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 2012  marzo 05 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Michelle Perrot, Storia delle camere, Sellerio Palermo 2011, 18 euro.• Molte strade portano alla camera: il riposo, il sonno, la nascita, il desiderio, l’amore, la meditazione, la lettura, la scrittura, la ricerca di sé, Dio, la reclusione voluta o subita, la malattia, la morte

Notizie tratte da: Michelle Perrot, Storia delle camere, Sellerio Palermo 2011, 18 euro.

• Molte strade portano alla camera: il riposo, il sonno, la nascita, il desiderio, l’amore, la meditazione, la lettura, la scrittura, la ricerca di sé, Dio, la reclusione voluta o subita, la malattia, la morte. Dal parto all’agonia, la camera è il teatro dell’esistenza o almeno ne è il retropalco, il luogo dove il corpo nudo, deposta la maschera, si abbandona alle emozioni, al dolore, alla voluttà. Passiamo in una camera quasi metà della vita, la metà più carnale, più sommessa, più notturna, quella dell’insonnia, dei pensieri vaganti, del sogno, finestra dell’inconscio e forse sull’aldilà. (p. 23-24).

• «Tutta l’infelicità dell’uomo deriva da una sola causa: dal non saper starsene tranquilli in una camera» (Blaise Pascal, «Pensieri») (p. 24).

• In quella quintessenza del lusso che è, nell’Ottocento, una crociera in piroscafo, […]. (p. 27)

• Fino agli ultimi anni del Settecento, il re di Francia poteva assistere alle sedute plenarie del parlamento restando coricato […] sotto un baldacchino. (p. 29)

• […] Camera del re […] Luigi XIV, che nel 1701 ne stabilì la posizione; al centro del cortile di marmo, «rivolta verso il sole nascente, in un’imperiosa centralità» [Joël Cornette, Versailles. Le pouvoir de la pierre, Paris, Tallandier, 2006, p. 14]. […] Cuore pulsante di Versailles […]. Sappiamo soltanto che la stanza era tappezzata di velluto cremisi ricamato con fili d’oro; al momento del suo recupero, nel 1785, il peso di quell’oro fu valutato intorno ai 60 kg. […] All’interno, una sorta di parapetto detto «balustre» delimita un santuario, un tempio. […] Al di là della balaustra possono andare solo i primi valletti e coloro ai quali il re concede udienza, come gli ambasciatori stranieri. Ma anche a loro non è consentito superare il bordo del tappeto, che rappresenta un limite. […] Appoggiarsi alla balaustra è quasi un sacrilegio, un atto inconcepibile […] la balaustra […] isola il letto del re. Quel letto, riccamente damascato e munito di pesanti cortine, è sorvegliato giorno e notte dai valletti. Il primo valletto dorme ai piedi del letto. Quando il re è coricato, lui non esce mai: lo sorveglia e custodisce le chiavi del guardaroba dove sono riposti i suoi indumenti e le sue camicie. (pp. 37-43)

• […] La camera del re non ha un vero ruolo privato. Là il sovrano si corica e si alza, ma dorme poco. Appena è ufficialmente a letto, si presenta il primo valletto che lo accompagna, quasi ogni notte, dalla regina, portando anche la sua spada e il suo vaso da notte che lascia accanto al letto, su una poltrona. Il re compie scrupolosamente il suo dovere coniugale; […]. All’alba, il primo valletto viene a riprenderlo e lo riporta nella sua camera […]. (pp. 48-49)

• Madame de Maintenon non ama il lusso e gli ambienti sfarzosi. […] Le piacciono le stoffe morbide al tatto, i mobiletti, i ninnoli a profusione; apprezza già le imbottiture […] ha sempre freddo. Ama le cortine perché la proteggono dalle correnti d’aria […]. Il suo ascendente sul re si accompagna a un’assoluta sottomissione. Deve essere sempre pronta a soddisfare i suoi desideri: «Comunque lei si senta, il re si presenta alla solita ora e fa quello che aveva in mente di fare; tutt’al più lei può restare a letto», spesso grondando sudore per via della febbre. Il sovrano, «che non ama le camere troppo calde», fa aprire le finestre. «Così va sempre dritto al suo scopo, senza mai domandarle se è d’accordo». (pp. 49-51)

• Contrariamente a quanto qualcuno ha insinuato, Luigi XIV è pulitissimo: ama le lavande e le abluzioni, spesso molto lunghe, a causa di certe prescrizioni. Si sciacqua la bocca, dal 1685 completamente priva di denti. Si fa radere e pettinare - da giovane aveva dei magnifici capelli. Sceglie una parrucca e la cambia spesso nel corso della giornata. (pp. 51-52)

• Gran mangiatore, Luigi XIV accusava malesseri, cefalee, capogiri, indigestioni, vomito, feci maleodoranti e accessi ricorrenti di gotta. Lo curavano con clisteri, salassi e fasciature che lo facevano sudare abbondantemente: all’alba, bisognava cambiare completamente il letto. Per combattere i cattivi odori che detestava ricorreva alle «cassolettes royales» (bruciaprofumi) e ai i cuscini odorosi, soprattutto di fiori d’arancio, i soli che riuscisse a sopportare. (pp. 52-53)

• L’agonia del re [LUIGI XIV] porta lo scompiglio nella sua camera […]. Il 27 [AGOSTO], […] Madame de Maintenon rimane con lui tutta la giornata. La mattina del 28 il re le rivolge un pensiero affettuoso che lei non gradisce e al quale non risponde una parola: le dice che, nel lasciarla, si sente consolato al pensiero di rivederla presto. Quella prospettiva è palesemente sgradita alla «vecchia maga che si crede immortale»: la sera del 28 parte per Saint-Cyr insieme alle sue dame, con l’intenzione di non tornare più. Triste per la sua assenza, il re la manda a chiamare; lei torna la sera del 29 ma il giorno seguente, dopo aver distribuito i mobili del suo appartamento, si ritira a Saint-Cyr da dove non farà mai più ritorno. […]». (pp. 55-56)

• [NELL’OTTOCENTO] La borghesia, in particolare quella inglese, è molto più attenta alla privacy. Sedersi sul letto di una signora è sconveniente. Entrare nella sua camera è un gesto di un’audacia inaudita. (p. 68)

• […] La camera da letto. Nicolas Le Camus de Mézières, […] suggerisce per le pareti il verde, che concilia il riposo. (p. 69)

• Luigi Filippo [DI FRANCIA] e Maria Amelia [DI BORBONE] avevano scelto di dormire nella stessa camera. Nel castello di Eu avevano un letto con la testiera appoggiata al muro, largo un metro e ottantacinque, con quattro cuscini e due comodini. Nella stanza c’era anche un «lit de repos» e un solo inginocchiatoio. (p. 70)

• Per tutto l’Ottocento, le dimensioni delle stanze si misurano in metri cubi e non in metri quadrati. (p. 71)

