Francesca Marino, Il Messaggero 06/03/2012, 6 marzo 2012
FRA ITALIA A E INDIA AFFARI DA 7 MILIARDI
L’Italia in India, nonostante le parole italiane in assoluto più conosciute siano mafia e pizza, è di moda. È di moda da molti anni, in realtà. Da quando, cioè, si sono viste in India le prime catene di caffè chiamate Barista, da quando la pizza ormai la trovi anche negli angoli più improbabili del Paese di Gandhi, da quando in Maharashtra si produce vino e, in una nazione dove fino a qualche anno fa le uniche bevande alcoliche consumate erano gin e whisky, nessun party veramente chic è tale senza chardonnay. L’Italia è di moda in India, da almeno dieci anni: da quando cioè il reddito pro-capite reale indiano ha cominciato a crescere di un incredibile cinque per cento annuo, e la ricettività per nuovi prodotti è aumentata del cinquanta per cento circa. Se si pensa a una nazione composta da più di un miliardo di persone, fare i conti non è difficile. E i conti li hanno fatti, e bene, in mezzo mondo. Negli anni scorsi, da quando il tasso di crescita indiano ha cominciato a crescere in modo spettacolare e stabilizzarsi intorno a tassi del sette-otto per cento nonostante la crisi mondiale, c’è stata una vera e propria corsa da parte di investitori stranieri a investire sui mercati indiani. Ma, nonostante l’Unione Europea nel suo complesso sia il primo partner commerciale indiano, l’Italia ha stentato e stenta ancora a prendere (col rischio di perdere) il treno per Delhi e dintorni.
Nonostante il made-in-Italy continui a essere di moda in India, difatti, e nonostante la presenza stabile di circa quattrocento imprese italiane sul mercato indiano, l’Italia si colloca soltanto al diciassettesimo posto dei partner commerciali dell’India. Anche se quella fascia di cittadini indiani che vede il suo reddito lievitare ogni anno, coltiva a vari livelli una vera e propria passione per il cibo, il design, la moda, le automobili e le moto italiane. D’altra parte, la presenza dell’industria tricolore nel settore auto indiano è di antica data e alquanto consolidata: la Fiat opera da anni in joint-venture col gruppo indiano Tata per la produzione di automobili e con la Mahindra&Mahindra per la produzione di trattori. La Piaggio produce veicoli a tre ruote a Pune e varie altre industrie di componentistica e motori operano con successo sul mercato indiano. Sono presenze ormai consolidate anche i negozi Benetton, il gruppo Coin ed Ermenegildo Zegna che produce in joint venture con Mukesh Ambani. La Lavazza ha acquistato le catene Barista e avviato uno stabilimento produttivo a Hyderabad, mentre aziende come Prada, Versace o Cavalli, tanto per citare alla rinfusa ma l’elenco è lungo e comprende il gotha dell’alta moda italiana, producono in India molti dei loro ricami e delle loro confezioni. Da qualche anno i marchi dell’altra moda italiana, come Armani, Versace, Cavalli e Tod’s sono presenti anche con boutique monomarca.
Nel suo complesso, l’interscambio commerciale tra noi e l’India si è notevolmente incrementato negli ultimi anni, registrando negli ultimi due anni un incremento medio del 28% per cento circa, ma c’è comunque spazio per fare molto di più. Parola di Emma Marcegaglia che lo scorso ottobre, nell’annunciare l’ennesima missione economico-commerciale organizzata dal ministero degli Affari esteri, dello Sviluppo economico e da Confindustria in India, dichiarava: «L’India è un mercato prioritario per le nostre attività internazionali. Lo abbiamo scelto perché è un Paese in continuo sviluppo, con una relativa stabilità politica, tassi di crescita da oltre vent’anni, superiori al 6%. Nonostante questo la nostra presenza non è ancora sviluppata e consolidata come dovrebbe». L’Italia mira difatti a portare a casa una parte dei settecentocinquanta miliardi di euro stanziati da Delhi per lo sviluppo delle infrastrutture nel quinquennio 2012-2017, che potrebbero far raddoppiare l’interscambio tra i due Paesi: da 7,2 a 15 miliardi di euro.