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 2012  marzo 05 Lunedì calendario

TRIESTE

Siamo tutti in debito con Trieste. Conquistata al prezzo di 650 mila vite, perduta nel disastro della guerra e dell’esodo istriano, ripresa dopo 18 mesi di crimini nazisti, 40 giorni di massacri titini e nove anni di occupazione angloamericana, e poi dimenticata.
Trieste che ha dato all’Italia Saba e Svevo, Strehler e Magris, Kezich e Dorfles, Trieste crocevia di tre mondi, latino tedesco slavo, Trieste la città più settentrionale del Mediterraneo e più meridionale della Mitteleuropa; eppure Trieste è in un angolo, anche oggi che a cinque chilometri non c’è più il comunismo ma l’Europa di domani, non la cortina di ferro ma l’Est entrato nella sfera d’influenza tedesca. Di questa opportunità, il Paese non si è accorto: alla sua unica grande città di confine l’Italia volge le spalle; l’Italia finisce a Mestre.
A Mestre — signori, si scende — la ferrovia rallenta, ferma in ogni stazione, si inerpica in salita, passa su viadotti ottocenteschi. Eppure si è scelto di non costruire la linea ad Alta velocità insieme con la terza corsia dell’autostrada; prima o poi bisognerà farla, ma a costi doppi. Un secolo fa, da Trieste partivano treni diretti per Fiume, Lubiana, Ragusa, Mostar, Belgrado, Budapest; ora (anche a causa dei ritardi sloveni) non si va più neppure a Vienna. In vagone letto si arrivava a Belgrado e a Parigi; ora si va solo a Lecce. Per Roma bisogna cambiare: «Ci si mette più tempo ad andare in treno da Trieste a Roma che in aereo da Roma a New York» ha scritto Giovanna Botteri sul Piccolo, che sta raccogliendo le testimonianze di triestini indignati (il giorno prima toccava a Margherita Hack, toscana che lavora qui dal ’64: «A Mestre si perde sempre la coincidenza, non ci aspettano mai...»).
L’antico porto dell’Impero adesso è più piccolo di quello di Capodistria. L’Adriatico davanti a Trieste pare un lago, a occhio nudo si vedono le sponde slovene e quelle croate, potrebbe diventare un mare urbano, una piazza d’acqua solcata dalle navi. Ma il traffico passeggeri langue, non si trova l’accordo per nominare i dirigenti del Terminal tra gli investitori privati e la presidente dell’autorità portuale, Marina Monassi, casualmente compagna del controverso capo locale del Pdl Giulio Camber, detto il Castellano per la sua signorile dimora. Il porto vecchio voluto da Maria Teresa è in rovina. Le Generali volevano farne la sede delle attività italiane; il Comune si oppose, le Generali si spostarono a Mogliano Veneto (a Trieste resta la sede della holding internazionale, oltre a decine di insegne sui palazzi più belli, come un marchio sulla città). Poi si è fatta avanti la Evergreen, colosso cinese, che però avrebbe abbattuto i magazzini storici; altro rifiuto, stavolta giustificato. Ora dovrebbero finalmente cominciare i lavori per restituire il mare alla città, com’è accaduto a Genova, e spostare le ultime attività nel porto nuovo, che boccheggia chiuso com’è dalla ferriera, in mano ai russi, e poco più in là dalla Grandi Motori, comprata dai finlandesi.
Trieste ha poco di Nord Est, e meno ancora di italiano. Non è città di piccoli imprenditori ma di mercanti cosmopoliti: sette cimiteri — cattolico, ebraico, islamico, greco-ortodosso, serbo-ortodosso, evangelico, più quello militare con tombe di ogni religione — e neppure un ghetto. Ci sono chiese luterane, valdesi, metodiste, anglicane, oltre a una sinagoga tra le più grandi d’Europa e una chiesa ortodossa di commovente bellezza, San Spiridione, con le cupole e l’iconostasi dorata come al Cremlino. Cose che esistono solo qui: i buffet dove servono le carni affumicate con il kren, i ricreatori — oratori laici per i ragazzi, aperti dai tempi degli Asburgo —, i caffè che servirono la Sachertorte a Joyce e a Rilke: perché, spiega Claudio Magris, «quando una città non sa dov’è, di chi è, che cos’è, allora si affida alla letteratura».
