofferto ma era riuscito a prendere nelle sue mani la vita e la direzione politica di un movimento importante nella vita del nostro Paese. Ma l’indulgenza eccessiva ha come dato il via libera a un’escalation di aggressività verbale che ieri ha raggiunto il suo apice con le oblique minacce di morte a Mario Monti.
Il «solito» Bossi, certo. Il Bossi che nel ’93 straparlava dei popoli del Nord intenti a «oliare i loro Kalashnikov». Il Bossi che sembrava quasi la caricatura del miles gloriosus di Plauto in versione padana quando delirava di «300 mila bergamaschi armati» pronti a calare su «Roma ladrona» per portare a termine l’insurrezione nordista. Il Bossi che, appena rotta l’alleanza con Fini alla fine del ’94, esortava i suoi ad andare a «prendere i fascisti casa per casa». Seguiva immancabilmente il coro delle deplorazioni, ma mai unanimi. C’era sempre la parte dello schieramento politico che aveva la Lega alleata impegnata nella minimizzazione e nel ridimensionamento: il «solito» Bossi, così schietto e «popolaresco». Con Berlusconi che cercava di assecondarne gli ardori, quando Bossi, in canottiera o con il dito medio alzato, era al suo fianco. E la sinistra che, quando invece Bossi aveva frantumato l’alleanza con Berlusconi, considerava la Lega come una «costola della sinistra» anche se dalla bocca del leader padano sgorgavano tossiche ingiurie contro «Berluskazz». O quando sfoggiava il repertorio del virilismo politico da osteria, accompagnando con i gesti del braccio lo sghignazzo sulla «bonazza», l’avversaria politica da insultare mentre la folla stravedeva per un leader così sboccato.
Oggi no. Oggi non può esserci accondiscendenza per un politico, ex ministro della Repubblica, ex cardine di una compagine di governo che per fare il federalismo ha voluto mettere mano alla Costituzione, non un dropout da taverna di periferia, non uno spaccone da paese, non lo scemo del villaggio, che dice al presidente del Consiglio di non farsi vedere nelle vallate nordiche per non rischiare la pelle. Nel suo partito c’è Maroni, un ex ministro dell’Interno che non può non conoscere il clima fetido che ammorba la lotta politica oggi in Italia. Ci sono gli ex alleati di governo, ma ancora alleati in tante Regioni e in tante città, che non possono più deplorare la violenza politica che intossica le manifestazioni che paralizzano l’Italia all’ombra della guerra santa dei No Tav senza dire che con uno capace di alludere a oscuri pericoli di morte il premier non è più possibile ipotizzare alleanze, a Roma e ovunque.
Non è più la fraseologia roboante ma in fondo innocua della retorica separatista. È soprattutto il modello di come non si deve fare opposizione in una società democratica. Dove tra la critica e la violenza deve esserci una barriera infrangibile. E che non può essere rotta nemmeno da chi, come Bossi, indossa i panni di un personaggio pittoresco. Da chi, può essere spiacevole dirlo ma è necessario, con la scusa di una grave malattia pensa che gli sia permesso esternare qualsiasi nefandezza politica. Da oggi non è più possibile minimizzare. Le pistole, anche verbali, non meritano la cittadinanza.
Pierluigi Battista