Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 05 Lunedì calendario

LA RICETTA DI HARVARD: CHI DELOCALIZZA NON VINCE

Il declino degli Stati Uniti come superpotenza economica è stato annunciato parecchie volte, negli scorsi trent’anni. Non è avvenuto. Ciò nonostante, la discussione che oppone «declinisti» a «continuisti» è oggi più forte che mai tra i think tank del Paese. L’Università di Harvard ha deciso di entrarci con il suo peso di ricerca e con i muscoli intellettuali dei suoi accademici. Scendendo dagli scenari geopolitici alla concretezza del fare business in America, ha stabilito che i segni di un possibile declino sono molti e preoccupanti, in termini di capacità di attrarre investimenti e di creare un ambiente favorevole agli affari: ma che le forze dell’economia americana sono tali da potere rovesciare la tendenza se il Paese e soprattutto la sua politica riescono a uscire dallo stato di denial, di negazione della realtà, nel quale vivono e se trovano forze bipartisan e collettive nell’interesse nazionale. Le proposte di Harvard sono un cambio radicale del paradigma economico egemone negli anni passati, tutto conflittuale.
Dal punto di vista statistico, coloro che si sono formati a Harvard stanno con i «declinisti»: il 71% degli ex allievi - oggi per lo più professionisti, top manager e gente di finanza - prevede che nei prossimi anni l’America perderà competitività. Per molti versi, è la presa d’atto di una realtà difficile da negare: nell’economia globale sono entrati una serie di attori che prima stavano ai margini - Cina in testa - ed è inevitabile che questo emergere di forze nuove, di capitale umano rappresenti una concorrenza formidabile all’egemonia degli Stati Uniti. La parte più interessante del lavoro di Harvard, però, sta nei contenuti che ha messo in luce e nelle proposte individuate per «reinventare l’America».
Lo scorso novembre, la Harvard Business School ha organizzato un convegno sul tema, al quale ha invitato leader del business, del sindacalismo, dei media e dell’accademia. I risultati della discussione sono poi stati elaborati da alcuni dei docenti dell’università - tra loro calibri come Michael Porter, Jan Rivkin, Laura D’Andrea Tyson, Mihir Desai - e pubblicati in un lungo dossier sulla Harvard Business Review. L’edizione italiana di quest’ultima, poi, ha riproposto i temi e li ha sottoposti all’opinione di una dozzina di top manager e intellettuali per cercare proposte capaci di ricostruire la competitività dell’Italia. Il risultato è un blocco di indicazioni - un Compact, come si usa dire ora - attorno al quale sia l’America sia l’Italia sono chiamate a riflettere e a prendere decisioni. Una visione - scrive il direttore della Harvard Business Review Italia, Enrico Sassoon - che ha i caratteri di «un nuovo umanesimo economico e imprenditoriale».
In effetti, uno dei richiami centrali dell’analisi harvardiana sta nella necessità di cambiare approccio: non serve solo la fase critica, il finger pointing per indicare colpe di altri; occorre che tutti, in primo luogo chi fa impresa e chi si occupa di lavoro incalzi una politica sempre più bloccata, a Washington come a Roma, e sempre più divisa e litigiosa («che non fa prigionieri») secondo linee ideologiche. Da qui, il nuovo canone di competitività elaborato da Porter e Rivkin: «Gli Stati Uniti sono un luogo competitivo allorché le imprese che vi operano sono in grado di competere con successo nell’economia globale e allo stesso tempo sono in grado di sostenere standard di vita alti e crescenti per l’americano medio». Lo stesso si può ovviamente applicare all’Italia e agli italiani. Vista con queste nuove lenti, la competitività non è più solo capacità di fare utili: deve anche sapere accrescere il benessere sociale allargato.
Le proposte concrete sono in alcuni casi sorprendenti. Sul versante del lavoro, per esempio, Thomas Kochan sostiene che dobbiamo ammettere un concetto che è stato a lungo negato: «Quel che è buono per le singole imprese americane non è più automaticamente buono per il business a livello nazionale, per i lavoratori americani o per l’economia». La globalizzazione e lo spostamento di imprese da un Paese all’altro ha cambiato tutto. Kochan propone di passare a un modello di imprese fondato sulla cosiddetta high-road strategy, cioè su pratiche che, oltre alla ricerca di performance elevate, prevedono lavoratori ad alta capacità collaborativa, forti investimenti nel training, l’impegno a costruire la fiducia in azienda per risolvere i problemi e stimolare l’innovazione, sistemi di compensazione che allineano l’interesse della società con quelli dei dipendenti, partnership tra management e lavoratori (il che significa anche rilanciare il ruolo dei sindacati, oggi in crisi).
«Le società che seguono queste strategie - sostiene Kochan - generano consistenti ritorni per gli azionisti e sostengono standard di vita alti e crescenti». Sulla base di questa impostazione sistemica e in qualche modo bipartisan, Harvard ha elaborato la proposta di un Jobs Compact per il futuro dell’America, finalizzato alla creazione, entro il 2020, di 20 milioni di nuovi posti di lavoro di alta qualità, obiettivo da raggiungere investendo sul «capitale umano» e sulla creazione di condizioni non solo perché le imprese investano in America ma anche affinché molte produzioni spostate all’estero negli anni scorsi ritornino. Grandi gruppi come Ford, General Motors, General Electric, Boeing si sono per esempio messe al tavolo con i loro sindacati, hanno calcolato benefici e oneri reali della delocalizzazione e poi hanno rinegoziato i salari d’ingresso per le fabbriche americane, la suddivisione dei profitti e gli impegni per investimenti tesi a riportare posti di lavoro in America. In un articolo sulla Review, il numero uno di General Electric, Jeffrey Immelt, spiega sulla base di quali calcoli il gruppo abbia deciso di invertire la politica di outsourcing degli anni scorsi.
Oltre che sul lavoro, Harvard ha puntato l’attenzione sulla scuola e l’educazione, sulle strategie di localizzazione, sui problemi della manifattura, sulla finanza, sulla macro-economia e sulla politica. Quest’ultima, divisa e inefficace, è uno dei maggiori problemi degli Stati Uniti: senza risolvere il quale i vecchi paradigmi permarranno e i «declinisti» potrebbero alla fine avere ragione. Come in Italia.
Danilo Taino