• La carta da parati […] introdotta di recente (nel Settecento), nasce in Inghilterra e le sue origini sono popolari. Secondo Savary des Bruslons, i primi ad usarla sono gli abitanti delle campagne e dei quartieri popolari di Parigi, «che cercano di abbellire e, per così dire, di tappezzare qualche parete delle loro capanne, botteghe o camere». Nelle case dei ricchi, la carta da parati compare dapprima nei guardaroba, nei corridoi e nelle anticamere, ma finisce con l’invadere tutto il resto. Dopo le carte indiane e cinesi e dopo il blu d’Inghilterra, si affermano i prodotti delle manifatture francesi, […]. Nell’Ottocento le vernici e le carte da parati si adeguano alle mode e alle convenzioni […]. Mai usare il giallo: è il colore delle prostitute. Il verde è riposante, l’azzurro è verginale, il rosso granato è accettabile, il grigio è chic, il color crema va bene per tutte le occasioni. Per la camera da letto ci vogliono colori tenui; […]. Niente panorami, riservati alle stanze da ricevere, ma ghirlande, figure mitologiche o fantastiche, uccelli, grifoni, fiori o disegni geometrici. Poi verranno le tinte unite più o meno ruvide e gli intrecci delle carte giapponesi: […]. (pp. 71-72)

• «Il letto è tutto il matrimonio» (Balzac). (p. 75)

• Balzan […] descrive i tre modi di impostarlo: letti gemelli, camere separate, letto unico. Denuncia ironicamente la falsa semplicità della prima soluzione, scomoda per i giovani sposi e concepibile solo dopo vent’anni di matrimonio, quando gli ardori si sono ormai spenti. Condanna senza molte spiegazioni le camere separate e difende il letto unico, luogo del dialogo e delle effusioni, crogiolo dello scambio reciproco. Eppure anche quel sistema presenta diversi inconvenienti che lui stesso enumera. Non è affatto scontato che si debba a dormire nello stesso letto: non è poi così naturale ritrovarsi in due sotto un baldacchino. Fare l’amore a ore fisse, poi, è addirittura insopportabile. Non stupisce che le donne cerchino di sottrarsi a quel dovere con la scusa dell’emicrania o del pudore, oppure ostentando frigidità. «La donna sposata è una schiava che bisogna saper mettere su un trono» [Honoré de Balzac, Physiologie du mariage. Méditation XVII, «Théorie du lit», in Œuvres complete, cit., t.11, pp. 1060], aveva scritto altrove […]. L’elogio del letto coniugale è uno dei suoi consueti paradossi ironici. (pp. 75-76)

• Il Seicento è il secolo d’oro del letto. L’inventario degli arredi regali di Versailles ne elenca 413, […]: letti alla turca, a corona, en bateau, à corbeille, à la duchesse, alla polacca, all’italiana (anche se Perec dice che l’ultimo «esiste solo nelle favole»), ecc. (p. 76)

• Oggi il letto è diventato più piccolo e più basso. Quelli di una volta erano accoglienti: larghissimi, tanto da ospitare diverse persone, e per giunta altissimi, tanto che all’occorrenza vi si saliva con uno sgabello. Nei letti bassi, vicini a terra, segno di modesta condizione sociale, si sentiva freddo. (pp. 76-77)

• «[…] Non conosco niente di più odioso degli amori coniugali» (Prosper Mérimée) [Citato da Anne Martin-Fugier, Une nymphomane vertueuse. L’assassinat de la duchesse de Choiseul-Praslin, Paris, Fayard, 2009] (p. 80).

• Tocqueville confida a Gustave de Beaumont che d’inverno si alza più tardi, non alle cinque ma alle sette (lavora fino a mezzogiorno): «Sono un marito troppo galante e troppo attento per lasciare a lungo mia moglie [Mary Motley] a gelarsi da sola nel letto con questo freddo». [Alexis de Tocqueville, Œuvres complete, Paris, Gallimard, t. 8: Correspondance avec Gustave de Beaumont, 1967, p. 277, lettera del 18 gennaio 1838] (p. 80)

• Le servitù del letto coniugale disgustano i veri innamorati dell’amore. Huysmans denuncia «la miseria del dormire in due [...] il tedio delle carezze a comando» [Joris-Karl Huysmans, En mènage, citato da Victor Brombert, La Prison romantique. Essai sur l’imaginaire, Paris, Josè Corti, 1975]. «Se non sono solo in camera non riesco a dormire. Non posso sopportare di vivere con qualcun altro», confessa Kafka. «Corro verso la solitudine come l’acqua verso l’oceano». (p. 85)

• Secondo il poeta Eustache Deschamps, «[...] è meglio dormire soli che in due» [citato in Henry Havard, Dictionnaire de l’ameublement et de la dècoration]. Il suo contemporaneo Montaigne la pensa come lui: «Mi piace dormire sul duro e da solo, senza una donna, come un re. Amo essere ben coperto ma non voglio che mi si scaldi il letto» [citato da Pascal Dibie, in Rêves d’alcôves]. Secondo Georges Perec «Il letto è uno strumento concepito per il riposo notturno di una persona o due, ma non di più» [Gerges Perec, Espèces d’espaces, Trad. it. Specie di spazi] […] Nel grande letto medievale c’era posto per cinque o sei persone […]. (pp. 86-87)

• A letto passiamo un terzo della nostra vita. (p. 88)

• L’uomo pubblico elimina gli accessori mentre la donna si addobba per la notte. […] George Sand racconta l’andata a letto della nonna: «Era una cosa lunghissima. La nonna mangiava qualcosa; poi, mentre le sistemavano sulla testa e sulle spalle una dozzina di cuffiette e scialli di tela, di seta, di lana e di ovatta, lei ascoltava il resoconto di Julie sugli affari di famiglia e quello di Rose sui particolari dell’andamento domestico. Si andava avanti così fino alle due di notte». [George Sand, Histoire de ma vie (1847), Paris, Gallimand, coll. «Quarto», 2004]. (pp. 88-89)

• Anche le posture possono variare; […]. I nostri nonni dormivano semisdraiati in letti più corti dei nostri; noi dormiamo rannicchiati, su un fianco, bocconi o supini […]. Il dottor Lévy consiglia di preferire la posizione orizzontale al decubito laterale, anche se «giacere sul dorso in un letto duro comporta un inconveniente: provoca l’erezione favorendo le polluzioni notturne» [Michel Lèvy, Traitè d’hygiène publique er privèe, cit., t.2, «Hygiène du sommeil»] (p. 89)

• «Detesto i dormienti. Sono dei morti che non hanno detto l’ultima parola» (Violette Leduc) [Je hais les dormeurs (1948), Righy, Éd. Du Chemin de fer, 2006] (p. 90)

• Il verde, riabilitato nel Settecento e considerato particolarmente propizio al riposo del corpo e dello spirito - è l’opinione di Goethe - diventa il colore delle camere da letto. [Michel Pastoureau, Noir. Histoire d’une couleur, Paris, Seuil, 2008] (p. 90)

• Il Seicento santifica il paesaggio, […]. Tra le occupazioni che favoriscono la meditazione, le più consigliate sono il giardinaggio, la botanica e la mineralogia. (p. 98)

• «Leggere a letto è una pratica egocentrica, statica, libera dalle convenzioni sociali vigenti, praticata all’insaputa di tutti. In quanto svolta sotto le coltri, regno della lussuria e dell’ozio più colpevole, esercita l’attrattiva delle cose proibite» [Alberto Manguel, Une histoire de la lecture, Arles, Actes Sud, 1998] (p. 101)

• La Fata Elettricità è stata a lungo riservata alla zona comune della casa: il suo uso nelle camere era giudicato eccessivo e leggere a letto appariva una costosa stravaganza contro la quale si instaurava una sorta di coprifuoco. (p. 102)

