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 2012  marzo 04 Domenica calendario

LA VITA AL SUONO DEI CENTESIMI

Con questo racconto, intitolato «Un dono luminoso», il poeta friulano Pierluigi Cappello inizia la collaborazione con «Domenica» del Sole 24 Ore. Cappello, 43 anni, vincitore del premio Bagutta nel 2007 e Viareggio-Repaci nel 2010, è costretto sulla sedia a rotelle da quando, 16enne, ha avuto un incidente stradale in moto. Da allora è stato ricoverato diverse volte in ospedale per problemi di salute connessi all’incidente, ma non ha rinunciato all’indipendenza e al silenzio, necessari per dedicarsi alla poesia, alla scrittura in generale e alla lettura.
Vive da solo in un prefabbricato, donato alla popolazione friulana per il terremoto del 1976, a Tricesimo nella periferia di Udine con una pensione di invalidità e con i gettoni delle uscite per conferenze e lezioni, senza mai cedere alla lamentela: la sua casetta è un salottino confortevole. Recentemente la visita dei topi lo ha costretto ad andare a vivere nella casa materna dove le barriere architettoniche gli hanno impedito i movimenti e la concentrazione. In questa occasione la stampa, gli amici, un gruppo di fedeli che lo sostiene su facebook si sono mossi per chiedere a suo favore la legge Bacchelli, soluzione che Cappello ha sempre rifiutato, nonostante la possibilità di un sostegno da parte dello Stato gli fosse sempre stata ventilata. «Aspettiamo, aspettiamo», rispondeva sempre con un sorriso. Non è nella sua indole domandare o pietire, anzi. Ora, anche dopo la recente scomparsa della madre, è tornato nel suo prefabbricato, mentre la legge Bacchelli prosegue il suo iter.
Intanto potremo godere della sua prosa su «Domenica», che in ossequio anche al suo «Manifesto per la Cultura», arriva prima dello Stato.