Magris sorride del revival austriacante. Il sindaco pd Roberto Cosolini, appena vinte le elezioni, si è portato a Vienna a incontrare il borgomastro: il 2014, anniversario della Grande Guerra scatenata dall’Austria, sarà celebrato a Trieste con mostre e concerti in memoria della buona amministrazione asburgica; ma non è nostalgia per cose passate, è solo un modo per ricordare all’Italia che Trieste esiste.
Certo, arrivando da Roma o da Milano (il volo da Linate è stato ripristinato), pare quasi di essere in un altro Paese. Di solito in Italia si dice sempre di sì, e poi non si fa nulla. I triestini dicono sempre di no — «No se pol!» —, e poi fanno tutto. Si può andare in Slovenia con l’auto noleggiata? «No se pol, ci vogliono le catene!»; in realtà le catene sono già a bordo. Avete una cartina? «No, sono finite!»; ma a bordo ci sono anche le cartine. Un minaccioso cartello avverte che «se il veicolo sarà restituito particolarmente sporco saranno addebitati euro 71 di lavaggio». Per avere un antibiotico senza ricetta si viene — giustamente — rimproverati da quattro farmacisti prima di essere accontentati dal quinto. Di solito alla vista di una telecamera gli italiani si fiondano facendo ampi gesti di saluto; i triestini cambiano marciapiede, «grazie ma preferirei non comparire». Le macchine si fermano sulle strisce e non parcheggiano (quasi mai) in doppia fila. Si trovano i taxi. Le pizzerie invece sono rare, più facile trovare la porcina con i crauti che una margherita.
La Bella Addormentata, come qualche triestino chiama la sua piccola patria, si sveglia con il buio. La città ha angoli metafisici ed episodi surreali: d’un tratto si sente un coro notturno, una canzone goliardica, un suono di campane, che battono implacabili tutte le ore, anche le tre del mattino. Mai visti tanti autovelox e tanta polizia, anche la sera, in una città italiana. La settimana scorsa poi c’erano in giro un sacco di scozzesi in kilt: tifosi dell’Aberdeen. Si giocava in Slovenia ma loro sono scesi in albergo qui, dopo aver letto la classifica della Lonely Planet che colloca Trieste in testa tra le città belle e poco conosciute (Aberdeen è quinta). I giovani triestini, che raccontano di sentirsi talora allo stretto, quasi al confino, fanno il percorso inverso e vanno a Lubiana, che per bellezza non regge il confronto con la loro città ma è pur sempre una capitale. Si pagano 15 euro per la «vignetta», il pedaggio autostradale, e si risparmia il 30% sulla benzina, la metà sul dentista, due terzi sui centri benessere. Chi ha soldi da gettare punta invece verso la costa, su Portorose e i suoi casinò; oppure porta qui la barca, per sfuggire alle tasse del nuovo governo.