• Accanto al letto dei protestanti non manca mai una Bibbia. I libertini scelgono quei libri «che si leggono tenendoli con una mano sola» [Jean-Marie Goulemot, Ces livres qu’on ne li tque d’une main. Lecture et lecteurs de livres pornographiques au XVIII siècle, Paris, Minerve, 1994]. (p. 103)

• Colette, da bambina, ama I Miserabili; Manguel preferisce le storie fantastiche e li romanzi polizieschi. (p. 103)

• George Sand scriveva le sue lettere di notte, e così Flaubert e Malwida von Meysenburg […]. (p. 105)

• La maggior parte degli autori vede nella solitudine la prima condizione per scrivere. Per Kafka è un’esigenza assoluta […]. Il 15 gennaio 1913, in una lettera a Felice Bauer, afferma: «Scrivere significa aprirsi oltre ogni misura [...]. Di conseguenza, quando si scrive non si è mai abbastanza soli [...]. Non c’è mai abbastanza silenzio intorno e la notte non è ancora abbastanza notte» [Lettera a Felice Bauer, 14-15 gennaio 1913, in Franz Kafka, Œuvres complete, Paris, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Plèiade», 1989] (p. 105).

• Sartre, antitesi di Kafka, […] preferisce vivere in pubblico e scrivere al caffè. (p. 106)

• Al civico 36 di rue Mazarine, Proudhon aveva «una camera da studente con un letto, pochi libri su degli scaffali, un tavolo con diversi numeri del National e una rivista di economia politica» [citato da Michel Winock, Les Voix de la libertè, Paris, Seuil, 2001] (p. 107)

• […] anche Flaubert è solito scrivere di notte […]. (p. 108)

• Nel maggio del 1872, in rue Monsieur-le-Prince a Parigi, Arthur Rimbaud affitta una mansarda, con vista sul giardino della scuola Saint-Louis. […] «Adesso lavoro di notte. Da mezzanotte alle cinque del mattino [...]. Alle tre, la candela impallidisce; negli alberi gli uccelli gridano tutti insieme: è finita. Basta col lavoro. […]». Alle cinque scende a comprare del pane e a ubriacarsi nelle bettole. Si corica alle sette, «quando il sole fa uscire i porcellini di terra da sotto le pietre del selciato». [Lettera a Ernest Delahaye, in Arthur Rimbaud, Œuvres complete, Paris, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Plèiade», 1946] (p. 109)

• Proust […] ossessionato dalla paura del rumore, aveva fatto tappezzare di sughero le pareti della sua camera. Pagò degli operai perché non facessero certi lavori nell’appartamento al piano di sopra. […] Marcel scrive stando a letto. (p. 109)

• [..] Intorno al Novecento […] Robert de Montesquiou, amico di Mallarmè, […] dedica diversi volumi delle sue memorie alle case in cui ha abitato […]. Si sofferma a descrivere la camera che ha fatto arredare all’ultimo piano del palazzo di suo padre, al quai d’Orsay: «Avevo pensato a una tappezzeria di raso di un uniforme color malva. [...] Sul tappeto viola cupo, un letto basso che avevo fatto costruire con frammenti di sculture in legno cinesi. Aveva la forma di una chimera: mi era parso [...] che addormentarsi e svegliarsi dentro la propria chimera fosse un’idea allettante e rassicurante, capace di rendere più dolce l’ingresso nel sonno e di ingentilire il ritorno alla luce» [Robert de Montesquiou, Les Pasa effacès. Mèmoires et souvenirs, Paris, Èmile-Paul Frères, 1923]. (p. 112)

• Diderot e Rousseau, viaggiatori stanchi e delusi […] vedono nello spostamento uno spreco di energie e nella lettura un’alternativa alla mobilità fittizia. […] «Viaggiare è leggere, leggere è viaggiare [...]. Limitatevi al viaggio della lettura. Quello oggettivo rischia di spogliarvi della vostra identità» scrive Béat de Muralt [Lettre sur les voyages]. Così la pensa anche Kant, che non si muove mai da Königsberg, la sua città. (p. 116)

• La culla può dondolare […]. Rousseau è contrario. Secondo lui i bambini non devono mai essere cullati; spesso, anzi, quell’abitudine è dannosa [Jean-Jacques Rousseau, Èmile, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Plèiade», 1964]. (pp. 122-123)

• Elias Cavetti racconta le allegre mattinate domenicali in cui, insieme ai fratelli e alle sorelle, andava a fare la lotta con i genitori nel letto matrimoniale, un permesso che veniva accordato solo eccezionalmente. (p. 124)

• «Non riesco a immaginare un metodo più insensato che quello di allevare un bambino come se non dovesse mai uscire dalla sua camera» scrive Jean-Jacques Rousseau, nemico giurato dei sonagli, dei bubboli e di tutti i giocattoli. «Invece di lasciarlo a poltrire nell’aria viziata di una camera, portiamolo a giocare in mezzo a un prato» [Jean-Jacques Rousseau, Émile]. (p. 128)

• Musil: «L’intrusione appassionata nel corpo di un altro non è che un prolungamento della passione infantile per i nascondigli misteriosi e proibiti» [Robert Musil, L’Homme sans qualitès, Paris, Gallimard, coll. «Quarto», 2007] (p. 145)

• In molte culture la donna deve stare a casa. «Una donna che si mostra si disonora». «Una donna in pubblico è sempre fuori posto», dicono quasi con le stesse parole, Pitagora e Jean Jacques Rousseau. […] Per Kant […]: «La donna deve essere assoggettata, domata, deve essere tenuta in casa, nella dolce penombra dei mobili ben lucidati» [Bernard Edelman, La Maison de Kant, Paris, Payot, 1984]. (p. 148)

• […] Harem (letteralmente «cosa sacra, riservata») e il serraglio (il palazzo del Gran Signore, sultano di Costantinopoli), […]. Nel cuore del serraglio, ossia nell’harem propriamente detto, risiedono le donne: solo il principe può accostarle, ottenerne i favori e, obiettivo essenziale, assicurarsi una discendenza. Il medico stesso non deve vederle: per visitarle, infila le mani nelle aperture praticate in un telo. Le giovani vergini, oggetto della scelta iniziale, abitano due a due in camere simili alle celle di un convento, con una sola differenza: tra i due letti ce n’è un terzo dove dorme un eunuco nero. Passano il tempo leggendo, scrivendo e ricamando, in attesa del momento in cui il sultano darà un fazzoletto bianco alla prescelta con la quale passerà la notte. […] Due aspetti sono particolarmente intriganti: gli eunuchi e i rapporti delle donne tra loro. A seconda che la castrazione, operata tra i sette e i sedici anni, sia parziale o totale, gli eunuchi possono essere bianchi - ufficiali del serraglio e precettori dei bambini - o neri - incaricati di sorvegliare le donne e non perderle mai di vista. Quelli neri, i più brutti, sono particolarmente ricercati, sia perché impotenti, sia perché fanno risaltare la bellezza del principe. Sono assistiti da donne anziane agli ordini di una odabachi, armata di pugnale e incaricata di sorvegliare le giovani e di punirle. Eventualmente può usarle per il suo piacere. Sulla sessualità delle donne del serraglio, alle quali si attribuisce un’eccitazione orgasmica ai limiti dell’isteria, pesa un perenne sospetto. Per precauzione si allontanano gli animali domestici in grado di accoppiarsi, come i cani e le scimmie, e anche i cetrioli interi, simili a falli artificiali. Il loro appetito deviato le spinge al saffismo, ritenuto consustanziale al serraglio e ancor più all’hammam che ne è la naturale continuazione. Le donne ricorrono a mille espedienti per comunicare tra loro: si scambiano bigliettini, salam e piccoli oggetti per dichiarare il loro amore, ricorrono al travestimento, […]. [Jocelyne Daklia, «Harem: ce que les femmes font entre elles», in Clio, n. 26: «Clôtures», 2007] (p. 151-153)

