Mario Baudino, La Stampa 6/3/2012, 6 marzo 2012
“La storia dal punto di vista dei vincitori è sempre arrogante, quella dal punto di vista dei vinti è rancorosa»: così Gianni Oliva, storico dei Savoia e degli Alpini, ma anche fra i primi a indagare senza complessi la tragedia delle foibe quando non era considerato affatto opportuno parlarne, lancia una provocazione che ha per titolo Un regno che è stato grande , in libreria da oggi per Mondadori
“La storia dal punto di vista dei vincitori è sempre arrogante, quella dal punto di vista dei vinti è rancorosa»: così Gianni Oliva, storico dei Savoia e degli Alpini, ma anche fra i primi a indagare senza complessi la tragedia delle foibe quando non era considerato affatto opportuno parlarne, lancia una provocazione che ha per titolo Un regno che è stato grande , in libreria da oggi per Mondadori. È un libro dedicato al Regno della due Sicilie, alla «storia negata dei Borboni», che ne ricostruisce la vicenda dal 1734, quando le «ardite combinazioni della diplomazia europea» fanno sì che Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V e della seconda moglie Elisabetta Farnese si ritrovi a capo di un regno nuovo di zecca, fino ovviamente al 14 febbraio 1861, quando Francesco II e la regina Maria Sofia abbandonano Gaeta - assai poco rimpianti - su un piroscafo francese che li porterà nello Stato Pontificio. Non è un libro «revisionista», nel solco di quella pubblicistica cosiddetta neoborbonica che l’anno scorso ha avuto un certo successo dipingendo un Meridione avanzato, ricco, prospero, una sorta di Paese del bengodi saccheggiato dal Nord e ridotto in una situazione di sfruttamento, povertà, disordine sociale. Oliva, semplicemente, riparte dai dati di fatto, e da opere non certo inclini alla propaganda come la Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce. Ne esce un quadro tra luci e ombre, dove però alcuni aspetti essenziali vengono rimessi a fuoco al di là di una certa «vulgata» nordista: per esempio, la grande stagione che nel Settecento fece di Napoli una metropoli internazionale, e del regno addirittura una speranza per i primi intellettuali che sognavano un’Italia unita. Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia fino al 1759 (poi di Spagna fino alla morte), e il figlio Ferdinando I sembrano anzi realizzare un sogno. Fanno del Mezzogiorno uno Stato autonomo, e non solo una sorta di colonia spagnola; avviano riforme ambiziose (riescono persino, almeno in parte, a far pagare le tasse alla Chiesa), contrastano con qualche efficacia i privilegi e gli arbitri baronali, rimodernano il gioiello di Palazzo Reale a Napoli, creano la reggia di Caserta e il teatro San Carlo, scavano a Pompei e Ercolano, radunano intorno a sé una élite intellettuale di primissimo ordine, potenziano l’Università. Tanto che già nel 1736 il piemontese Alberto Radicati di Passerano si rivolge a Carlo invitandolo «a compiere quel che a Torino non si era stati capaci di fare». La Napoli dell’Illuminismo, come sottolinea Oliva, è indubbiamente più avanti di Torino. È una delle città più importanti d’Europa, ricca e cosmopolita. Politicamente conta poco - anche se nel 1744, durante la guerra di successione austriaca, il neonato esercito borbonico riesce a bloccare le truppe imperiali a Velletri: ed è forse l’unica vittoria sul campo in tutta la storia del Regno -; culturalmente vive una grande stagione, se pure, sul piano amministrativo, le riforme non arrivano a compimento. In certi casi sono troppo ambiziose: per esempio fallisce miseramente, per la rivolta delle gerarchie ecclesiastiche e l’ostilità della popolazione, un coraggioso tentativo di accogliere gli ebrei, stimolandone l’immigrazione per rendere più dinamica l’economia. Alla fine la modernizzazione resta monca, e non sono sufficienti le prime ferrovie o le strade, o il miglioramento dei porti. Il Regno delle due Sicilie paga così lo scotto quando arrivano i venti della Rivoluzione; la feroce repressione della Repubblica partenopea, nel 1790, decapita - con inusuale ferocia - un’intera classe dirigente, e non basterà il periodo di parziale rinascita dopo il Congresso di Vienna per rimediare a quella che Oliva definisce una «frattura drammatica» che il Nord non ha conosciuto. I primi rintocchi delle campane a morto suoneranno nel 1848, quando Ferdinando II, ancora una volta, non saprà confrontarsi con le rivolte liberali se non usando la dissimulazione e la forca; e proprio l’isolazionismo ora davvero «borbonico» finirà per spingere il pendolo internazionale in favore di Vittorio Emanuele e Garibaldi. Un regno che è stato grande finisce suicida? «Diciamo che perde la sfida del ‘48», risponde Oliva, «perché si trova ad aver svuotato l’alleanza sociale che aveva reso possibile il riformismo. È proprio a questo punto che scatta il «sorpasso» definitivo e irrimediabile. La storia si farà a Torino. Ciò non toglie che quella di Napoli - e di Palermo - abbia avuto la sua grandezza. «Sicuramente il Nord era più avanti, ma non è che il Sud fosse totalmente privo di una classe media, e neanche di investimenti», conclude Oliva. È questo il senso del suo libro? «La conclusione è che al Sud dobbiamo riconoscere qualcosa. Perché quando è nata l’Italia come Stato unitario, anziché valorizzare il meglio del Mezzogiorno, ci siamo rivolti al peggio». Ma questo è già un altro libro. Forse il prossimo.