Le terre slave fino a qualche anno fa suscitavano ancora diffidenza, se non odio e timore. Spiega Magris che nel giro delle generazioni si sono sciolte rivalità ataviche, superati rancori di guerre e occupazioni: «Fra i miei studenti, ad esempio, il problema non esiste. La celebrazione — voluta da un sindaco di centrodestra, Roberto Dipiazza — di Boris Pahor quale nostro scrittore, scrittore di tutta la nostra Trieste, avvenuta nel Teatro Verdi, simbolo del patriottismo italiano, è stata significativa. Non si tratta di scordare i morti né le violenze, ma di non usarli per riattizzare odi». Sono ancora pieni di dolore e rabbia, però, i familiari delle vittime. Raccontano l’angoscia di bambini che videro uscire di casa il padre senza mai vederlo tornare, senza sapere dove fosse finito, senza avere un corpo da seppellire, una tomba su cui piangere. Andiamo a Basovizza con Paolo Sardos Albertini, presidente del comitato onoranze caduti delle foibe, e con Anna Maria Muiesan Gaspàri, l’autrice della poesia incisa accanto al pozzo, storia di sua madre che va alla ricerca del marito nei campi di prigionia con una foto in mano, «co’ tuti i so recordi/che i xe deventadi mii». C’è anche Nicolò Molea, l’uomo che ha passato la vita a chiedere una lapide con l’elenco dei finanzieri assassinati, e dieci anni per far correggere il nome di suo padre: maresciallo Domenico Molea, non Moleo, come avevano scritto. I primi a sparire erano stati i poliziotti: gli uomini di Tito andarono a prenderli il primo maggio, appena entrati a Trieste. Poi toccò a chiunque portasse una divisa, pure ai bidelli. Quindi agli impiegati comunali e anche ai capi antifascisti contrari all’annessione alla Jugoslavia.
Basovizza non è una foiba ma un pozzo, scavato da un minatore che cercava la bauxite, la leggenda dice che non avendola trovata si sia gettato dentro. Quanti corpi ci siano con il suo, non si saprà mai. Gli inglesi occupanti provarono a recuperarli con l’argano, ma rinunciarono quando s’imbatterono in granate inesplose e — raccontano i vecchi triestini — nella carcassa di un cane nero, che i titini gettavano insieme con gli odiati italiani per dannarne l’anima per l’eternità. I morti di Basovizza si calcolano a cubatura: siccome la fossa è piena per 500 metri cubi, e in un metro cubo ci stanno quattro corpi fracassati, i morti dovrebbero essere duemila. Qui vicino, nel bosco, c’è invece una foiba vera, la Plutone, con la bocca spalancata come la porta dell’Ade. Non ci si può avvicinare, il terreno sdrucciolevole ti trascina dentro. A gettare un sasso, lo si sente risuonare a lungo, prima di toccare il fondo.
La cosa che più indigna i familiari delle vittime è far notare che prima delle foibe ci furono la politica antislava del fascismo e l’occupazione della Jugoslavia. È l’obiezione che si sentono fare sempre. Sempre replicano che gli italiani del confine orientale non erano più o meno fascisti dei connazionali, ma hanno pagato il prezzo più alto. Negli stessi giorni del maggio 1945 cominciava l’esodo di 300 mila istriani, sistemati a Trieste in 109 campi profughi, compreso quello allestito nella Risiera di San Sabba. Un nome insolito — uno stabilimento per la lavorazione del riso, un santo sconosciuto — per indicare l’unico lager tedesco in territorio italiano dotato di forno crematorio, che bruciò i corpi di 2 o 3 mila antinazisti. La Risiera era un lager di città, accanto c’era già lo stadio, oggi intitolato a un altro grande triestino, Nereo Rocco. I profughi di Pola — su 34 mila abitanti partirono in 30 mila, portandosi dietro la bara di Nazario Sauro — e di Fiume, sfuggiti al comunismo e alla vendetta titina, si trovarono distesi sulle stesse panche che due anni prima avevano accolto i settecento ebrei triestini, in viaggio verso Auschwitz: tornarono in venti. Racconta Magris che quando, dopo il liceo, andò a Torino per l’università, tutto gli appariva più semplice e chiaro: i giusti e gli ingiusti, i perseguitati e i persecutori. A Trieste era diverso: tutti contro tutti; si era diviso persino il Cln. Non è vero, dice Magris, che delle foibe non si è mai parlato, lui stesso ne scrisse sul Corriere, con cui collabora dal ’67; «ma non importava nulla a nessuno. Non serviva politicamente. E la città aveva rimosso anche la Risiera, capitava che il boia Lerch si facesse rivedere a Trieste, accolto da famiglie perbene». Ora è cambiato tutto, Basovizza e la Risiera sono monumenti visitati da decine di migliaia di studenti, e Roberto Menia — anima della destra, figlio di una profuga istriana —, che da capo del Fronte della Gioventù si scontrava con la Fgci guidata proprio da Cosolini, ora si ritrova con il sindaco a sostenere il governo Monti, cercando di portare qualcosa in città.