• Il convento è stato spesso assimilato al serraglio con il quale ha in comune molti tratti formali: la verginità delle giovani che si votano a un signore supremo, la rigida clausura, la sorveglianza esercitata dai religiosi - quasi degli eunuchi - la convivenza fra donne che rasentano l’isteria e ricorrono a mortificazioni e a flagellazioni per spegnere il desiderio e il sentimento amoroso eventualmente ispirato dal confessore o dalle consorelle. Luogo classico della letteratura erotica, la cella rappresenta un’isola di masturbazione e di lesbismo dove le più anziane iniziano al piacere le consorelle giovani. […] Le vecchie e le giovani fanno un uso smodato dei falli artificiali. Qualcuno vorrebbe addirittura assegnare ai conventi il compito di marginalizzare il lesbismo, isolandolo per proteggere la società. […] Secondo la regola di san Benedetto, le suore devono dormire sedute e non sprofondate nel letto come i laici. Anche se i cuscini e i guanciali sono permessi, molte si accontentano di uno stretto capezzale imbottito di cascami. Per dormire si spogliano, ma non completamente; il pudore vieta loro di denudarsi e di guardarsi. Possono togliersi le scarpe e la sopravveste ma devono tenere tutti gli altri indumenti, il velo e lo scapolare. Per addormentarsi si mettono supine con le mani giunte, […]. (pp. 155-157)

• Nei primi anni del Novecento l’Office du travail promuove delle ricerche sulle cucitrici di bianco in tutto il territorio nazionale e sulle fioriste soprattutto a Parigi. […] Le fioriste dei piccoli fiori (non-ti-scordar-di-me, violette di Parma o mimose per i cappelli e le guarnizioni), meno qualificate di quelle delle rose (che soffrono di malattie provocate dal rosso di anilina) difficilmente guadagnano più di un franco al giorno durante l’alta stagione, che dura soltanto sei mesi. (pp. 169-170)

• Nella Parigi del 1836, teatro della sua celebre inchiesta, il dott. Alexandre Parent-Duchàtelet distingue tre tipi di prostitute. C’è quella libera «che vive in casa propria, paga le tasse e, per questi elementi esteriori, non si distingue dal resto della società»: in una parola una lavoratrice del sesso, indipendente e non legata ad un giro, un po’ come vorrebbero essere le attuali call-girl. Questa categoria, residuo di una prostituzione più diffusa e integrata alla città, è in regresso. C’è poi un secondo tipo di prostitute, non schedate e spesso occasionali; sono cameriere, operaie e persino casalinghe in cerca di un’entrata supplementare. Sfruttano botteghe e locali al piano ammezzato dove si mostrano alla finestra malgrado le tende imposte dalla polizia. Affittano una stanza in qualche caso molto costosa - da 3 a 10 franchi al giorno - in una casa tollerata. Quella somma dà diritto a un letto pulito, a una psiche e a un divano. Vantaggi: possono disporre dei loro guadagni, scegliersi i clienti da adescare e andare in un’altra casa. Parent-Duchâtelet, padre del regolamentarismo, ha in odio queste clandestine che frequentano le case equivoche, sfuggono ai controlli della polizia sanitaria e diffondono la sifilide e le altre malattie sessualmente trasmissibili: una vera piaga. Preferirebbe una rete limitata e bene identificata di case di tolleranza (il termine «case chiuse» nasce nel XX secolo) dove, sorvegliate dalla maîtresse, accreditata presso la prefettura di polizia che la tiene sotto controllo, dovrebbero lavorare delle donne schedate facilmente raggiungibili. (p. 174)

• Si è favoleggiato a lungo delle diverse camere da letto di Sarah Bernhardt, con le pareti tappezzate di pelliccia o di raso nero trapunto, con tanto di scheletro umano, un’insolita bara e un grande letto a colonne sommerso dai copripiedi orlati di cigno. (pp. 176-177)

• Secondo un’usanza tipicamente inglese diffusa negli ambienti benestanti, Virginia [WOOLF] e il marito Leonard hanno una camera ciascuno. Lei tiene moltissimo alla sua: ha un forte senso della privacy. Il giorno in cui accoglie i Webb [SYDNEY E BEATRICE] a Hogarth House, rimane esterrefatta davanti alla disinvoltura di Beatrice: «Per colmo di orrore, l’indomani mattina la signora Webb è entrata in camera mia per salutarmi, e dall’alto della sua impassibilità, si è piantata a capo del letto evitando di guardare le mie calze, le mie mutande e il mio vaso da notte» [Virginia Woolf, Journal integra 1915-1941, Paris, Stock, 2008, 10 settembre 1918] (pp. 180-181)

• Fino ai primi del Novecento la lettura era per molte donne un piacere segreto, da praticare quasi di nascosto la sera, a letto, alla luce di una candela o di una lampada da non lasciare accese troppo a lungo. (p. 181)

• Edith Wharton scrive a letto, il solo luogo dove si sente tranquilla. Libera dalla stretta del busto, riempie pagine su pagine che una segretaria raccoglie per copiarle a macchina [Alberto Manguel, Histoire de la lecture). (pp. 181-182)

• Emily Dickinson passa tutta la vita nella casa paterna; un giorno fa entrare nella sua stanza la nipote Martha, chiude la porta e le dice: Marty, here’s freedom: qui è la libertà. […](pp. 181-182)

• George Sand […] ama scrivere di notte. (pp. 181-182)

• Al momento di affittare una stanza, Simone de Beauvoir controllava prima di tutto che ci fosse un tavolo per scrivere. […] diffidava degli ambienti troppo confortevoli. A Rouen, fugge «da una stanza ammobiliata con finezza le cui finestre si aprivano sul silenzio di un gran giardino» e preferisce l’Hôtel La Rochefoucauld, da dove può sentire «il fischio rassicurante dei treni». [Simone de Beauvoir, La Force de l’âge, Marsiglia 1931. Trad.it. L’età forte] (p. 182)

• Nel 1945/46 la coppia [SIMONE DE BEAUVOIR E SARTRE] si stabilisce in due camere distinte all’Hôtel de la Louisiane. In quella di Sartre, per giunta malato, c’è un disordine spaventoso. (P. 183)

• Secondo un’inchiesta del 1982 [Francis David, Intèriers d’ècrivainds], già vecchia e non molto sistematica, molte [DONNE] preferirebbero scrivere a letto: è la posizione preferita, per esempio, da Françoise Sagan, da Anna de Noailles e da Colette. Negli ultimi anni, quest’ultima non si alzava più dalla sua «zattera-letto»: appoggiata a una pila di cuscini, scriveva su una tavola appositamente modificata, dono della principessa di Polignac [Alberto Manguel, Histoire de la lecture]. Marie Cardinal poteva «lavorare solo stando sdraiata,[ ...] in un posto qualsiasi: una camera d’albergo o un sacco a pelo». […] Ma l’elogio più eloquente del letto lo ha scritto Danièle Sallenave, […] « In fondo si scrive bene soltanto a letto [...]. Perché il letto non è un posto come un altro: in passato luogo della nascita, della sofferenza e della morte, è ancora il luogo del sogno e dei piaceri. Non è poco. […]» [Francis David, Intèriers d’ècrivainds] (pp. 184-185)

• Stendhal […] Da parigino convinto, detesta la provincia, […]. Al Boeuf couronné di rue Bourbonnoux [DI BOURGES], gli assegnano una camera orribile […] gli servono una cena talmente abominevole che, per evitare di sentirsi male, è costretto a ordinare dello champagne […]. (p. 191).