Mi sono svegliato tardi, stamattina. Sono un po’ bradicardico e soffro di pressione bassa, così a ogni risveglio la mia testa è una palla di fieno e faccio le cose con grande lentezza. Devo avere anche una lacrimazione abbondante perché gli occhi sono sempre lucidi e bruciano un poco, agli orli e sotto le ciglia. La mia vicina di casa passa da me ogni mattina a portare il pane e il giornale. Oggi è passata verso le nove, novanta centesimi il giornale e ventiquattro centesimi il pane; dentro l’acquario in cui sono, ho fatto i calcoli con fatica, centoquattordici centesimi. Le ho lasciato l’uomo perfetto di Leonardo, un Botticelli d’ottone, due monete di rame con la Mole Antonelliana.
Sono un appassionato di numismatica, quando sono costretto, come stamattina, a considerare gli spiccioli, non posso non fermarmi a valutarne peso, misura, proporzioni. La moneta da un euro è davvero bella. Le monete sono storia concentrata, un peso leggero sul palmo. Tre anni fa ragionavamo in lire, cento lire, duecento lire, mille lire; a me, questa storia del ragionare in centesimi, all’inizio sapeva un po’ di "faccetta nera": mio padre ragionava in centesimi, venti, cinquanta centesimi in acciaio, da una parte l’aquila col fascio, dall’altra un profilo volitivo del re che il poveretto nella realtà non aveva, attorno la scritta, monumentale e in caratteri romani: VITT. EM. III. RE. E IMP., nel 1940. Quando c’è stato il cambio lira-euro, io ero in ospedale, finalmente l’Europa era un peso e un diametro sul palmo, basta con i millesimi alti, duecento, cinquecento, addirittura mille, e col confronto umiliante con gli altri Paesi europei, la Germania, ad esempio, 5: cinque marchi, la Svizzera, 5: cinque franchi, la Francia, 10: dieci franchi. Adesso anche noi, con leggerezza e con vanto, potevamo ragionare su misure circoscritte: un euro, due euro. Con grande progresso e senso di euforia e preoccupazione. Proprio mentre ero lì, in ospedale, i tecnici stavano adattando le macchinette automatiche da caffè al nuovo corso. Le macchinette al «Santa Maria della Misericordia» sono sistemate nei sotterranei; là sotto, nei tunnel, passa di tutto, un po’ come in Underground, il film di Kusturica: infermiere in bicicletta che sfilano i muri e tagliano gli incroci, piccoli trattori elettrici, condotti con noia sovietica, trainano convogli di carrelli pieni di biancheria sporca, il siero e il sangue spesso visibili. Gruppi con primario si muovono con la lentezza dell’ambiente, il primario con maestà, una balena col suo branco di pesci pilota. Così, uscendo dallo scroscio delle porte graffite degli ascensori, i malati devono muoversi con grande prudenza, ben vicini alla linea rassicurante dei muri, essendo, di quella fauna, gli animali più esposti e trascurabili.
Io, per i miei caffè, mi ero scelto una macchinetta disposta ai margini di uno slargo, dove i corridoi confluivano a formare una specie di piazza sotterranea, vicino al pronto soccorso, sopra il pronto soccorso le due (o tre) terapie intensive. Ero uscito da poco da una camera semi-intensiva, non chiedetemi il perché. In semi-intensiva potevo ricevere soltanto una visita alla volta, chi veniva a trovarmi doveva vestirsi con un camice verde, aumentando la distanza tra il mondo dei vivi e il mondo dei sommersi al quale in quel momento appartenevo. Tutto l’affetto neutralizzato da un camice verde di carta.
Mi piaceva andare alla macchinetta del caffè, era un ritorno alla vita, un’alba dalla luce ancora calcarea uscita dalla notte da cui provenivo. Mi piaceva inserire le monetine nella macchina, tintinnanti. Aspettare il suono sordo della tazza di plastica, un clock morbido seguito dal liquido bruno che vi colava dentro somigliando al caffè. Anche il calore del bicchiere sui polpastrelli mi piaceva, la saccarina sul palato, il caldo sulla punta della lingua. E poi la sigaretta, quel senso sottile di violazione che dà aspirandola, fino in fondo, dalla trachea ai polmoni.
In genere, per fumare, mi avvicinavo a una grande porta a vetri profilata in alluminio, poco lontana dalla macchinetta. Li ho visti arrivare così: un riflesso dentro un vetro. Due infermieri da terapia intensiva, le mascherine slacciate che pendevano sul petto, una decorazione.
Lui tirava il letto con una sola mano, davanti, lei, dietro, lo spingeva con tutte e due. Hanno parcheggiato il letto davanti alla macchinetta, di traverso, in modo che biciclette, uomini e carrelli dovevano fare un giro largo per evitarlo. Il letto era uno scoglio dentro un fiume. Su quello scoglio c’era il corpo di un essere umano, un uomo che camminava, scalzo, sulla lama affilata che separa la vita dalla morte, c’era anche un respiratore, quelle palle di gomma nere che si vedono nei telefilm americani, alla spalliera un monitor: registra pressione, frequenza cardiaca, saturazione, è dotato di un allarme nel caso il malato dovesse dar segno di andare al creatore. Tubi in lattice, flebo, cateteri, aste e sostegni d’alluminio completavano l’equilibrio di quel quadro, a metà tra il tecnologico e il cigolante.
Gli infermieri erano entrambi belli o così, magari, è parso a me che ogni giorno vedevo passare dentro i letti corpi di vecchi attraversati dal bisturi, qualcosa di disordinato e contratto, il corpo di un ragno schiacciato nel disordine delle lenzuola. Dove c’è la bellezza, la violenza assume proporzioni più intense, la bellezza diventa un sorriso crudele. Sono rimasti lì un bel po’, hanno bevuto il caffè, hanno scherzato. Una bella donna bruna vestita di verde, gli occhi color bosco vivo, un seno pieno e l’aria di bersi il sole con un sorso soltanto, un uomo bruno, dal sorriso sano, gli avambracci scuri e le mani forti.
Tra loro e noi, la distanza che c’è tra l’iperuranio dell’uomo di Leonardo raffigurato sulle monete da un euro e l’inferno. L’inferno è una dimensione così, domestica. Poi se ne sono andati, con calma, portandosi via il mio sguardo, le lacrime che erano mie. So che mi sono vergognato e mi sono sentito come un magredo arso, una scarpata di sassi. Deposto il cuoio e il bronzo delle nostre difese, piangere è un dono luminoso. Qualche volta soltanto, però.