Dice Magris che il futuro di Trieste è legato al polo della scienza, in particolare alla Sissa, Scuola internazionale di studi superiori avanzati, dove lo scrittore ha tenuto per quattro anni un corso sui rapporti tra le due culture, l’umanistica e la scientifica. È d’accordo Riccardo Illy, per otto anni sindaco della città, per cinque presidente della Regione, ora tornato in azienda. Trieste ha un’antica storia di contaminazioni tra i saperi, la psicanalisi e la medicina, la letteratura e la fisica. Qui venne Franco Basaglia a rivoluzionare la psichiatria italiana, i padiglioni ottocenteschi del vecchio manicomio — per «tranquilli», «semiagitati», «agitati» — oggi ospitano asili nido e istituti universitari. Qui sul Carso Rubbia impiantò il sincrotrone che fotografa le molecole; ora hanno inventato anche il laser a elettroni liberi che fissa le immagini in movimento, si potranno vedere eventi infinitamente piccoli, come le molecole di un antibiotico che aggrediscono i batteri. Oggi in città ci sono settemila ricercatori, non estranei al primato dell’università — la prima italiana nella World Top Universities — e alla nascita di piccole imprese ad alto tasso tecnologico, come la Ital Tbs, ramo software medicali, e la Kropf, che fa i test per la celiachia. Illy coltiva invece un altro ramo dell’eccellenza triestina: il caffè, il tè, il cioccolato, le confetture e altre delikatessen di una città golosa. Suo nonno paterno, ungherese di Timisoara (oggi in Romania, allora nell’Impero), sposò una donna metà irlandese metà tedesca; i nonni materni erano istriani, lui di Pola lei di Rovigno. Ora Riccardo Illy e suo fratello Andrea hanno aperto nel mondo 230 caffè con il loro marchio, per combattere sia pure in ritardo il fenomeno mortificante delle catene internazionali che offrono menu in italiano — ristretto, macchiato, cappuccino — ma non sono italiane.
È il destino di Trieste, esportare idee e uomini. Quando vi sbarcò l’Audace, il 3 novembre 1918, i triestini erano 230 mila; ora sono 25 mila in meno. La città contende a Bolzano il primato nelle classifiche di qualità della vita, e a Genova quello della città più anziana d’Italia. Sono sopra la media nazionale sia i depositi bancari sia, in teoria, i reati: ma questo perché i reati qui vengono denunciati tutti. Sarebbe sbagliato però presentarla come una città asburgica, il tratto latino e mediterraneo alla lunga prevale, persino la bora — che a febbraio ha imperversato con raffiche a 168 chilometri l’ora — cede il posto ai venti del Sud: in un secolo la frequenza della bora e in genere dei venti orientali è diminuita di 28 giorni l’anno, quella dello scirocco e dei venti meridionali è aumentata di 18 giorni.
Trieste insomma è nostra, appartiene più che mai all’Italia, e l’Italia le appartiene; anche se spesso se ne dimentica. Invece dobbiamo sempre ricordare il «barbaro sognante» Slataper e il genio suicida Michelstaedter, il passaggio di Tommaseo e quello di Tomizza; gli irredentisti impiccati dagli austriaci e i duemila volontari che disertarono dall’esercito imperiale per combattere accanto agli altri italiani; i triestini perseguitati dai nazisti e quelli infoibati dai comunisti, e anche i sei ragazzi uccisi dagli inglesi nel ’53 mentre manifestavano per il ritorno della città all’Italia; il più giovane, Piero Addobbati, aveva solo 14 anni. Per tutto questo, e per molto altro ancora, dobbiamo sempre ricordarci di Trieste.
Aldo Cazzullo