• César Ritz […] L’albergo di place Vendóme, inaugurato solennemente il 1° giugno 1898 […]. Stanze da bagno e gabinetti privati sono ormai l’appendice obbligata di tutte le camere; César e la moglie Marie-Louise scelgono con estrema cura i sanitari: vasca da bagno in porcellana smaltata, gabinetto di marmo bianco e, curiosa reminiscenza della seggetta, vaso coperto da un sedile. Nella camera dipinta di bianco, stoffe che non trattengono la polvere, tende a tre strati (tulle, tela leggera e rasatello che filtra la luce), ampi armadi-guardaroba, profondi cassetti dove riporre parrucche, trecce e chignon, moquette chiara intonata alle tende e al copriletto. Al letto in legno si preferisce quello in ottone con traversa, copriletto leggero, lenzuola finissime cambiate tutti i giorni e stirate a mano. […] Lo scrittoio è fornito di carta assorbente e carta da lettere con l’intestazione dell’albergo. […] Per chiamare il personale, al posto del telefono troppo aggressivo, dei campanelli elettrici. (pp. 198-199)

• L’incubo degli albergatori della Riviera era la morte dei clienti malati di tubercolosi, […]. Tutto era predisposto per la rapida rimozione del corpo. Al Ritz c’era un’uscita speciale, destinata ad evitare l’incontro tra i vivi e il defunto: la salma incupiva l’atmosfera festosa dell’albergo. (p. 202)

• «Abbiamo tutto, la gloria, il denaro, gli applausi del pubblico, e moriamo da soli in una camera d’albergo» diceva Rachmaninov [Diane de Furstenberg, Lits de rêve, 17 agosto 2006] (p. 203)

• «Gli amori cominciano con lo champagne e finiscono con la camomilla» (Valery Larbaud, A.O. Barnabooth Journal (1913), in Œuvres, Paris, Gallimard) (p. 204)

• Proust […] scrive di notte a letto. (p. 208)

• Sartre […] si sente a suo agio solo al caffè: «Al caffè lavoro [...]. Quello che mi attira? E il luogo dell’indifferenza: gli altri esistono senza interessarsi a me e senza che io mi occupi di loro [...], non sopporterei mai il peso di una famiglia» scrive nel 1945 a Roger Troisfontaines. E quasi trent’anni dopo a John Gerassi: «Fino a quel momento [1962] ero sempre vissuto in albergo, lavorando al caffè e mangiando al ristorante. Per me contava molto il fatto di non possedere niente. Era una sorta di salvezza personale: mi sarei sentito perduto se avessi posseduto un appartamento con dei mobili e delle cose mie» [Conversazione del 1972 con John Gerassi]. (p. 208)

• Jean Genet […] Da bambino, presso la famiglia a cui era stato affidato […] passava ore a leggere e a fantasticare in un casotto in fondo al giardino. Adolescente, messo in riformatorio a Mettray, si era fatto subito rinchiudere in una cella interamente dipinta di nero, soffitto compreso, dove era rimasto per tre mesi in completa solitudine. […] Alle sue scelte - itineranza e mobilità sessuale - si addiceva l’albergo […]. Poteva prendere un treno a caso e scendere in un piccolo centro, spesso privo di interesse. Andava a rintanarsi nell’albergo più vicino alla stazione, spesso anche squallido. […] Portava sempre con sé una valigetta con le lettere dei suoi amici e i manoscritti. Attaccava al muro con le puntine da disegno la foto di Eugen Weidmann, l’ultimo criminale ghigliottinato in pubblico in Francia (1939). Cambiava spesso stanza anche a Parigi, […]. Cliente molto trascurato - bucava i materassi con le gitanes e lasciava in giro avanzi di cibo - era poco amato dagli albergatori per l’abitudine di non saldare il conto. […] Più errabondo che mai a volte lascia a precipizio un albergo dimenticando persino di prendere il pigiama. […] Colpito da un cancro alla gola per il quale rifiuta di sottoporsi alla chemioterapia, torna a Parigi. All’Hôtel Rubens, dove è solito alloggiare, non c’è posto. Va al Jack’s, un albergo mediocre. Nella notte tra il 14 e il 15 aprile, inciampa in un gradino della stanza da bagno. L’indomani mattina lo trovano privo di conoscenza. Morto in albergo come era vissuto. (pp. 210-213)

• Grande viaggiatrice, George Sand si sposta sempre in compagnia di altre persone, spesso indossando abiti maschili, il che fa nascere dei qui pro quo. […] La donna sola è guardata con sospetto. Si pensa che sia una prostituta, una giocatrice, un’avventuriera […]. (p. 213)

• Si attribuisce ai proletari una sessualità sfrenata, straripante, incontenibile, torrenziale e quasi selvaggia, […]. «Gli operai figliano come i conigli [...] vere e proprie mandrie di animali che per la strada mi danno il voltastomaco» fa dire Zola a un personaggio secondario di Pot-Bouille. [Émile Zola, Pot-Bouille, in Œuvres complete. La frase è pronunciata dalla signora Vuillaume] (pp. 223-224)

• «Senza casa non c’è famiglia; senza famiglia non c’è morale; senza morale non ci sono uomini; senza uomini, non c’è patria», scrive Jules Simon, padre della Repubblica. (p. 226)

• Nel 1914 gli stranieri a Parigi erano 200.000 (p. 232)

• Nel Quartiere latino, Jules Vallès ha trovato, in casa di un rosticciere, una «rientranza» sotto un lucernario dove gli tocca entrare carponi; può stare solo sdraiato, per giunta sul fianco. «Quando mi voglio distendere completamente, piego le dita. Devo farci l’abitudine [...]. Posso rientrare a qualunque ora. Ho la chiave». E prosegue in tono scherzoso: «Poteva capitarmi una di quelle grandi camere tristi dove c’è spazio a volontà per passeggiare. Già, passeggiare: a che pro? Andare sempre in giro invece di pensare. Dimenarsi, agitare le gambe a destra e a sinistra in un grande letto - come una cortigiana o un saltimbanco!». [Jules Vallès, Le Bachelier (1881), in Œuvres, t.2: 1871-1885]. Nella sua nicchia riesce persino a ospitare un amico, che però può dormire solo se tiene le gambe penzoloni nel vano delle scale. (pp. 234-235)

• Gli anarchici della Belle Époque […] hanno dichiarato guerra al «Sig. Avvoltoio» (così chiamano il padrone di casa). (p. 245)

• Ma il pasto serale e domenicale con la famiglia riunita intorno al tavolo, possibilmente tondo, sta tornando in auge. I manifesti della CGT per la giornata di otto ore (1906) illustrano quell’aspirazione mettendo a confronto la famiglia male in arnese dell’operaio alcolizzato e la famiglia modello seduta intorno a un tavolo su cui una brava massaia ha appena posato una zuppiera fumante; dalla tasca del marito sporge una copia di La Bataille syndicaliste. Sotto quel dittico si legge: «Giornata lunga, famiglia infelice / Giornata corta, famiglia felice» (e riunita per la cena). (p. 246)

• Sembra che in Francia i senza fissa dimora siano circa 100.000, 8.000 dei quali a Parigi [Jean-François Laè, Numa Murard, Mèmoires des lieux. Une histoire des taudis, seminario 1986-1988]. Il 6% o poco più lo è per scelta, gli altri per una necessità divenuta schiacciante a causa della crisi. Queste persone non sono desocializzate: 3 su 10 hanno già un lavoro, 4 su 10 sono iscritte all’ANPE, l’ufficio di collocamento, e lo cercano. Più che vagabondi per scelta, sono lavoratori poveri: alcuni hanno sempre considerato la casa un bene irraggiungibile, altri non riescono più a pagare le cambiali, l’affitto, le spese. Infatti si tende a chiamarli semplicemente «senza dimora»: […]. Un terzo sono giovani, molti sono stranieri. Le donne sono sempre di più (nella fascia compresa tra i 18 e i 24 anni, il loro numero è pari a quello degli uomini). (pp. 253-254)

• Dopo la seconda guerra mondiale compaiono le bidonville, nome inizialmente dato (1953) alle baracche di lamiera sorte alla periferia di Casablanca, in Marocco. Tratti caratteristici: costruzioni in muratura con una certa densità abitativa (300 persone in 60 nuclei). (p. 254)

• Il camper […] comparso nel 1967, pochi anni dopo, nel 1994, supera già il milione di esemplari. […] Nel 2005 ne sono stati venduti 35.000. I vecchi modelli sono recuperati o presi in affitto dai clienti meno fortunati che li usano come abitazioni. Secondo un rapporto del 2006, 100.000 persone vivono tutto l’anno in un campeggio o in un camper. A Marsiglia, in 6 campeggi aperti tutto l’anno, si contano 250 affitti permanenti per un totale di 570 persone; 197 famiglie ricevono delle prestazioni sociali. Parecchie associazioni, sostenute da membri del parlamento, hanno avviato una campagna per ottenere che siano riconosciute come abitazioni permanenti, con un indirizzo postale che consenta la domiciliazione. L’alloggio infatti continua ad essere la chiave dell’integrazione […]. Senza casa, […] Non si può trovare lavoro, non si può votare, […]. (p. 256)

• Attualmente il 6% della popolazione urbana dei paesi sviluppati e il 43% di quelli in via di sviluppo vive nelle bidonville. Le township del Sudafrica, le favelas brasiliane, gli slum di Bombay rivaleggiano con i vasti conglomerati del Kenia che ospita, con Kibera, una delle più grandi bidonville del mondo. Il sociologo americano Mike Davis vede nella crescita del numero dei migranti, nell’economia informale e nell’urbanizzazione galoppante, tutti fenomeni posteriori al 1980, la chiave della «bidonville globale» che secondo lui rappresenta il destino delle nostre società. «Se non cambia qualcosa, l’umanità futura abiterà negli scatoloni». [Mike Davis, De l’explosion des villes au bidonville global, Paris, La Dècouverte, 2006) (pp. 257-258)

• George Sand muore l’8 giugno 1876, alle dieci del mattino, nella sua camera di Nohant. Aveva cominciato a stare male in primavera. […] Henry Harrisse, giornalista, […] ha descritto con precisione clinica gli avvenimenti degli ultimi giorni, […]. Le condizioni di George si aggravano il 31 maggio dopo la somministrazione di un purgante - olio di ricino e sciroppo d’orzata - ordinato dal giovane medico di La Châtre, Marc Chabenat. Il rimedio non ha alcun effetto: solo dolori e vomito. La paziente soffre molto per quella che oggi chiameremmo un’occlusione intestinale. La si sente gridare dal fondo del giardino. […] I medici tengono un consulto e decidono: enterostomia, applicazione di una sonda esofagea e immissione di dodici sifoni di acqua di Seltz: un’operazione dolorosissima. Scrive Chabenat: «La signora Sand durante l’intervento ha sofferto molto, ma poi ne ha tratto un notevole giovamento». […] George è umiliata dalla natura del suo male: «Che brutta malattia», dice. […] Al suo capezzale non vuole né figli né amici: […]. La sera del 7, […] insiste per essere lavata. […] Chiede qualcosa da mangiare: «Ho fame» , ma non tocca niente. Mormora: «Lasciate il verde», parole misteriose che hanno provocato infiniti commenti. Nella notte tra il 7 e l’8 soffre molto. […] I dottori se ne sono andati prescrivendo della morfina per calmare i dolori. È intontita, non parla quasi più. […] Muore verso le nove e mezza del mattino (le dieci, secondo il verbale). […] La mattina del 10 la bara è esposta nell’atrio del castello per l’estremo addio dei fedeli, che depongono, invece dell’olivo benedetto, delle foglie di alloro. George Sand voleva essere sepolta in giardino, vicino ai suoi cari, senza tomba: solo «fiori, alberi e verde»; […]. (pp. 259-262)

• Nella sala comune delle case di una volta, non era facile trovare un posto per il moribondo. Intorno, ognuno ha qualcosa da fare. I vecchi allettati sono ingombranti. I malati si lamentano e gridano. Senza nessun tipo di sedativo, i moribondi rantolano. Si spera che tutto finisca presto. La buona morte è anche una morte che non vada troppo per le lunghe, che sia una liberazione per i vivi, che permetta di togliere di mezzo il cadavere in modo decente ma sollecito. […] Il «bravo moribondo» non soffre troppo, non gesticola troppo, non si lamenta troppo. Pensa all’anima e ai suoi cari. […] Il «bel moribondo» di solito è un uomo. […] Le donne muoiono con discrezione. […] Di solito sono meno eroiche e più calme di quelle degli uomini, che sembrano sempre sul piede di guerra. Per diventare famosa, la morte delle donne deve essere santa […]. Il corpo che ingombra la sala comune deve essere portato via al più presto. Così presto da far temere che si seppellisca anzitempo qualcuno ancora in vita: di qui le precauzioni testamentarie che impongono un’attesa obbligatoria da trenta a trentasei ore. (pp. 265-268)

• Le donne, schiave fino all’ultimo del dovere di essere belle, preoccupate di lasciare un’immagine seducente, a volte danno istruzioni precise. In punto di morte la madre di George Sand, rivolta alla figlia, mormora: «Pettinami». (p. 270)

• L’espressione «morire al termine di una lunga malattia» suggerisce l’idea che il male si sia visto contendere il terreno palmo a palmo e che abbia avuto la meglio solo al termine di una lotta accanita. «La natura sembra capace di dare soltanto malattie piuttosto brevi; ma la medicina si è arrogata l’arte di prolungarle [...], le malattie naturali guariscono e quelle create dalla medicina no, perché essa ignora il segreto di guarire», annota Proust a proposito della lunga malattia di Bergotte [Marcel Proust, La Prisonnière]. (p. 275)

• Il pittore Edvard Munch aveva battezzato la casa della sua infanzia, dove c’erano dei malati di tubercolosi, «casa dei cuscini». Si passava un tempo infinito a sistemarli. (p. 279)

• Morire all’ospedale, […] già oggi, in Francia, riguarda quattro persone su cinque. (p. 280)

• All’ospedale […] si cerca sempre di abbreviare la durata del soggiorno e di favorire il ricambio. Tutti ricordiamo la novella in cui Buzzati racconta la progressiva discesa di un malato dai piani superiori, destinati alle cure, fino al pianterreno mortuario con la prospettiva di una rapida espulsione: è il pensiero fisso degli ospedali, sempre sovraffollati e imbarazzati davanti alla morte […]. (pp. 280-281)

• Joë Bousquet, è paraplegico, colpito da una paralisi inguaribile a seguito di una ferita di guerra al midollo spinale. Il 27 maggio 1918, in località Bois-le-Prêtre, è rimasto in piedi sulla linea del fuoco, esposto ai colpi dei tedeschi, […]. Durante i trentadue anni successivi, fino alla morte sopraggiunta il 28 settembre del 1950. Neurologi, psicologi e psicanalisti frequentano il n. 53 di rue de Verdun a Carcassonne, dove dal 1924 Bousquet si è costruito un rifugio. […] Bousquet ha dei disturbi alle gambe, alla vescica. Ha una erezione molle che complica notevolmente i tuoi rapporti con le donne: sebbene le desideri, talvolta ha l’impressione di umiliarle con le sue carezze. […] Pierre Guerre […]: «Per arrivare a lui si traversavano corridoi oscuri, pianerottoli oscuri, si varcavano porte oscure, [...]. Oltre il tendaggio, si entrava in un luogo che pareva la cabina di un grande sottomarino con le pareti rivestite legno, una specie di cappella sotterranea. Là l’ombra e il silenzio confondevano gli angoli e ovattavano le voci» [In Pierre Cabanne, La Chambre de Joë Bousquet]. […] La camera è piccola, con un letto modesto; […] lampade sempre accese. Gli scuri sono quasi sempre chiusi. Dalla strada non arriva alcun rumore. Le pareti sono tappezzate di quadri, […]. C’è una profusione di oggetti, di porcellane: un cane, una gallina, un cavallino di vetro, […]. Qui bisogna muoversi con cautela. Dovunque fasci di fiori recisi, appassiti, rinnovati come le ragazze che li portano. […] Dopo la morte della madre, una donna che vestiva sempre di nero, è affidato alle cure di Cendrine, una vecchia analfabeta, metà infermiera e metà fattucchiera, […]. Joë non è quasi mai solo. Riceve stando a letto; […].Straordinario conversatore, […]. Scrive lettere agli amici lontani, […]. Passava molto tempo a leggere, a scrivere, a fare dei solitari che non riuscivano mai. […] «Il mondo non mi ha voluto. Io voglio che il mondo sia mio» (Lettera a Carlos Suarès, 1936). (pp. 287-290)

• Emily Dickinson (1830-1886) passa la maggior parte della vita a Amherst (Massachusetts) nella residenza dei genitori, la Homestead. […] Dopo la morte della madre, lei si rifugia nella camera al secondo piano e non ne esce quasi più. […] Non va mai al villaggio, dove la chiamano il Mito. Dopo la morte del padre, veste sempre e solo di bianco: la sorella Vinnie prova al suo posto gli abiti che le confezionano. Scende solo per ricevere i rari visitatori. A un’amica d’infanzia, venuta a trovarla, parla dall’alto della scala. […] Dorme pochissimo, lavora di notte […]. Come Mallarmé, ha l’ossessione della neve, della pagina bianca. Eppure compone quasi millesettecento poesie. Le raccoglie in quaderni da venti che cuce e mette in un cassetto, anch’esso chiuso a chiave. Vuole che la portino al cimitero passando dal giardino e non dalla strada. (pp. 300-301)

• «Il carceriere è un prigioniero di un tipo diverso», ha scritto Nerval. [Citato da Victor Brombert, La Prison romantique] (p. 310)

• Giustina d’Arezzo (morta nel 1319) entra a 13 anni in un monastero dove, insieme a un’altra solitaria di nome Lucia, vive in una cella così stretta e bassa che non è possibile starvi in piedi e bisogna pregare in ginocchio. (p. 317)

• Ancora più temute dalla Chiesa erano le beghine, donne attive e socialmente inserite, dedite alla predicazione. Più che a Maria, si rifacevano a Marta: praticavano il lavoro artigianale o la questua, organizzavano i loro spazi, vestivano abiti simili a quelli delle religiose e prendevano la parola in pubblico. Beghina deriva da beggen (parlare) [cfr. Jean-Claude Schmitt, Mort d’une hèresie, Paris, Mouton, 1978]: le beghine erano parlatrici ben più pericolose delle recluse, appartate e solitarie.(pp. 318-319)

• La Rivoluzione […] introdusse […] la correzione paterna: i genitori potevano chiedere alle autorità amministrative che i figli fossero mandati per un periodo più o meno lungo in una casa di correzione […]. Il primo esperimento ebbe luogo nel carcere della Petite Roquette. Costruito a Parigi dall’architetto Lebas […] e aperto nel 1836, accoglieva i minori condannati per furto o per vagabondaggio e quelli soggetti alla correzione paterna. Vi si praticava l’isolamento totale sia di giorno che di notte: bisognava evitare ogni contatto tra i giovani reclusi, ai quali era permesso di incontrare solo il secondino, il maestro e il prete. Il momento più temuto era quello della messa [...]. Per raggiungere la cappella situata al centro dell’edificio, i ragazzi dovevano coprirsi il viso con veli neri, un’idea del cappellano Crozes che se ne era vantato con Tocqueville. In seguito i veli erano stati sostituiti da cappucci. Così coperti, i giovani prendevano posto in scomparti singoli, simili a bare verticali. La cella si apriva su uno stretto corridoio, il solo luogo dove potevano fare qualche passo. Terminato lo studio, trascorrevano il resto della giornata chiusi in cella a fabbricare parti di mobili: per esempio pioli di sedia. Naturalmente il loro desiderio di comunicare era centuplicato dalla sorveglianza ossessiva a cui erano sottoposti. Davano prova di un’inventiva inesauribile nell’utilizzare ogni rumore, ogni segno, nel passarsi i biftons (bigliettini) e le dichiarazioni d’amore, le più ambite. […] Hugo […] denunciò insieme a Tocqueville i metodi della Petite Roquette. (pp. 326-328)

• A Parigi, […] il Consiglio generale […] decide di […] creare a Fresnes una prigione modello di oltre 6.000 posti. Affidata a Poussin e concepita secondo il nuovo modello a padiglioni, è aperta nel 1898. Situata in campagna, a 20 chilometri dal centro cittadino, ariosa e luminosa, a pianta rettangolare, è dotata di attrezzature moderne (acqua, elettricità, riscaldamento) e applica rigorosamente lo schema a celle. Il detenuto è completamente solo: può fare qualche passo in uno stretto corridoio munito di sbarre e assistere alla messa domenicale attraverso la porta della cella, lasciata eccezionalmente aperta. […] La cella di 9 metri quadrati, asfaltata e dipinta di colori chiari, ha una grande finestra munita di sbarre. L’arredamento è composto da mobili inchiavardati: letto di ferro, tavolo a ribalta, sedia, mensole di legno, attaccapanni. Alle pareti sono appese copie di regolamenti e di testi amministrativi. L’illuminazione è elettrica e ogni detenuto dispone di un water che serve anche da lavandino. È una soluzione economica (oltre che ripugnante) ma rappresenta comunque un’eccezione in un’epoca in cui la maggioranza della popolazione non dispone né di fognature né di acqua corrente. Qualche voce si leva a denunciare il lusso eccessivo del «Grand Hôtel Fresnes». (pp. 332-333)

• Victor Klemperer. Nel 1941 a Dresda, dove resiste strenuamente alle persecuzioni antisemite […] viene condannato a otto giorni di reclusione: ha violato una regola della difesa passiva lasciando filtrare inavvertitamente la luce elettrica. Nel diario descrive con precisione la cella n. 89 della prefettura di polizia dove rimane rinchiuso dal 23 giugno al 1° luglio 1941. «A sinistra, andando verso la finestra, c’era il letto. [...]. A destra, di fronte al letto, un tavolino pieghevole […]. Davanti al tavolo, accanto alla finestra, una piccola mensola». Dietro la panca, vicino alla porta, a non più di due metri dal tavolo dove si doveva mangiare, la latrina. «[…] Invece di un water moderno e igienico, secondo me avrebbe dovuto esserci un semplice bugliolo. Ma anche in quel caso ho subito sentito che ero in prigione: lo sciacquone poteva essere azionato solo dall’esterno, cosa che avveniva due volte: la mattina e la sera». […] La cosa insopportabile non era tanto il contesto, […] ma il regime carcerario […]: era proibito sdraiarsi sul letto, si doveva restare tutta la giornata seduti o camminare su e giù per la cella […]. Non potendo neppure scrivere, almeno fino a quando un secondino comprensivo non gli dette il permesso di avere una matita, Klemperer componeva dei testi che recitava a memoria […]. (pp. 334-336)

• Silvio Pellico, […] in Moravia, nella fortezza dello Spielberg. […] nella sua cella, legge la Bibbia […]. (pp. 337-338)

• Un altro eroe del carcere è Auguste Blanqui (1805-1881). «L’Enfermé», ossia il recluso, ha passato in prigione la maggior parte della sua vita: quarantatré anni e otto mesi. (p. 338)

• Mitard, la temibile cella di isolamento, […]. In teoria la reclusione in cella d’isolamento non dovrebbe superare i quarantacinque giorni, ma di recente è stato reso noto il caso di un detenuto che in pratica vi ha passato quasi tredici anni, durante i quali ha soggiornato in una sessantina di prigioni diverse. Secondo gli psichiatri ha contratto una «sindrome di deprivazione sociosensoriale» [Le Monde, 13 dicembre 2008]. (p. 340)

• […] Sovrappopolazione carceraria che oggi in Francia presenta dei picchi (oltre 67.000 detenuti nel 2008) (p. 343)

• Quello di nascondere e di nascondersi può anche essere un desiderio o un bisogno. La famosa pittrice messicana Frida Kahlo, nella sua residenza messicana, aveva fatto blindare la stanza da bagno attigua alla sua camera e vi aveva accumulato corrispondenza, documenti, oggetti, lettere d’amore, prove dei tradimenti e dei drammi che le imponeva la sua vita di donna malata e reclusa. Colpita dalla poliomielite, vittima di un terribile incidente che aveva reso necessaria l’amputazione di una gamba, nascondeva il suo handicap sotto un corsetto e delle lunghe gonne di foggia indiana. «Le apparenze ingannano», aveva scritto sul margine di un disegno che la raffigurava in piedi, bellissima e splendidamente vestita. Dietro la porta, nascosta da una tenda e sprangata, si accumulava un incredibile e polveroso guazzabuglio: decine di casse, scatole, pile di giornali, migliaia di libri, armadi pieni di abiti, corsetti, forzieri, un piccolo secrétaire con i cassetti sigillati, segreto nel segreto. Più di 22.000 documenti, 6.000 fotografie, centinaia di disegni. In quella camera aperta l’8 dicembre del 2004, cinquant’anni dopo la sua morte (1954) e dopo quella del suo infedele compagno Diego Rivera (1957), è custodito l’archivio di una vita tormentata e creativa […] [cfr. Babette Stern, La chambre secrète de Frida, Libèration, 6 luglio 2007] (pp. 344-345)

• Al secondo piano della Casa Bianca, la camera di Abramo Lincoln, oggetto di venerazione e santuario della Repubblica, in realtà era soltanto il suo ufficio, il luogo di riunione del Consiglio: là, nel 1863, aveva firmato l’editto di emancipazione degli schiavi. Harry Truman l’ha promossa al rango di camera da letto e Laura Bush l’ha riportata al presunto aspetto originario, in stile vittoriano. L’elemento centrale è un grande letto a due piazze in legno di rosa, con una testiera imponente. Almeno quello è autentico: pare che sia stato comprato da Mary Todd Lincoln all’epoca in cui, da brava padrona di casa, si occupava dell’arredamento. Anche se il presidente assassinato probabilmente non ha mai dormito in quella camera, essa è tuttora frequentata dal suo fantasma: Eleanor Roosevelt, Winston Churchill, Amy Carter e Maureen Reagan giurano di averlo visto. Il cane di Ronald Reagan abbaiava sulla soglia ma non entrava mai e le cameriere vi si avventuravano con molta esitazione. Oggi è il luogo dove il presidente in carica accoglie gli ospiti di riguardo. […] Il cancelliere Koll non ha visto il fantasma di Lincoln, ma si è detto emozionato per aver dormito in quella camera prestigiosa, […]. (pp. 349-350)

• Ritroviamo il ricordo di François Mitterrand a Château Chinon, al Vieux Morvan, l’albergo dove, tra il 1959 e il 1986, il deputato della Nièvre, divenuto presidente, ha passato tante serate elettorali. Dal 1946, il giovane deputato occupava la stanza 15 con veduta sul Morvan, non lontano dal monte Beuvray dove a suo tempo aveva pensato di farsi seppellire con Danielle. Là, il 10 maggio 1981, scopre di aver vinto e scrive la sua dichiarazione. Con la grossa chiave appesa al quadro, i 10 metri quadrati compresa la doccia, senza alcun lusso, semplice tappa per viaggiatori di commercio, la camera 15 divenne un marchio di austerità repubblicana allorché, agli inizi del secondo settennato, qualcuno cominciò a farsi delle domande sulle abitudini dispendiose, quasi monarchiche, ostentate dal presidente. […] La camera non ha più il piumino d’oca e la carta da parati a fiori gialli, ma ha conservato un fascino d’altri tempi e continua ad essere riservata in permanenza: è una tappa obbligata dei circuiti tematici organizzati dai tour operator, […].(p. 350)

• Nel castello della Wartburg (in Turingia) dove nel 1521-22 Lutero proscritto fu accolto da Federico il Saggio, sono ancora visibili, sulla parete della camera dove tradusse in tedesco la Bibbia, le tracce del calamaio lanciato in testa al diavolo tentatore che gli impediva di lavorare. (p. 351)

• […] A detta di Baudelaire, le finestre illuminate rivelano molto più di quelle semplicemente aperte: «Quello che si può vedere alla luce del sole è sempre meno interessante di quello che succede dietro a un vetro» [Charles Baudelaire, Les fenêtres, Le Spleen de Paris (1869), in Œuvres complete, Paris, Gallimard) (p. 360)